
Solo i pochi ricchi si permettevano banchetti luculliani: la plebe mangiava polenta. E spesso si sfamava una sola volta al giorno.Va molto di moda, in questo periodo di dominio delle bizze politicamente corrette, andare a ricercare le origini del proprio Dna entusiasmandosi solo se compare una percentuale che appartiene al Sud del mondo. Negli Usa l'african american Dna test è diventato una moda che ha epigoni anche qui. Insomma, se una volta esaltavamo le «mogli e buoi dei paesi tuoi», oggi è il contrario. E se intorno a noi cresce sempre di più questo conformismo dell'esaltazione dei Paesi altrui, come se i propri non avessero valore, noi vogliamo andare a ricercare gli avi che al progressista xenofilo possono sembrare banali, ma non lo sono: gli antichi Romani. Volenti o nolenti, qualunque italiano e, in generale, europeo, può dire «Civis romanus sum», cioè «sono cittadino romano», la locuzione latina dell'appartenenza all'Impero citata anche da Cicerone nelle orazioni Verrine. La battuta del film Brian di Nazareth, seppure apparentemente sarcastica, rende a pieno la vastità dell'eredità di civiltà lasciataci dagli antenati romani: «Va bene! Ma a parte le fognature, vino, medicina, istruzione, asini pubblici in orario, ordine pubblico, irrigazione, strade, spiagge libere non inquinate, bilancio dei pagamenti in attivo, che cosa hanno fatto i Romani per noi?».Facciamo un giro nel rapporto tra Romani e cibo e scopriamo come, nel bene e nel male, abbiamo molto in comune con loro e dovremmo ricordarlo per rettificare la rotta dove occorre. La prima alimentazione dell'antica Roma prediligeva cibi salutari e immediatamente disponibili: quello che oggi chiamiamo «chilometro zero» la faceva da padrone. Poi, espandendosi ed entrando in contatto, in senso sia commerciale sia militare, con altre culture meno votate all'essenzialità, i Romani scoprirono il gusto dell'abbondanza e della complessità, restandovi imprigionati. I momenti salienti di questa evoluzione, che per molti fu un'involuzione, sono rappresentati da due libri: il De agri cultura di Catone il Censore, del 160 a.C., e il De re coquinaria di Apicio, datato I secolo d.C. «Se Apicio è un raffinato gourmet, o comunque un esperto di cucina, Catone è il severo custode del mos maiorum, e, fra tutte le indicazioni e prescrizioni relative alla gestione di un fondo agricolo di medie dimensioni, troviamo anche una serie di ricette», spiega Silvia Stucchi nell'appassionante libro A cena con Nerone. Viaggio nella cucina dell'antica Roma (edizioni Ares). Il mos maiorum è il «costume degli antenati» e, nel corso del tempo e con l'ellenizzazione della cultura latina, quelle abitudini morali da seguire diventano virtù. Le fondamentali erano fides, fedeltà, lealtà, fede, fiducia, reciprocità tra i cittadini; pietas, pietà, devozione, patriottismo, dazio; maiestas, sensazione di superiorità, di appartenenza a un popolo civile; virtus, coraggio, attività politica e militare; gravitas, rispetto per la tradizione, serietà, dignità, autorità.La storia della popolazione indoeuropea del gruppo italico e del subgruppo latino-falisco costituita dai Romani, popolo stanziatosi prima a Roma e nel Lazio, poi diffusosi in tutta l'Italia e successivamente nel bacino del Mediterraneo, ha tre età: l'età regia, che inizia con la fondazione di Roma nel 753 a.C. con Romolo e termina nel 509 a.C. con Tarquinio il Superbo. Poi, l'età repubblicana che termina de facto nel 27 a.C. (de jure prosegue almeno fino al 235 d.C., nella forma del principato) con Gaio Giulio Cesare Ottaviano e Marco Vipsanio Agrippa; infine l'età imperiale fino al 395, quando, dopo la morte di Teodosio I, l'Impero fu suddiviso in una pars occidentalis e in una pars orientalis. L'Impero romano d'Occidente si fa terminare per convenzione nel 476, quando Odoacre depone l'ultimo imperatore, Romolo Augustolo, mentre l'Impero romano d'Oriente (anche detto Impero bizantino nella fase medievale) giunge fino alla conquista di Costantinopoli da parte degli Ottomani, nel 1453. Nella