2024-07-19
Nel mondo preda del pensiero unico i non allineati finiscono «marchiati»
Nel riquadro, la scrittrice islandese Frida Isberg (IStock)
Il romanzo dell’islandese Frida Isberg descrive una società lobotomizzata, dove un test al cervello certifica il grado di conformismo dei cittadini. Chi ne difetta, è isolato e rieducato. Una distopia che richiama i diktat pandemici.Quelli che non hanno il marchio devono aspettare fuori dal bar e essere serviti attraverso una apposita fessura. Quelli che non hanno il marchio spesso perdono il posto di lavoro, perché le loro aziende «vogliono collocarsi dal lato giusto della Storia». I non marchiati non possono entrare in alcuni dei quartieri più eleganti, non hanno accesso ai mutui, hanno vita difficile a scuola, devono sottoporsi a ore e ore di psicoterapia nella speranza di migliorare e di passare il test dell’empatia, la prossima volta. Il romanzo della giovane promessa islandese Frida Isberg è tra i più belli e spaventosi. Si intitola semplicemente Il marchio e disegna una società non troppo lontana nel tempo e nello spazio, ossessionata dal rispetto e dalla comprensione dell’altro. In una parola, dall’empatia. Nel tentativo di eliminare l’odio e far calare la violenza, in un impeto di entusiasmo progressista, viene istituzionalizzato un esame del cervello capace di rivelare le predisposizioni di ciascun individuo. Chi supera il test ottiene il marchio, è ufficialmente in grado di empatizzare e può avviarsi a diventare un cittadino modello. Gli altri, beh, sono guardati con sospetto, patologizzati, disprezzati. Il racconto è tanto più spaventoso quanto più risulta realistico. La Isberg racconta l’affermazione del sistema discriminatorio con misura, senza esagerare, in maniera totalmente convincente. «Giravano storie disparate sulla provenienza di quell’idea», scrive. «Alcuni dicono che un politico uscito parecchio male dalla fuga di dati avesse proposto di sottoporsi a un test per l’empatia, per contestare un’amoralità patologica nel tentativo di salvare la propria immagine. Alcuni invece dicono che l’idea sia venuta dalla gente comune. In ogni caso, la cosa era diventata un volano. Una deputata si era rivolta ai giornali con i risultati del test, poi una seconda. Un partito aveva proposto che tutti gli iscritti si dovessero sottoporre al test, seguito da un secondo. Tre settimane dopo, la maggioranza in Parlamento aveva deciso a favore dell’obbligo del test sui parlamentari, nella speranza di riconquistare la fiducia della gente nei confronti dell’istituzione». Niente di più credibile. E il seguito è anche più plausibile. «Negli anni successivi era stato potenziato il Sistema sanitario psicosociale. Il nuovo governo aveva cominciato a seguire gli esempi dei Paesi vicini, aveva offerto alla popolazione la possibilità di sostenere il test gratuitamente e aveva posto le basi per offrire terapie a chi era risultato al di sotto dello standard. «Stiamo investendo in salute mentale», aveva dichiarato la ministra della Salute, un’infermiera di 63 anni che aveva lavorato all’ospedale nazionale per 35 anni. «Ne vedremo i frutti nel bilancio statale». Senza volerlo aveva riferito i suoi risultati del test ai colleghi durante il cambio di turno. La cosa si era risaputa ed era andata a finire che le avevano offerto un ufficio aggiunto. Il governo aveva reagito alle richieste della popolazione sull’obbligo del test anche per il potere legislativo, quello giudiziario e quello esecutivo. Poco dopo il Consiglio comunale aveva deciso che anche chi svolgeva professioni infermieristiche dovesse presentare la certificazione del test per dimostrare la loro idoneità. Entro un anno e mezzo dalla legislatura, tra la gente aveva cominciato a prendere forma la richiesta di un registro pubblico in cui i singoli individui potessero iscriversi