2025-02-08
In Friuli l’archeogastronomia è viva e vegeta
Oltre ai prodotti nobili come il prosciutto di San Daniele, nell’estremo Est d’Italia sopravvivono grazie alla passione degli abitanti anche specialità cadute «in disuso» ma legate all’antica civiltà contadina. Come la marcundela, il crafus o l’incredibile pan di sorc.La cultura del maiale ha profonde radici in terra friulana. Una tradizione partita da lontano, ancora in epoca romana, e poi consolidatasi nel tempo. Come testimonia l’Editto di Rotari, nel 643, con la giurisdizione longobarda. Tra le varie norme elencate veniva attribuito un valore doppio al lavoro del porcaio rispetto a quello del contadino.Coerenti alla tradizione nel tempo, il Friuli è stata la prima Regione italiana ad adottare l’albo dei norcini, nel 2006. Nel suo palmares di eccellenze consolidate ci sono il prosciutto di San Daniele o quello più di nicchia di Sauris. Ma, come ricorda Nadia Innocente, «se il Friuli è ricordato per questi prodotti “nobili”, non bisogna dimenticare la ricchezza di prodotti minori, quasi tutti sconosciuti, caduti in “disuso” nelle trattorie e cucine di famiglia, ma dal forte valore di una tradizione legata all’antica civiltà contadina». Un mondo rurale dove «la stalla era la banca del contadino», così da allevare bestiame diverso, per quel che permetteva il territorio: maiali, vitelli, pecore, galline a razzolare nell’aia. Ed era, questa biodiversità, una sorta di valvola di sicurezza per il piccolo commercio e la dispensa, poiché era difficile che si ammalassero tutte assieme. Anche perché, il «sapere veterinario» era il buonsenso dell’esperienza quotidiana.Restando nel distretto suino, il Friuli è patria di una razza autoctona che stava sparendo, la nera friulana, che ha trovato il suo paladino in Gianluigi D’Orlandi, già sindaco di Fagagna. A Villalta è stato costituita una casa-museo di vita contadina in cui si possono gustare le diverse varianti golose ottenute dal divin porcello che si immola ai palati golosi. Piccole pepite confinate nella memoria degli avi, come il polmonaire (un impasto di polmone, cuore, reni e lardo) o l’oramai estinto, per motivi di igiene alimentare, sanganel, una lavorazione del sangue rappreso e macinato. Resistono, nelle ridotte dei pochi artigiani che le producono, la marcundela e il crafus. La marcundela friulana ha cugine sparse nel Nord-Est. Nel Veneto centrale la martondea è frutto della lavorazione di frattaglie diverse, arricchita con uvetta e avvolta nel redesin, il reticolo del maiale. Rustico street food, spadellata su di una fetta di pane, accompagnata da polenta di mais bianco perla o, in versione salutista, abbinata con il radicchio variegato di Castelfranco, ribattezzata «martondea del Giorgione», quale omaggio al suo più illustre concittadino.Nella trentina Val di Non troviamo la martondela, un insaccato in origine preparato con un impasto di lingua, polmone, fegato e coppa. Capitale è Tassullo, 150 abitanti. Rivestita di farina di granoturco, per farla asciugare viene poi affumicata con legno di faggio e ginepro. Va in goloso abbinamento con l’orzotto. Tornando in Friuli, la marcundela è un polpettame di frattaglie diverse ma arricchita con varie spezie tra cui anice stellato, zenzero, cardamono. Generalmente consumata fresca, un tempo, spadellata nel vino rosso e abbinata alla polenta, era la colazione della mattina prima di avviarsi al lavoro sui campi. Venne valorizzata da Gino Veronelli, nel 1980, che la scoprì casualmente in una macelleria di Lucinico, a quattro passi da Gorizia. C’è chi se la pappa goloso in una sorta di goulash friulano assieme al sugo di pomodoro, oppure a rendere intrigante una frittata.Ma la regina di queste polpette suine è senza dubbio il crafus, le cui origini viaggiano tra Artegna e Buia, ai piedi della Carnia golosa. Si usa il meglio della frattaglia suina, ovvero il fegato. La marcia in più deriva dal pan di sorc, una delle tante varianti di mais cinquantino, all’interno di una farina che comprende frumento e segale. Una storia nella storia, frutto di contaminazioni