sua massima espansione imperiale, lo Stato romano che si consolida nell'area euromediterranea tra il I secolo a.C. e il XV secolo si estende su 52 dei 208 Stati del mondo di oggi, sui 3 continenti Europa, Africa e Asia. All'inizio, i nostri antichi Romani vivevano secondo parsimonia veterum, la cosiddetta frugalità degli antichi: mangiavano per lo più puls cioè polenta. Seneca, che visse dal 4 al 65, scrisse, critico verso il pane, che «di polta e non di pane vissero per lungo tempo i Romani». La sobrietà alimentare era un caposaldo della romanità: Virgilio racconta che sulle navi di Enea i marinai di Troia si nutrivano solo di polenta di farro, pesce pescato in navigazione e un po' di carne rimediata nelle soste in porto. Oppure garum, l'insaporitore più diffuso presso i Romani: era una salsa liquida ottenuta dalla salatura e fermentazione di pesce, in particolare acciughe, ed erbe, la cui ricetta più completa è stata lasciata da Marziale: «Si prendano pesci grassi come salmoni, anguille, salacche, sardine; quindi a tali pesci si uniscano sale, erbe aromatiche secche come aneto, menta, levistico, puleggio, timo, serpillo, coriandolo, sedano, origano, ruta, salvia, santoreggia e altre. Di queste erbe si disponga un primo strato sul fondo di un capace vaso; sovra si ponga uno strato di pesci: interi se piccoli, a pezzi se grossi; si copra con uno spesso strato di sale e si ripeta l'operazione fino a che il vaso sia colmo. Si chiuda quindi con un coperchio e si lasci riposare per sette giorni. Poi, per 20 giorni, si rimescoli il tutto. Alla fine si raccolga il liquido che ne colerà». Esistevano vari tipi di garum e con la parte solida si otteneva l'allec, simile all'odierna pasta di acciughe, molto apprezzata anche dal popolo che la spalmava sul pane. Tornando alla puls, facendo una battuta - affettuosa - potremmo dire che i polentoni non sono i norditaliani, lo erano già i romani. La puls era la base dell'alimentazione, l'antenato del pane e dell'odierna pasta. Poltiglia di farine e tritelli di cereali come miglio, prevedeva un companatico detto pulmentaria che era composto soprattutto da legumi e ortaggi. Alla puls fitilla di miglio cotta nel latte di capra o pecora, si affianca la polenta di orzo e poi, infine, la puls farrata o farratum, più proteica di quella di miglio e fatta con spezzato di farro, cereale che, quando l'area romana si espande, viene soppiantato dal frumento, con il quale ben presto si farà direttamente il pane che a sua volta spodesterà la puls. C'erano tre tipi di pane: il candidus, con farina bianca finissima, il secundarius, sempre bianco ma con farina miscelata e il plebeius o rusticus, una specie di pane integrale per la plebe.Quando Roma entra in contatto in età ellenistica con i Greci della Magna Grecia, impara a mangiare olive e uva che invece fino ad allora aveva usato per i riti religiosi. Con la conquista dell'Oriente e i rapporti commerciali con l'Asia, arriva a Roma tutto quanto mancava, a partire dalle spezie, e il cibo non è più solo un mezzo di sostentamento, perché diventa anche oggetto di cultura gustativa e visiva che troppo spesso degenera in edonismo fine a sé stesso, proprio come accade oggi. Se questo può essere considerato il primo insegnamento, non discostarsi troppo dal cibo come assunzione frugale della quale essere anche grati, proprio come insegna anche la religione cristiana condannando golosità, ingordigia e vanità, e non chiedergli di rappresentare altro, un altro monito che troviamo nei nostri avi romani è quello di suddividere con criterio i pasti della giornata e, alla bisogna, far ricadere in uno gli avanzi dell'altro. Oggi viviamo in un riciclismo ottuso di matrice progressista che fa credere possibile conciliare la sovrapproduzione ipercapitalistica con l'ecologia, ma non lo è. Per avere meno spreco, serve produrre meno, cominciando dalla propria cucina. Se si è cucinato in più, perché non mangiare l'esubero nei pasti successivi, invece di gettarlo via? Così facevano i Romani. Essi avevano tre pasti