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2021-06-25
Le folli pretese dei fondamentalisti pro Zan
Nadia Urbinati (Ansa)
- Nel documento politico del pride milanese si chiedono figli in provetta, utero in affitto per gli omosessuali e cambi di sesso senza neanche consulti psicologici. E la politologa Nadia Urbinati dà l'ultimatum alle paritarie: «Accettino il gender o rinuncino ai fondi statali».
- Anna Monia Alfieri, la suora dell'Ambrogino d'oro 2020: «Questa norma è l'anticamera della dittatura».
Lo speciale contiene due articoli.
Tu guarda, i giornali hanno scoperto che l'Italia è uno «Stato laico». Come se fino all'altro ieri non lo fosse, o come se il Vaticano non si fosse relazionato alle istituzioni italiane nel più totale rispetto della laicità. Il problema, semmai, è la ben strana idea di laicità che portano avanti molti sostenitori del ddl Zan. Prendiamo l'illustre politologa Nadia Urbinati. Su Domani spiega che la Chiesa potrebbe ottenere «la piena libertà» solo «con la rinuncia ai fondi pubblici». Secondo la professoressa, «se una scuola confessionale sceglie di accedere ai finanziamenti pubblici, la sua libertà cessa di essere piena perché deve sottostare alle leggi che lo Stato stabilisce». E fin qui, nulla da obiettare.
Ma sentite come prosegue il ragionamento: «Nessuno toglie a un cattolico la libertà di pensiero sulla famiglia e il matrimonio. Ma questa libertà trova un limite se e laddove si parla di istituti educativi che scelgono di accedere ai finanziamenti pubblici». Capito? Se le scuole cattoliche (o comunque quelle religiose) prendono soldi dallo Stato, non c'è nulla di male se «perdono parte della loro libertà». Attenzione: qui parliamo di libertà di pensiero, non della presunta libertà di compiere chissà quali atti rituali violenti o contrari alla legge. La Urbinati, dunque, stabilisce un legame fra il denaro e il libero pensiero. Se sei una scuola privata in grado di sostenersi da sola - magari pretendendo rette esorbitanti dagli studenti, e quindi escludendo i meno abbienti - hai il diritto di insegnare ciò che ti pare. Se invece lo Stato ti aiuta - garantendo così il pluralismo - la tua libertà è condizionata.
Poiché - ormai lo diamo per acquisito - siamo in uno Stato laico, ci sono fior di obiezioni del tutto «laiche» che si possono fare alla tesi della Urbinati, la quale apre nei fatti a una sorta di totalitarismo nemmeno troppo mascherato. Pensate se lo stesso metro di giudizio fosse applicato ai giornali, o alla Rai, o al cinema, insomma a tutte le attività culturali che ottengono finanziamenti pubblici. Oppure alle cooperative, alle Onlus, alle associazioni di ogni genere. In sostanza lo Stato potrebbe, in virtù del denaro che eroga, non solo pretendere il (dovuto) rispetto delle leggi vigenti, ma imporre in aggiunta un preciso orientamento politico, cancellare almeno in parte la libertà di pensiero e di espressione.
Posto che la Urbinati, con il suo editoriale, conferma l'esistenza del sostrato liberticida del ddl Zan, mettiamo pure da parte la Chiesa, i cattolici e la fede: vi sembra condivisibile, in una prospettiva laica, legare la libertà al censo? Un criminale molto ricco deve essere libero di esporre le sue teorie deviate ai ragazzini se si finanzia da solo una scuola? Oppure, mettendola su un piano meno estremo: è mio «diritto» avere un figlio se posso pagare una donna che lo sforni per me e poi me lo ceda? Davvero questa è una ben strana concezione di laicità dello Stato. Il quale, ricordiamolo di sfuggita, parificando e finanziando le scuole religiose fa un servizio pure a sé stesso, se non altro perché evita di creare ghetti ideologici o comunità troppe chiuse.
