2024-07-29
Gaetano Quagliariello: «Sulle riforme chiave lo scontro totale si può ancora evitare»
Gaetano Quagliariello (Ansa)
Il presidente di Fondazione Magna Carta: «La maggioranza deve trattare, facendo emergere i pregiudizi dell’opposizione». Il ruolo di Forza Italia sempre più centrale come partito attrattivo dell’elettorato moderato del quale non si può fare a meno se si vogliono vincere le prossime elezioni; la riforma dell’Autonomia da migliorare anche per disinnescare il muro contro muro scatenato dalla sinistra; il premierato trasformato dall’opposizione in uno strumento per disarcionare Giorgia Meloni come occasione mancata per il Paese. Gaetano Quagliariello, presidente di Fondazione Magna Carta e direttore della School of government della Luiss, passa in rassegna le partite politiche sul tappeto. Cominciamo dall’Autonomia differenziata. La raccolta delle firme per il referendum è partita al grido di «bisogna evitare la spaccatura del Paese». Qual è la reale posta in gioco? «Il proposito di non spaccare il Paese è condivisibile. Proprio per questo, prima di giungere all’extrema ratio del referendum, bisognerebbe provare con la politica. L’Autonomia differenziata, di per sé, non è un male per il Sud. Ci sono, però, almeno tre aspetti della riforma sbagliati e anacronistici». Quali? «Il primo è proprio l’elenco delle materie sulle quali può essere richiesta maggiore autonomia. Alcune, francamente, fanno sorridere: l’energia, le grandi reti di distribuzione sono temi per i quali a stento è significativo il contesto continentale. Figuriamoci se li si può trattare a livello regionale! Manca, poi, un limite al numero di materie per le quali può essere richiesta maggiore autonomia. Se vi fosse, ogni regione sarebbe spinta a evidenziare le proprie peculiarità. Si avrebbe così un autonomismo realmente differenziato e, al contempo, solidale. Poter richiedere l’autonomia su tutte le materie, trasforma la legge in una scorciatoia per creare autonomie speciali, oltre a quelle stabilite dalla Costituzione. Infine, manca una norma di “supremazia nazionale”, che dia allo Stato la possibilità di richiamare a sé una determinata materia, in circostanze emergenziali. Tale clausola è prevista persino in ordinamenti perfettamente federali come quello americano e tedesco. La maggioranza dovrebbe prendere un’iniziativa per migliorare la riforma ed evitare lo scontro frontale». Ma lo scontro è già partito. «La politica è un’arma che si può utilizzare anche per disinnescare perniciose conflittualità. La maggioranza, su questa materia, dovrebbe far politica». Ci sono i margini per cambiare il testo e spuntare così le armi alla polemica da sinistra? «Un’iniziativa, assunta per tempo, sarebbe fortemente spiazzante». Quando andrebbe fatta? «Prima dell’indizione dell’eventuale referendum ma il dibattito potrebbe essere innescato già ora. Si avrebbe il duplice effetto di migliorare il testo e costringere l’opposizione a precisare i motivi della propria contrarietà, uscendo dalla genericità. Credo, però, che non tutte le componenti della maggioranza siano persuase che lo scontro vada evitato, scommettendo sul difficile raggiungimento del quorum nel referendum». Forze che vogliono lo scontro, a chi allude? «Alla Lega. Il partito ha cambiato pelle: da forza nordista si sta trasformando in una forza nazionale di estrema destra. Un eventuale scontro referendario sull’autonomia le concederebbe di sommare alla nuova identità qualcosa di quella originaria». Un altro terreno di scontro acceso è quello sul premierato. La strada del dialogo è ancora possibile? «Il dialogo, in realtà, è bloccato da un paradosso. Le Europee sono tornate a disegnare un’Italia bipolare, con due forze egemoni nei rispettivi campi. Fdi e Pd, dunque, avrebbero un interesse oggettivo per una riforma che legittimi questo stato di fatto. Entrambe, invece, sembrano spingere affinché il tema diventi divisivo». Con quale finalità? «L’opposizione - in particolare il Pd - ritiene che su questo terreno, in un eventuale referendum, sia possibile dare una spallata definitiva al governo. Questa prospettiva prevale su ogni ragionamento razionale e porta a sostenere tesi prive di senso compiuto». Ovvero? «Dire che il premierato così come previsto dalla riforma abbia bisogno di esser rivisto è sacrosanto; dire che per valutare la riforma c’è bisogno di conoscere la legge elettorale che a essa si abbina, è più che sensato; affermare, invece, che il premierato sarebbe un pericolo per la democrazia, è un’emerita sciocchezza». Gli interessi di bottega prevalgono su quelli del Paese? «Non è una novità. È mezzo secolo che il Paese aspetta di sciogliere il nodo dei poteri dell’esecutivo, che i padri costituenti hanno lasciato in legato alle generazioni successive. Quel che c’è di nuovo è che le proposte che potrebbero correggere positivamente la riforma sono iscritte nella storia della sinistra. Uomini come Cesare Salvi, Michele Salvati o Enrico Morando, chiedendo alla propria parte di riaprire il dialogo, testimoniano di una storia che altri, invece, vogliono cancellare. Il