quotidiani: jentaculum, prandium e coena, colazione, pranzo e cena. Quando si facevano, i primi due pasti erano frugali, ma spesso non si facevano nemmeno tutti e tre. I soldati mangiavano soltanto il prandium, Marziale faceva uno jentaculum con pane e formaggio (abitudine che potremmo riscoprire anche noi: la colazione salata evita gli eccessi di zuccheri che caratterizzano la nostra colazione dolce) e un prandium con carne fredda, verdura, frutta e un bicchiere di vino con acqua. Il vino veniva sovente diluito, in estate con acqua fredda, in inverno calda. Ricordiamocelo, oggi che persino gli adolescenti finiscono in coma etilico perché beviamo alcolici e superalcolici in quantità industriali e non di certo diluiti. La più parte dei romani per colazione beveva un bicchiere d'acqua o gli avanzi della sera e consumava il prandium nelle tabernae (cioè le osterie) dove mangiava pane con companatici semplici come uova sode, formaggio, legumi e beveva vino (sempre mescolato con acqua). Oggi va molto di moda la dieta del digiuno intermittente. Consiste nel digiunare per 16 ore, mangiando nelle rimanenti 8, saltando di solito la colazione o la cena. Beh, già nell'antica Roma il pasto principale era solo uno al giorno, non due. Occhio, però: anche la Stucchi allude ai «ricchi banchetti che ci figuriamo quando sentiamo parlare dei cibi di Roma antica e che viene ben sintetizzato da una celebre tela, I Romani della decadenza, di Thomas Couture, attualmente conservata al Musée d'Orsay di Parigi, nella quale i triclini sono coperti dall'opulenza di persone e di atteggiamenti, oltre che di cibo.Secondo lo storico Jérôme Carcopino, su un milione di abitanti della Roma augustea del II secolo le domus, cioè le case patrizie monofamiliari, con servitù e triclini per mangiare semidistesi, erano appena 1.780, circa lo 0,2%. Se il ceto dominante, i ricchi, gli aristocratici e gli intellettuali che oggi chiameremmo élites, viveva come nella tela di Couture, il resto della popolazione mangiava non diciamo per terra, ma certamente seduta su panche attorno a un tavolo. Viveva nei condomini, in stanze in affitto nelle insulae, case alte fino a 8 piani, con la cucina in comune detta culina e l'acqua bollente in vendita nei thermopolia, i bar, al piano terra. La persona normale vedeva il triclinio, se aveva messo da parte i soldi, soltanto in affitto per il pranzo di nozze alla taberna. Il banchetto come cena, uso dei ricchi, serviva anche a ostentare: «Non è sufficiente, per te, Tucca, essere goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire...», scriveva Marziale negli Epigrammi. Sono rimasti nella storia i banchetti di Nerone, che duravano 12 ore, da mezzogiorno a mezzanotte, e nella storia letteraria, ispirando anche Federico Fellini e il suo film Fellini Satyricon, il banchetto inventato da Petronio nel Satyricon, la cena di Trimalcione, al centro di un ampio frammento dell'opera giunto fino a noi. In essa Trimalcione, che ricorda l'arroganza, la volgarità e la bramosia di certi influencer contemporanei tanto famosi e ricchi quanto idioti, è un arricchito che durante questa cena propone ai poveri ospiti di tutto e di più, sottoponendoli a un'indigestione non soltanto di cibo, ma anche del proprio narcisismo esibizionista. Trimalcione si accoppia con il suo amasio, lo schiavo-amante, tra una portata e l'altra e la fantasia non è molto distante dalla realtà, considerato che nei banchetti veri c'erano anche le ballerine e ci si lasciava andare ai rutti e - secondo il decreto dell'imperatore Claudio che li aveva legittimati - ai peti, sottoponendo stomaco e intestino ad abbuffate che alla fine l'Impero, franando, non riuscì a sostenere. Meglio imitare i romani, allora, dell'epoca frugale.
Lirio Abbata (Ansa)
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(Stellantis)
Nel 2026 il marchio tornerà a competere nella massima categoria rally, dopo oltre 30 anni di assenza, con la Ypsilon Rally2 HF. La storia dei trionfi del passato dalla Fulvia Coupé alla Stratos alla Delta.