Continuiamo però a muoverci all'interno del perimetro della laicità. Anche in una prospettiva che escluda del tutto il punto di vista religioso, le ragioni della contrarietà al ddl Zan non vengono meno. Non c'è bisogno di essere cattolici o musulmani per rifiutare l'idea di fluidità o per opporsi all'autodeterminazione di genere che rischia di distruggere la differenza sessuale e gli stessi principi maschile e femminile. Non per nulla le prime a contestare queste idee sono le attiviste lesbiche.
Non c'è bisogno di seguire i comandamenti, basta attenersi alle leggi vigenti per rispedire al mittente alcune delle richieste avanzate dagli attivisti Lgbt, che nel ddl Zan trovano piena legittimazione. Facciamo un esempio concreto. In questi giorni, a Milano, è in corso il gay pride. Nel documento politico della manifestazione sono elencate le istanze delle associazioni arcobaleno, le quali pretendono - tra le altre cose - «leggi che riconoscano pienamente ai nostri figli tutti i diritti e a noi il diritto di essere genitori sin dalla loro nascita. Genitori sì, perché questi figli li abbiamo desiderati, voluti e messi al mondo in coppia». Gli attivisti, inoltre, vogliono pieno accesso «alle tecniche di procreazione assistita consentite invece alle coppie eterosessuali». Non può sfuggire che il riconoscimento dei bambini arcobaleno (figli di due padri o due madri) e l'accesso a tutte le tecniche di procreazione significhino, nei fatti, sdoganamento dell'utero in affitto, pratica severamente vietata dalle leggi italiane (e non solo). Il fatto che entrambi i componenti di una coppia non vengano riconosciuti come genitori a prescindere dal legame biologico con il figlio, per le organizzazioni Lgbt è una «discriminazione». Motivo per cui è per lo meno legittimo chiedersi: se il ddl Zan fosse approvato, verrebbe considerato «discriminatorio» contestare la gestazione per altri o la procreazione medicalmente assistita? Ci sono fior di laici contrari a queste pratiche: uno Stato laico dovrebbe ignorare la loro opinione? Dovrebbe calpestare i diritti delle donne per far posto a quelli delle coppie gay?
Non è tutto. Sempre nel documento politico del Pride troviamo la richiesta di semplificare le procedure di accesso al cambiamento di genere. Leggiamo: «Ogni endocrinologo dovrebbe essere abilitato a prescrivere le cure ormonali per le persone transgenere, ampliando la base dei medici a disposizione, al contrario di quanto succede ora. Il percorso psicologico dovrebbe essere reso facoltativo, non più necessario come ora […]. Il percorso giudiziario per la rettifica dei documenti anagrafici dovrebbe essere semplificato e trasformato in una procedura comunale, come avviene già in altri Stati. L'autorizzazione di un giudice per le operazioni chirurgiche invece dovrebbe essere rimossa». In sostanza, le associazioni chiedono che sia introdotto il «principio di autodeterminazione della persona trans», fondamentalmente lo stesso che si trova nel primo articolo del ddl Zan. Essere «laici» significa consentire a chiunque di dichiararsi uomo o donna persino a prescindere da interventi chirurgici? Significa limitare l'intervento dei professionisti della psiche, magari rischiando di avviare al cambiamento di genere minori che non sono in grado di prendere una decisione del tutto lucida e consapevole?
Questo è il punto. L'Italia è uno Stato laico, come no. Ma tra uno Stato laico e uno Stato folle c'è un abisso.
«A scuola non comanda chi paga. Il ddl viola la libertà di educazione»

Suor Anna Monia Alfieri (Facebook)
La nota della Santa Sede critica sul ddl Zan ha sollevato un polverone che, oltre alle reazioni di protagonisti della musica e del Web, ne ha alimentate di livello culturale superiore, benché non prive di criticità. Come quella di Nadia Urbinati, accademica italiana naturalizzata statunitense che, sul quotidiano Domani, ha firmato un editoriale per dire che la libertà religiosa di cui il Vaticano lamenta il pericolo riguarda le sole scuole cattoliche le quali, se vogliono esser libere, basta rinuncino ai fondi pubblici. Ragionamento che non convince suor Anna Monia Alfieri, religiosa delle Marcelline assai preparata (ha tre lauree) e stimata (è tra gli insigniti dell'Ambrogino d'oro 2020), tra le voci più accreditate sull'organizzazione dei sistemi formativi.
