2025-09-21
La Germania fa scendere Macron dal caccia di sesta generazione
Emmanuel Macron allo stand della Dassault all'International Paris Air Show 2025 (Ansa)
Lite nel consorzio per il protagonismo francese. E la Spagna si schiera con i tedeschi.Toh: l’Europa unita dei 70 anni di pace non solo non ha portato la pace, ma non è nemmeno unita. Manco nella guerra. E a bisticciare sono proprio due delle sue nazioni fondatrici: Francia e Germania.La lite riguarda la ripartizione del lavoro nel consorzio che dovrebbe costruire, al costo di 100 miliardi di euro, un caccia di nuova generazione, con cui saranno sostituiti gli Eurofighter e i Rafale. I tedeschi lamentano l’eccessivo protagonismo dei transalpini e minacciano di cercare nuovi partner nel Regno Unito oppure in Svezia; a Parigi respingono gli addebiti e, semmai, accusano i teutonici di rallentare lo sviluppo del progetto. La Spagna, che fa parte del trio, dà ragione a Berlino e chiede che sia rispettato l’accordo originario sulla distribuzione dei compiti. Alla faccia della collaborazione, degli accordi per la spesa comune, delle piattaforme condivise da finanziare con i fondi del Safe di Ursula von der Leyen. Soldi dei quali, peraltro, la Germania fa volentieri a meno: ormai - e non senza rilievi da parte della sua Corte dei conti - ha varato una legge di bilancio con un deficit monstre da 1.000 miliardi. E ricostruirà l’esercito più forte del continente, senza che nessuno fiati, memore di come andò le due volte precedenti. Soltanto Emmanuel Macron, sospeso tra inossidabili manie di grandezza e irrefrenabile timore del tracollo, briga per evitare che la Francia perda l’egemonia.Viva l’unità: con tanti saluti alla famosa interoperabilità dei sistemi d’arma, esistono già due piani concorrenti per la realizzazione del jet di sesta generazione. Da un lato c’è il sodalizio Italia-Inghilterra-Giappone per il Global combat air programme (Gcap), che vede coinvolti Leonardo, Bae systems e Mistubishi e che confida di far decollare il primo apparecchio nel 2035. Dall’altro lato c’è il Future combat air system (Fcas): esso raduna Airbus defence and space, facente capo alla Germania; la divisione francese di Mbda; la Dassault; e l’iberica Indra sistemas. L’idea sarebbe di partire con i voli di prova entro il 2029. Ma il percorso si è complicato: la componente tedesca rimprovera a Dassault di voler concentrare su di sé l’80% dei lavori, mentre l’intesa prevedeva un’equa distribuzione; Dassault nega tutto, ma invoca maggiore autonomia nel processo decisionale e denuncia le procedure farraginose, che la costringono a richiedere il consenso di Airbus defence and space per ogni passaggio, con il pericolo di lungaggini e ritardi. La Germania avverte che sarebbe pronta a escludere i francesi e a proseguire esclusivamente con gli spagnoli, o di allargare agli svedesi di Saab e ai i britannici. I quali, però, come abbiamo visto, sono dentro il Gcap.Il cancelliere Friedrich Merz è stato perentorio: «Per come si sono messe le cose al momento, non possiamo andare avanti». Qualche giorno fa, Pedro Sánchez è corso in suo soccorso e ha comunicato che l’interesse di Madrid è «sincero», ma che bisogna rispettare «le condizioni iniziali». A ottobre ci sarà un vertice trilaterale ed entro l’anno si dovrà prendere una decisione definitiva.È l’ennesima sberla all’inquilino dell’Eliseo, che sente odore di sfratto non solo in patria ma pure dalle cancellerie estere. Dopodiché, la zuffa rivela quale sia lo spirito che aleggia davvero dietro gli afflati di concordia sbandierati dall’Ue, ancorché in versione marziale. Sempre che la difesa comune non si trasformi tout court nella milizia privata della Von der Leyen, di comune è destinata lo stesso ad avere ben poco. Le nazioni erano e rimangono rivali. Ognuno pensa al proprio arsenale, alla propria supremazia, ai propri campioni industriali. Non molto è cambiato rispetto a 70 anni fa, quando sarebbe iniziata la pace dell’Europa che ogni due per tre celebra il nostro Sergio Mattarella.Nel 1956, Italia, Francia e Germania si accordarono per mettere su un arsenale atomico e rendersi autonome dagli Stati Uniti. Due anni dopo, Charles de Gaulle fece saltare il banco, puntando sulla force de frappe 100% transalpina. Oggi, il Vecchio continente paventa un’imminente invasione da parte delle truppe di Vladimir Putin, passato dall’«Armata rotta» alla «maxi Armata di 700.000 uomini», nonché dalla sicura sconfitta per mano dell’Occidente alla probabile vittoria sulla Nato «in cinque giorni». Eppure, il pepe nel deretano non sembra abbastanza piccante perché gli Stati superino quelli che sempre l’uomo del Colle definisce «egoismi nazionali». Berlino corre e non cade nelle trappole francesi; Parigi non ha gli stessi margini di spesa, ma non tollera di essere scalzata dai vicini; Roma, nei limiti del possibile, si sforza di non perdere troppo terreno. Ieri il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha assicurato che Guido Crosetto, titolare della Difesa, in manovra avrà «le sue soddisfazioni». Bene. Basta che si trovino soldi pure per tagliare le tasse, oltre che per inseguire droni accecati e poi magari bombardarsi da soli, tipo la Polonia dieci giorni fa. Altrimenti, quelli insoddisfatti saranno gli elettori.