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Lo ha annunciato uno dei protagonisti degli anni d'oro della casa di Chivasso, Miki Biasion, assieme al ceo Luca Napolitano e al direttore sportivo Eugenio Franzetti: la Lancia, assente dal 1992 dalla massima categoria rallystica, tornerà protagonista nel campionato Wrc con la Ypsilon Rally2 HF. La gara d'esordio sarà il mitico rally di Monte Carlo, in programma dal 22 al 26 gennaio 2026.
Lancia è stata per oltre quarant’anni sinonimo di vittoria nei mondiali di Rally. Un dominio quasi senza rivali, partito all’inizio degli anni Cinquanta e terminato con il ritiro dalle competizioni all’inizio degli anni Novanta.
Nel primo dopoguerra, la casa di Chivasso era presente praticamente in tutte le competizioni nelle diverse specialità: Formula 1, Targa Florio, Mille Miglia e Carrera. All’inizio degli anni ’50 la Lancia cominciò l’avventura nel circo dei Rally con l’Aurelia B20, che nel 1954 vinse il rally dell’Acropoli con il pilota francese Louis Chiron, successo replicato quattro anni più tardi a Monte Carlo, dove al volante dell’Aurelia trionfò l’ex pilota di formula 1 Gigi Villoresi.
I successi portarono alla costituzione della squadra corse dedicata ai rally, fondata da Cesare Fiorio nel 1960 e caratterizzata dalla sigla HF (High Fidelity, dove «Fidelity» stava alla fedeltà al marchio), il cui logo era un elefantino stilizzato. Alla fine degli anni ’60 iniziarono i grandi successi con la Fulvia Coupè HF guidata da Sandro Munari, che nel 1967 ottenne la prima vittoria al Tour de Corse. Nato ufficialmente nel 1970, il Mondiale rally vide da subito la Lancia come una delle marche protagoniste. Il trionfo arrivò sempre con la Fulvia 1.6 Coupé HF grazie al trio Munari-Lampinen-Ballestrieri nel Mondiale 1972.
L’anno successivo fu presentata la Lancia Stratos, pensata specificamente per i rallye, la prima non derivata da vetture di serie con la Lancia entrata nel gruppo Fiat, sotto il cui cofano posteriore ruggiva un motore 6 cilindri derivato da quello della Ferrari Dino. Dopo un esordio difficile, la nuova Lancia esplose, tanto da essere definita la «bestia da battere» dagli avversari. Vinse tre mondiali di fila nel 1974, 1975 e 1976 con Munari ancora protagonista assieme ai navigatori Mannucci e Maiga.
A cavallo tra i due decenni ’70 e ’80 la dirigenza sportiva Fiat decise per un momentaneo disimpegno di Lancia nei Rally, la cui vettura di punta del gruppo era all’epoca la 131 Abarth Rally.
Nel 1982 fu la volta di una vettura nuova con il marchio dell’elefantino, la 037, con la quale Lancia tornò a trionfare dopo il ritiro della casa madre Fiat dalle corse. Con Walter Röhrl e Markku Alèn la 037 vinse il Mondiale marche del 1983 contro le più potenti Audi Quattro a trazione integrale.
Ma la Lancia che in assoluto vinse di più fu la Delta, che esordì nel 1985 nella versione speciale S4 sovralimentata (S) a trazione integrale (4) pilotata dalle coppie Toivonen-Wilson e Alen-Kivimaki. Proprio durante quella stagione, la S4 fu protagonista di un drammatico incidente dove morì Henri Toivonen assieme al navigatore Sergio Cresto durante il Tour de Corse. Per una questione di giustizia sportiva il titolo piloti fu tolto alla Lancia alla fine della stagione a favore di Peugeot, che era stata accusata di aver modificato irregolarmente le sue 205 Gti.
L’anno successivo esordì la Delta HF 4WD, che non ebbe rivali con le nuove regole del gruppo A: fu un dominio assoluto anche per gli anni successivi, dove la Delta, poi diventata HF Integrale, conquistò 6 mondiali di fila dal 1987 al 1992 con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Lancia si ritirò ufficialmente dal mondo dei rally nel 1991 L’ultimo mondiale fu vinto l’anno successivo dal Jolly Club, una scuderia privata appoggiata dalla casa di Chivasso.
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