Suor Anna, concorda con Nadia Urbinati, secondo cui la libertà minacciata dal ddl Zan - a difesa della quale la Santa Sede si è attivata -, è tema delle sole scuole cattoliche beneficiarie di finanziamenti pubblici?
«Per nulla. La Santa Sede non riceve soldi per le scuole paritarie. Le paritarie sono gestite da privati riconosciuti, da non confondersi con Vaticano o Santa Sede. Sono enti, gestori no profit, cooperative. Inoltre, dato che i genitori dei 900.000 frequentanti le scuole paritarie pagano le tasse anche per l'istruzione statale - che vede ogni allievo costare 8.500 euro annui - della quale non si avvalgono, costoro di fatto finanziano la scuola statale con sei miliardi di euro. Meglio quindi documentarsi, altrimenti si aumentano le discriminazioni, si danneggiano i più poveri acuendo le disparità; perché se si afferma che la scuola privata è ricca per i ricchi, un “diplomificio", si dice esattamente ciò che con tali parole rischia di realizzarsi».
Quindi la nota del Vaticano c'entra poco con le scuole paritarie.
«Presentare così quell'atto della Santa Sede fa poco onore alla verità dei fatti. Non è corretto dire “le scuole paritarie rinuncino ai finanziamenti perché così sono libere", perché la libertà che il ddl Zan viola è anzitutto quella educativa dei genitori che, articolo 30 della Costituzione alla mano, spetta solo a loro: non alla Chiesa né allo Stato. Il ddl Zan viola poi la libertà degli stessi docenti, perché porta a un pensiero unico che punisce ed etichetta ogni rigurgito di buon senso. Una prassi storicamente dimostratasi anticamera di dittature».
Quindi non la convince la tesi secondo cui, se una scuola cattolica vuole esser davvero libera, deve rinunciare ai finanziamenti pubblici.
«No, ogni scuola - statale o paritaria - deve essere libera. La scuola non è un luogo dove chi paga comanda: è un servizio. Il punto vero è il gap scolastico italiano, dovuto a tre poteri: la politica - che ci ha fatto campagna elettorale - i sindacati - che ne hanno fatto luogo di tesseramento - e la burocrazia, che trae profitto dagli sprechi».
Non crede che dietro la polemica sul Concordato ci sia dell'ignoranza?
«In pochi conoscono il Concordato. Temo anche che in Italia ci sia una scarsa conoscenza della Costituzione, a causa dell'eliminazione dell'educazione civica, che pure si sta tentando di reintrodurre. Dobbiamo tornare ad avere una scuola che sia davvero fucina di formazione, e che fornisca ai nostri giovani strumenti per orientarsi, proteggendoli dal pensiero unico».
Nel documento politico del pride milanese si chiedono figli in provetta, utero in affitto per gli omosessuali e cambi di sesso senza neanche consulti psicologici. E la politologa Nadia Urbinati dà l'ultimatum alle paritarie: «Accettino il gender o rinuncino ai fondi statali».Anna Monia Alfieri, la suora dell'Ambrogino d'oro 2020: «Questa norma è l'anticamera della dittatura».Lo speciale contiene due articoli.Tu guarda, i giornali hanno scoperto che l'Italia è uno «Stato laico». Come se fino all'altro ieri non lo fosse, o come se il Vaticano non si fosse relazionato alle istituzioni italiane nel più totale rispetto della laicità. Il problema, semmai, è la ben strana idea di laicità che portano avanti molti sostenitori del ddl Zan. Prendiamo l'illustre politologa Nadia Urbinati. Su Domani spiega che la Chiesa potrebbe ottenere «la piena libertà» solo «con la rinuncia ai fondi pubblici». Secondo la professoressa, «se una scuola confessionale sceglie di accedere ai finanziamenti pubblici, la sua libertà cessa di essere piena perché deve sottostare alle leggi che lo Stato stabilisce». E fin qui, nulla da obiettare.Ma sentite come prosegue il ragionamento: «Nessuno toglie a un cattolico la libertà di pensiero sulla famiglia e il matrimonio. Ma questa libertà trova un limite se e laddove si parla di istituti educativi che scelgono di accedere ai finanziamenti pubblici». Capito? Se le scuole cattoliche (o comunque