volontariamente a esame concluso. I certificati falsi erano spuntati come le erbacce, soprattutto quando si trattava di cercare lavoro o un appartamento in affitto. Non si era mai parlato di marchio, o di marchiarsi, fino a quattro anni prima, quando era stato reso pubblico il Registro. A quel punto tutti avevano potuto cercarsi a vicenda e vedere chi aveva effettivamente passato l’esame». I ragazzini che devono affrontare il test sono terrorizzati, temono per il loro futuro. Chi non lo supera accumula rabbia e frustrazione. I consigli dei genitori chiedono che gli studenti a scuola siano sottoposti alla valutazione, onde costruire un ambiente più sicuro per i loro figli. La violazione dei diritti è palese, ma i più sembrano d’accordo, si adeguano al discorso prevalente: serve un sacrificio per costruire un mondo più buono. A questo punto è legittimo chiedersi: ma che cosa ha di diverso questo romanzo dalle altre decine di distopie prodotte negli ultimi anni? A parte il fatto che è scritto benissimo, Il marchio ha almeno due caratteristiche che lo rendono originale e importante. La prima è che non si tratta della consueta tirata sul ritorno del fascismo per mano dei nazionalisti/populisti/sovranisti. Il tema, qui, è appunto la patologizzazione della diversità. E, soprattutto, la paura. Una paura folle della differenza che è poi quella che attanaglia l’Occidente contemporaneo e ipersensibile. Il libro della Isberg inscena la radicalizzazione e l’estremizzazione non tanto del controllo sociale (che pure è presente) quanto, soprattutto, della fragilità. Il mondo che isola i «non empatici» è quello che teme il confronto, che si offende per ogni cosa, che confonde violenza e conflitto, che rifiuta la sacrosanta battaglia per svenire nell’ottundimento terapeutico. E qui arriviamo al secondo tema, centrale. Il marchio, come tutte le distopie, parla del presente e affronta il recente passato. Inevitabile, sfogliandolo, pensare agli anni del Covid e alle feroci discriminazioni che ha prodotto. Ebbene questo libro forse è il primo tentativo (per altro non firmato da una autrice «antisistema») di riflettere e elaborare quanto accaduto. La Isberg offre, attraverso i suoi personaggi, punti di vista differenti, cerca di esplorare l’intero spettro delle opinioni, si mette alla prova e stimola il lettore a fare altrettanto. Non scrive un libro sulla pandemia, certo che no. Ma sulla discriminazione, sul panico, l’ossessione e l’insicurezza esistenziale in cui siamo immersi. Offre soluzioni? No, ma fornisce qualche spiraglio. Lo fa subito, nelle primissime pagine, attraverso una voce di donna che si domanda: «Non riusciamo proprio a parlare senza un “questa è la mia opinione”? [...] Non sopporto questa terra di nessuno che si è venuta a creare. Non sopporto che la società si debba dividere in due schieramenti opposti che difendono ciascuno la propria roccaforte, e chi si avventura in una zona intermedia viene preso di mira da entrambe le parti. Sì, e già che mi viene in mente: politica non significa poli opposti, come sostieni tu. Politica risale al concetto greco di politiké che significa “che attiene alla città”. Non si tratta di con oppure contro. Non dev’essere sempre polo Nord o polo Sud». Ecco, una via di uscita potrebbe essere questa: non un invito a sopprimere lo scontro, a cancellare l’inevitabile conflitto. Piuttosto, una speranza riposta nella non binarietà delle opinioni, nel rispetto vero dell’altro. Che non significa buonismo forzato, ma allenamento, perfezionamento di sé, rifiuto della mobilitazione totale e dell’intruppamento, della demonizzazione e della patologizzazione. Cioè di tutto ciò che abbiamo visto all’opera nella peggiore delle distopie possibili: quella in cui abbiamo realmente vissuto fino a pochi anni fa.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.