presidente della Corte costituzionale Augusto Barbera è andato persino oltre, affermando che la forma di governo non solo “può” essere corretta ma “deve” essere corretta: altro che deriva plebiscitaria!». Esiste un modello di premierato da importare? «Quello inglese. Esso, però, ha alle spalle una tradizione ultrasecolare fondata sull’esistenza di due partiti che si sono reciprocamente legittimati. Laddove non esiste questa storica convenzione, essa è difficile da creare attraverso l’ingegneria costituzionale. L’Italia è andata vicino al “premierato realizzato” quando, a cavallo tra i due secoli, il bipolarismo era quasi perfetto e il nome del premier veniva indicato da entrambe le coalizioni. Se ci fosse intesa, si potrebbe formalizzare, a livello costituzionale, ciò che la storia ha già sperimentato attraverso i fatti. Il momento sarebbe favorevole, perché dopo una parentesi di quasi dieci anni, il quadro politico si è nuovamente bipolarizzato». Cosa ci dovrebbe insegnare l’esito delle elezioni in Francia? «La Francia è un sistema semipresidenziale, con peculiarità assai specifiche. Le ultime sue vicende, soprattutto se lette in parallelo con quelle inglesi, ci dicono, semmai, dell’importanza che riveste la legge elettorale nella determinazione del potere. In Italia, per lungo tempo, si è provato a modificare la sostanza del governo agendo esclusivamente sulla legge elettorale, dimenticandosi della Costituzione. Oggi si rischia l’errore opposto: ritenere disposizioni costituzionali e legge elettorale materie a sé stanti, che possano, perciò, essere trattate separatamente». Il No di Fratelli d’Italia alla conferma di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea è stato criticato. A sinistra si sostiene che l’Italia è condannata alla marginalità. Lei come la vede? «Io l’avrei votata e, se mi fosse stato richiesto un parere, avrei consigliato a Giorgia Meloni di votarla. Ritengo, però, che l’importanza di quel voto non vada sopravvalutata. A breve la vicenda europea proporrà altri tornanti, ben più impegnativi. Meloni ha fin qui svolto un ruolo di cerniera importante tra europeisti atlantisti e ambienti euroscettici. La premier ha avuto un ruolo rilevante in vicende quali la guerra russo-ucraina e quella tra Israele e Hamas. Ben oltre il voto sulla Von der Leyen, quel che andrà compreso, allora, è se nei prossimi mesi, con le elezioni americane sullo sfondo, ella sarà in grado di conservare questo ruolo cruciale». L’elezione di Donald Trump appare scontata, che prospettive apre per l’Europa e l’Italia? «Gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato a prescindere dal nome del presidente. Bisogna estirpare quel vizio antico, radicato a sinistra, per il quale gli Usa assurgono a riferimento solo se il presidente è un liberal. I quattro anni della presidenza Trump, tra l’altro, non sono da condannare in toto: in politica estera, in particolare, il bilancio è stato migliore di quello del suo predecessore. Va detto, d’altro canto, che per un liberal conservatore attento alle tradizioni e alle istituzioni, quel che è accaduto a Capitol Hill e il ruolo che Trump vi ha avuto, è inaccettabile: va condannato senza se e senza ma. Un’eventuale nuova presidenza Trump porrà delle sfide inedite all’Europa: per la politica estera isolazionista che potrebbe favorire Vladimir Putin e per l’annunciata guerra commerciale. È rispetto a queste sfide che Meloni dovrà scegliere, evitando la sindrome del tennista che, non sapendo se giocare a rete o da fondo, resta a metà del campo, subendo l’inevitabile passante dell’avversario». Lei è stato un parlamentare di Forza Italia, come giudica le dichiarazioni di Marina e Piersilvio Berlusconi? C’è la necessità di rifondare il partito? «Fi ha dimostrato una resilienza e una capacità di trovare un suo ubi consistam non scontati e non facili da pronosticare dopo la morte di Berlusconi. Proprio questi successi le consentono, se lo vorrà, di avere un ruolo da protagonista nella partita che concerne il “centro politico”, apertasi dopo l’insuccesso di quelli che lo avrebbero voluto come Terzo polo autonomo. In un futuro assai prossimo risulteranno ancora più evidenti di oggi i tentativi di organizzare il centro di un nuovo centro-sinistra. Il ridimensionamento dei 5 stelle consente, infatti, a un’area centrista di poter immaginare un proprio ruolo anche su quel versante politico. Ciò renderà meno scontata la partita elettorale. In tale scenario, su Fi grava una responsabilità che va oltre la sua vicenda di partito. Non basta più “resistere”. Bisognerà immaginare le modalità per tener agganciato l’elettorato centrista alla coalizione governativa. Sennò, vincere le prossime elezioni non sarà scontato e, forse, neppure probabile. Per questo, servirebbe la graduale trasformazione del partito carismatico in un partito che, per altre vie, torni a essere la casa di tutti i moderati. Non sono un interprete né ufficiale né affidabile, ma le dichiarazioni di Marina e Piersilvio mi sono sembrate uno stimolo in tal senso».
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