quelle religiose) prendono soldi dallo Stato, non c'è nulla di male se «perdono parte della loro libertà». Attenzione: qui parliamo di libertà di pensiero, non della presunta libertà di compiere chissà quali atti rituali violenti o contrari alla legge. La Urbinati, dunque, stabilisce un legame fra il denaro e il libero pensiero. Se sei una scuola privata in grado di sostenersi da sola - magari pretendendo rette esorbitanti dagli studenti, e quindi escludendo i meno abbienti - hai il diritto di insegnare ciò che ti pare. Se invece lo Stato ti aiuta - garantendo così il pluralismo - la tua libertà è condizionata.Poiché - ormai lo diamo per acquisito - siamo in uno Stato laico, ci sono fior di obiezioni del tutto «laiche» che si possono fare alla tesi della Urbinati, la quale apre nei fatti a una sorta di totalitarismo nemmeno troppo mascherato. Pensate se lo stesso metro di giudizio fosse applicato ai giornali, o alla Rai, o al cinema, insomma a tutte le attività culturali che ottengono finanziamenti pubblici. Oppure alle cooperative, alle Onlus, alle associazioni di ogni genere. In sostanza lo Stato potrebbe, in virtù del denaro che eroga, non solo pretendere il (dovuto) rispetto delle leggi vigenti, ma imporre in aggiunta un preciso orientamento politico, cancellare almeno in parte la libertà di pensiero e di espressione.Posto che la Urbinati, con il suo editoriale, conferma l'esistenza del sostrato liberticida del ddl Zan, mettiamo pure da parte la Chiesa, i cattolici e la fede: vi sembra condivisibile, in una prospettiva laica, legare la libertà al censo? Un criminale molto ricco deve essere libero di esporre le sue teorie deviate ai ragazzini se si finanzia da solo una scuola? Oppure, mettendola su un piano meno estremo: è mio «diritto» avere un figlio se posso pagare una donna che lo sforni per me e poi me lo ceda? Davvero questa è una ben strana concezione di laicità dello Stato. Il quale, ricordiamolo di sfuggita, parificando e finanziando le scuole religiose fa un servizio pure a sé stesso, se non altro perché evita di creare ghetti ideologici o comunità troppe chiuse. Continuiamo però a muoverci all'interno del perimetro della laicità. Anche in una prospettiva che escluda del tutto il punto di vista religioso, le ragioni della contrarietà al ddl Zan non vengono meno. Non c'è bisogno di essere cattolici o musulmani per rifiutare l'idea di fluidità o per opporsi all'autodeterminazione di genere che rischia di distruggere la differenza sessuale e gli stessi principi maschile e femminile. Non per nulla le prime a contestare queste idee sono le attiviste lesbiche.Non c'è bisogno di seguire i comandamenti, basta attenersi alle leggi vigenti per rispedire al mittente alcune delle richieste avanzate dagli attivisti Lgbt, che nel ddl Zan trovano piena legittimazione. Facciamo un esempio concreto. In questi giorni, a Milano, è in corso il gay pride. Nel documento politico della manifestazione sono elencate le istanze delle associazioni arcobaleno, le quali pretendono - tra le altre cose - «leggi che riconoscano pienamente ai nostri figli tutti i diritti e a noi il diritto di essere genitori sin dalla loro nascita. Genitori sì, perché questi figli li abbiamo desiderati, voluti e messi al mondo in coppia». Gli attivisti, inoltre, vogliono pieno accesso «alle tecniche di procreazione assistita consentite invece alle coppie eterosessuali». Non può sfuggire che il riconoscimento dei bambini arcobaleno (figli di due padri o due madri) e l'accesso a tutte le tecniche di procreazione significhino, nei fatti, sdoganamento dell'utero in affitto, pratica severamente vietata dalle leggi italiane (e non solo). Il fatto che entrambi i componenti di una coppia non vengano riconosciuti come genitori a prescindere dal legame biologico con il figlio, per le organizzazioni Lgbt è una «discriminazione». Motivo per cui è per lo meno legittimo chiedersi: se il ddl Zan fosse approvato, verrebbe considerato «discriminatorio» contestare la gestazione per altri o la procreazione medicalmente assistita? Ci sono fior di laici contrari a queste pratiche: uno Stato laico dovrebbe ignorare la loro opinione? Dovrebbe calpestare i diritti delle donne per far posto a quelli delle coppie gay?Non è tutto. Sempre nel documento politico del Pride troviamo la richiesta di semplificare le procedure di accesso al cambiamento di genere. Leggiamo: «Ogni endocrinologo dovrebbe essere abilitato a prescrivere le cure ormonali per le persone transgenere, ampliando la base dei medici a disposizione, al contrario di quanto succede ora. Il percorso psicologico dovrebbe essere reso facoltativo, non più necessario come ora […]. Il percorso giudiziario per la rettifica dei documenti anagrafici dovrebbe essere semplificato e trasformato in una procedura comunale, come avviene già in altri Stati. L'autorizzazione di un giudice per le operazioni chirurgiche invece dovrebbe essere rimossa». In sostanza, le associazioni chiedono che sia introdotto il «principio di autodeterminazione della persona trans», fondamentalmente lo stesso che si trova nel primo articolo del ddl Zan. Essere «laici» significa consentire a chiunque di dichiararsi uomo o donna persino a prescindere da interventi chirurgici? Significa limitare l'intervento dei professionisti della psiche, magari rischiando di avviare al cambiamento di genere minori che non sono in grado di prendere una decisione del tutto lucida e consapevole?Questo è il punto. L'Italia è uno Stato laico, come no. Ma tra uno Stato laico e uno Stato folle c'è un abisso.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/folli-pretese-fondamentalisti-pro-zan-2653537438.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="a-scuola-non-comanda-chi-paga-il-ddl-viola-la-liberta-di-educazione" data-post-id="2653537438" data-published-at="1624585624" data-use-pagination="False"> «A scuola non comanda chi paga. Il ddl viola la libertà di educazione» Suor Anna Monia Alfieri (Facebook) La nota della Santa Sede critica sul ddl Zan ha sollevato un polverone che, oltre alle reazioni di protagonisti della musica e del Web, ne ha alimentate di livello culturale superiore, benché non prive di criticità. Come quella di Nadia Urbinati, accademica italiana naturalizzata statunitense che, sul quotidiano Domani, ha firmato un editoriale per dire che la libertà religiosa di cui il Vaticano lamenta il pericolo riguarda le sole scuole cattoliche le quali, se vogliono esser libere, basta rinuncino ai fondi pubblici. Ragionamento che non convince suor Anna Monia Alfieri, religiosa delle Marcelline assai preparata (ha tre lauree) e stimata (è tra gli insigniti dell'Ambrogino d'oro 2020), tra le voci più accreditate sull'organizzazione dei sistemi formativi. Suor Anna, concorda con Nadia Urbinati, secondo cui la libertà minacciata dal ddl Zan - a difesa della quale la Santa Sede si è attivata -, è tema delle sole scuole cattoliche beneficiarie di finanziamenti pubblici? «Per nulla. La Santa Sede non riceve soldi per le scuole paritarie. Le paritarie sono gestite da privati riconosciuti, da non confondersi con Vaticano o Santa Sede. Sono enti, gestori no profit, cooperative. Inoltre, dato che i genitori dei 900.000 frequentanti le scuole paritarie pagano le tasse anche per l'istruzione statale - che vede ogni allievo costare 8.500 euro annui - della quale non si avvalgono, costoro di fatto finanziano la scuola statale con sei miliardi di euro. Meglio quindi documentarsi, altrimenti si aumentano le discriminazioni, si danneggiano i più poveri acuendo le disparità; perché se si afferma che la scuola privata è ricca per i ricchi, un “diplomificio", si dice esattamente ciò che con tali parole rischia di realizzarsi». Quindi la nota del Vaticano c'entra poco con le scuole paritarie. «Presentare così quell'atto della Santa Sede fa poco onore alla verità dei fatti. Non è corretto dire “le scuole paritarie