diverse. La sua patria è Gemona dove l’Ecomuseo dell’acqua, da anni, è riuscito a riattivare una filiera che era stata archiviata con l’uso delle coltivazioni intensive. Del mais cinquantino esistono diverse varietali in tutta la storia agricola del nord. Era la salvezza di molte famiglie contadine, che dovevano fare i conti con i raccolti da consegnare al proprietario terriero e far di necessità virtù con quanto avanzava.Una testimonianza importante la si ritrova in un testo del 1789, la Dottrina agraria, scritto da Giovanni Battista Beltrame che si prefiggeva di migliorare le tecniche di agricoltura dell’epoca. In un teorico dialogo con il colono che si confrontava con lui, a un certo punto la confessione diventa palese: «Non mi è sufficiente la quantità di frumento che devo pagare al padrone, i cinquantini sono il miglior aiuto al mantenimento della famiglia». Avveniva, infatti, che, dopo la mietitura di settembre, venissero seminati i cinquantini che maturavano in poche settimane e permettevano entro fine ottobre, quindi prima dei rigori invernali, di ottenere un ulteriore raccolto utile per la dispensa di famiglia. Tradizione e casualità in sinergia virtuosa.Molti fornai di Gemona e Osoppo, per arrotondare gli scarsi guadagni, in inverno si trasformavano in norcini migrando nelle vicine Artegna e Buja. Da cosa nasce cosa ed ecco che arricchiscono il macinato suino del crafus con il pan de sorc, ovvero la miscela di farine arricchite con spezie varie posto che Gemona rappresentava una via dei migranti che andavano a lavorare nelle terre asburgiche e da qui tornavano con le spezie molto usate in quelle cucine. Un esempio di questa contaminazione di culture diverse la si può vivere a Purcit in stajare, ad Artegna, tradizione della Festa di Sant’Andrea, il 30 novembre, dove purcit sta per maiale, in friulano, e stajare è una danza popolare originaria della Stiria. Un modo per rivivere l’atmosfera gioiosa che si creava nelle famiglie e nei borghi friulani in occasione della macellazione del maiale e della preparazione dei salumi.Un tempo, nelle famiglie più osservanti, il maialino veniva benedetto prima del suo sacrificio finale e il purcitar, ovvero il norcino addetto alla bisogna, era una figura professionale molto ambita e ricercata, tanto che lo si prenotava settimane prima per averne i preziosi tagli, ritagli e frattaglie. Se il crafus è la regina delle polpette frattaglianti, il pan de sorc è risorto a nuova vita grazie alle testimonianze di Domenico Calligaro, fornaio, e Anedi Basaldella, mugnaio. Un tempo ogni famiglia era depositaria di una ricetta di tradizione, tramandata essenzialmente per via orale. Le donne portavano le pagnotte dal fornaio e, in cambio, ne lasciavano una parte quale forma pratica di pagamento. Una pagnotta facilmente riconoscibile. La crosta dal colore scuro e croccante, che racchiude una pasta morbida dal colore giallo vivo e intensi profumi di spezie, tipo la cannella, come l’uso di fichi secchi, uva sultanina, finocchietto selvatico in un ideale equilibrio tra dolce e salato. La superficie esterna porta incisa una croce e, a confermarne l’origine garantita, vi è un’ostia con impresso il nome di pan de sorc.Questo mais cinquantino, sorc nella declinazione friulana, è coltivato oramai da pochi, più per nostalgia che per un ritorno economico. Fondamentale, in questo caso di recupero di archeologia rurale, l’opera di Etelca Ridolfo, dell’Ecomuseo di Gemona. Il progetto, affiancato da un preciso disciplinare, ha ottenuto anche un finanziamento europeo tanto che la tradizione si può rivivere all’interno del Museo dell’arte molitoria, ovvero il Mulino Cocconi, le cui origini risalgono agli inizi dell’Ottocento, ed è l’unico mulino a pietra completamente restaurato dopo il devastante terremoto del 1976.Oltre a farcire il crafus il pan de sorc era l’omaggio goloso ai bambini in prossimità delle feste natalizie. Inzuppato nel latte ma anche ideale ad accompagnare i salumi. La sua celebrazione a Gemona il 13 giugno in occasione della festa del patrono, Sant’Antonio da Padova.