
Gli oligarchi riportano in Russia i soldi
L’ultimo in ordine di tempo è Viktor Vekselberg. Lo scorso sei aprile, l’oligarca sanzionato a capo del gruppo Renova, «rimpatriato» la sua holding Beluna Investments da Cipro a Oktyabrsky, nella regione di Kaliningrad.
RITORNO A CASA
Con l’invasione dell’Ucraina e le sanzioni occidentali contro la Russia, le imprese russe e i loro amministratori, gli oligarchi hanno spostato velocemente i propri fondi dai paradisi fiscali occidentali alle Zone amministrative speciali nel territorio russo, come l’isola di Oktyabrsky di fronte alle coste di Kaliningrad o l’isola Russkiy nella regione orientale di Vladivostok. Alla fine di marzo si era trasferita a Russkiy la cipriota Wandle holdings, il principale azionista del gruppo minerario Polyus. Dietro alla Wandle holdings c’è Said Kerimov, che non è tra gli uomini d’affari sanzionati ma è figlio di Suleiman Kerimov, oligarca ed ex politico, legato a Putin e sanzionato dagli Usa. Kerimov sarebbe il proprietario del megayacht Amatea, attualmente ormeggiato alle Isole Fiji che le autorità Usa stanno cercando di sequestrare.
CACCIA AGLI YACHT
Una misura che i legali della società che risulta intestataria del megayacht - la Millenarian Investment dele Isole Cayman - stanno cercando di contrastare, indicando nel reale proprietario un altro cittadino russo, Eduard Khudainatov.
I CONTI NON TORNANO
Si tratta dell’ex presidente di Rosneft, salito agli onori delle cronache perché risulterebbe - almeno sulla carta - il proprietario di un altro megayacht, lo Scharazade. Ovvero, quello che secondo la fondazione di Navalny - e secondo le autorità Usa - sarebbe invece in realtà di Vladimir Putin in persona e che attualmente è ormeggiato a Marina di Carrara. Il problema, nota Alex Finley - ex Cia - su Twitter, è che la ricchezza personale di Khudainatov, anche lui con interesse nel settore dell’oil and gas, è stimata in 700 milioni di dollari. Mentre i due yacht sono costati rispettivamente 700 milioni lo Scharazade e 400 milioni l’Amatea.Con il trasferimento in Russia, Said si è dimesso dagli incarichi nella holding. Anche Oleg Deripaska, uno degli uomini più ricchi di Russia, a capo del colosso Rusal, ha trasferito le sue attività nella regione di Kaliningrad. Nel suo caso prima dell’inizIo della guerra in Ucraina. A muoversi per tempo era stato anche Vladimir Potanin. A metà dicembre la holding Iterros Capital, azionista del gigante del nickel Norilsk, ha registrato il proprio domicilio nell’Isola di Russkiy. Così come il gigante dei fertilizzanti Uralchem, che fa capo a Dmitry Mazepin, nello stesso periodo, ha portato la sede nell’isola di fronte alle coste di Kaliningrad.
SUPPORTO ATTIVO
L’operazione di rimpatrio ha avuto il supporto attivo del Cremlino, secondo quanto riporta Intelligence Online. Che sottolinea come fino alla fine del 2021 il ministero delle finanze russo era al contrario molto attento nell’attenersi alle disposizioni della Commissione Europea, che minacciava di includere le due «zone speciali» nell’elenco delle aree fiscalmente «dannose» per la Ue.
ZONE SPECIALI
Preoccupazione che con le sanzioni internazionali non hanno più ragione di esistere. Lo stesso Intelligence Online notava come a fine marzo il ministro dello sviluppo economico, Maxim Reshetnikov, abbia sottolineato i vantaggi del «rimpatrio» degli asset russi all’estero, dopo che lo stesso giorno la Duma ha approvato un provvedimento per espandere i benefici delle due «zone speciali» per le nuove attività.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Da 56 giorni i genitori non vedono i figli. Gli assistenti sociali però non rispondono
«Voglio sapere dove sono i bambini. Sono passati 56 giorni senza vederli. Neppure una telefonata. Non sappiamo come stanno, cosa mangiano, se dormono…». Le lacrime scivolano giù con dignità sul bel volto di mamma Nadya, mentre si siede con noi sulla panca fuori, all’ingresso di casa. Siamo nel bosco di Caprese Michelangelo, piccolo borgo in provincia di Arezzo. «Con mio marito Harald», racconta Nadya, «siamo andati più volte ai servizi sociali. Ci hanno detto che non possiamo vederli perché sono in un luogo segreto. Tutto questo è un abuso. Una violenza che viene fatta a noi e ai nostri figli».
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.