rinuncino ai finanziamenti perché così sono libere", perché la libertà che il ddl Zan viola è anzitutto quella educativa dei genitori che, articolo 30 della Costituzione alla mano, spetta solo a loro: non alla Chiesa né allo Stato. Il ddl Zan viola poi la libertà degli stessi docenti, perché porta a un pensiero unico che punisce ed etichetta ogni rigurgito di buon senso. Una prassi storicamente dimostratasi anticamera di dittature». Quindi non la convince la tesi secondo cui, se una scuola cattolica vuole esser davvero libera, deve rinunciare ai finanziamenti pubblici. «No, ogni scuola - statale o paritaria - deve essere libera. La scuola non è un luogo dove chi paga comanda: è un servizio. Il punto vero è il gap scolastico italiano, dovuto a tre poteri: la politica - che ci ha fatto campagna elettorale - i sindacati - che ne hanno fatto luogo di tesseramento - e la burocrazia, che trae profitto dagli sprechi». Non crede che dietro la polemica sul Concordato ci sia dell'ignoranza? «In pochi conoscono il Concordato. Temo anche che in Italia ci sia una scarsa conoscenza della Costituzione, a causa dell'eliminazione dell'educazione civica, che pure si sta tentando di reintrodurre. Dobbiamo tornare ad avere una scuola che sia davvero fucina di formazione, e che fornisca ai nostri giovani strumenti per orientarsi, proteggendoli dal pensiero unico».
Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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Fabrizio Corona (Ansa)
Il punto di partenza è l’iscrizione sul registro degli indagati di Corona, che ha consentito agli inquirenti di sequestrare foto, video e chat. Nella sua nuova versione da youtuber conduttore di Falsissimo, Corona, ieri, davanti ai pm di Milano ha riempito un verbale e poi si è presentato davanti a telecamere, fotografi e cronisti: «Ho parlato del “sistema Signorini”», ha esordito. Poi ha precisato: «Tre minuti ho parlato del revenge porn e un’ora dei reati (presunti, ndr) commessi da Signorini, ma anche di tutti i suoi giri e di tutte le sue amicizie. Ho più di 100 testimonianze, ho fatto i nomi ai pm e sono già pronte due denunce contro di lui». Una di Antonio Medugno, ex concorrente del Gf Vip, edizione 2021-2022, intervistato nella seconda puntata de «Il prezzo del successo» su Falsissimo. «Anche un altro è pronto a farlo», ha annunciato Corona. Poi ha alzato i toni: «Se prendono il cellulare a Signorini trovano Sodoma e Gomorra». E ha sfidato la Procura: «Se dopo la querela non vanno a fargli una perquisizione io mi lego qua davanti al tribunale».
Corona ha precisato che la sua «non è» una «vendetta». Ma l’innesco è personale: «Dopo che gli ho visto presentare il suo ultimo libro ho detto «ci vuole un bel coraggio» e ho cominciato a fare telefonate e ho recuperato questo materiale, ne ho un sacco, ho delle fotografie sue clamorose».
Il «sistema», dice, lo ha messo nero su bianco nell’interrogatorio richiesto da lui stesso, assistito dall’avvocato Cristina Morrone dello studio legale di Ivano Chiesa. L’obiettivo dichiarato è ribaltare il tavolo e trasformare l’ennesima inchiesta a suo carico in quello che lui definisce il «Me too italiano». «Il problema», ha detto Corona, «è che lui ricopre un ruolo così importante e con quel ruolo non puoi cercare di adescare e proporre l’ingresso in un programma televisivo, che deve passare per dei casting, ci sono delle regole. Pagherà per quello che fa».
Corona, in sostanza, durante il suo interrogatorio, ha cercato di spostare l’attenzione dalle modalità con cui foto e chat sono state mostrate, su ciò che quelle chat potrebbero raccontare. Nel frattempo il fronte si è allargato: il Codacons, insieme all’Associazione utenti dei servizi radiotelevisivi, ha fatto sapere di aver depositato un esposto ai pm milanesi, all’Agcom e al Garante per la privacy.
Ora tocca alle autorità decidere, o meno, se entrare nel backstage mediatico.
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