True
2021-06-08
Licenziamenti, aggressioni, sanzioni. Gli effetti dei «ddl Zan» nel mondo
iStock
Aggressioni, licenziamenti in tronco, multe, processi, condanne: tutto solo per aver affermato che ai bambini servono un padre e una madre, o per aver manifestato contrarietà all'utero in affitto e alla partecipazione dei maschi trans alle competizioni sportive femminili.
É un elenco impressionante di «persecuzioni dolci», direbbe papa Francesco, quello contenuto nelle 60 pagine del primo Report sulle violazioni delle libertà fondamentali causate dalle leggi sull'omotransfobia. Il documento verrà presentato domani, alle 13, in conferenza stampa al Senato alla presenza dei parlamentari di centrodestra più attivi contro il ddl Zan - Simone Pillon, Lucio Malan e Isabella Rauti - e di Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu di Pro Vita & Famiglia, la onlus pro famiglia autrice dell'indagine.
«L'omotransfobia, non solo in Italia, è diventata una “clava" utile a colpire chi si oppone all'ideologia gender», ha dichiarato Coghe in vista dell'incontro di domani, aggiungendo che «le accuse di “omofobia" e di “transfobia" sono spesso utilizzate come pretesto per attaccare le persone, comprimendo il diritto alla libertà di pensiero e di religione. Abbiamo raccolto le prove e ora è il momento di renderle pubbliche».
La Verità ha visionato in anteprima il report che effettivamente colpisce, perché dimostra in modo inoppugnabile, esempi concreti alla mano, cosa già comporta, all'estero, l'applicazione di legislazioni introdotte per contrastare le discriminazioni ma poi, in realtà, rivelatesi ben altro. Per cominciare, sono esposti oltre 90 casi di violenza, abusi e altre violazioni dei diritti delle donne dovuti al transgenderismo. Le storie riportate sono agghiaccianti. Si va infatti da Karen White alias Stephen Terence Wood, transgender maschio inglese che ha ammesso d'aver aggredito sessualmente delle donne in una prigione femminile e di averne stuprate altre due fuori, al canadese Wayne Bruce Stovka, oggi Angela Valentino, anch'esso maschio transgender detenuto in una prigione femminile, dove terrorizza le detenute, che hanno paura a uscire dalle loro stanze.
Ancora, si legge di Marguerite Stern, femminista francese che ha dovuto lasciare casa sua per le minacce ricevute da attivisti trans, e della commessa che, in Spagna, è stata condannata a un anno e mezzo di prigione, con multa da 700 euro come risarcimento di danni morali, per essersi rifiutata di far provare dei reggiseni ad un uomo trans.
A legare tutte le storie, documentate con indicazione delle fonti, l'«identità di genere» quale «identificazione percepita e manifestata di sé, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione», per dirla con la lettera d) del primo comma dell'articolo 1 del ddl Zan, a rimarcare che tutto quello poc'anzi riportato, se passa la legge Lgbt, potrà accadere pure in Italia, per quanto i promotori continuino a negarlo ostinatamente.
Ma andiamo avanti. L'interessante inchiesta di Pro Vita & Famiglia prosegue con l'indicazione di altri 81 casi di persone che hanno pagato cara la loro convinzione che il sesso biologico sia rilevante, che i bambini abbiano bisogno di mamma e papà e che l'utero in affitto sia una pratica barbara.
Balzano all'occhio, pure qui, parecchi nomi di donne. Come l'americana Deepika Avanti, condannata dai giudici perché non voleva affittare una sua casa a una coppia composta da una donna e un uomo trans che si sente donna, o Lindsay Shepherd, assistente universitaria che in Canada ha subìto un procedimento per transfobia per aver mostrato un video con posizioni favorevoli e contrarie alla scelta dell'uso di pronomi gender.
Tante poi, tornando agli Usa, le donne che hanno perso il lavoro per il loro femminismo ostile all'ideologia gender: Sasha White, Kaeley Triller, Natasha Chart, M.K. Fain. In Europa le cose non vanno meglio: nel Regno Unito Lynsey McCarthy-Calvert, portavoce delle ostetriche, dopo aver scritto che «solo le donne partoriscono» ha sollevato un'ondata di proteste che l'ha portata alle dimissioni.
Ancora, il dossier riporta una cinquantina di casi internazionali di persone perseguitate in violazione della libertà religiosa, per aver espresso i propri principi etici e religiosi; ma non in Cina o in Corea del Nord, bensì in Finlandia, Belgio, Israele, Svezia, Regno Unito, insomma ovunque l'ordinamento abbia sposato le istanze arcobaleno.
Seguono quasi 70 casi di persone censurate, licenziate o che, sempre a causa di posizioni ostili al dogma gender, hanno subito il boicottaggio o danneggiamento delle loro attività economiche, e oltre 80 di sconvolgenti azioni istituzionali, governative, politiche, mediche e mediatiche volte a consolidare il transgenderismo.
Conclude questo libro nero dell'eroticamente corretto la rassegna di 40 casi italiani - un nome per tutti, il compianto psicologo Giancarlo Ricci, più volte processato dal suo ordine professionale - perseguitati per la loro contrarietà al verbo Lgbt, a conferma che il Grande Fratello arcobaleno è già fra noi. Ma approvare il ddl Zan significherebbe incoronarlo.
Il trans è simbolo e modello del nostro tempo
«Ancora giovani, questi trans somigliano a degli elfi; vecchi, a degli orchi, elfi decaduti. Il quadro clinico è dello stesso tenore. Sinistro. I rari studi fatti sugli studenti transgender dimostrano che sono quattro volte di più alle prese con problemi di salute mentale. La ricerca, condotta in 71 università, pubblicata nell'American journal of preventive medicine, non è comparsa sulla prima pagina dei vostri giornali. Peccato, perché avreste visto come la comorbilità psichica qui è la regola. Il 78% degli studenti trans presenta uno o più problemi di salute mentale. Il 60 % soffre di depressione, il 40% aveva tentato almeno una volta il suicidio». Questa citazione è tratta da un bell'articolo di François Bousquet sull'ultimo numero (aprile-maggio 2021) di Èléments: Une épidémie de transgenres.
La statistica riguarda i casi chirurgici, ma l'epidemia è la moda «trans» della domenica, dei giovani e delle giovanette annoiate, che giocano a essere quello che non sono, tutte vittime della propaganda che imperversa sui social e in tv. «Ciascuno diventa l'impresario della propria apparenza», come diceva già qualche anno fa Jean Baudrillard. Si sceglie il sesso a seconda dell'umore, come per gioco. Finché almeno ci si può pentire e tornare indietro. Ma intanto si «de-generifica», a seguito appunto della rivoluzione linguistica fondata sul «genere», che non è il sostantivo individuante di un gruppo avente caratteristiche comuni, ma lo strumento per la «de-discriminazione» pseudosessuale: abbasso il maschio, abbasso la femmina! Non più allora il premio al migliore «interprete maschile», come nei festival cinematografici di una volta: quello di Berlino li ha aboliti in favore di un premio unisex. Così niente padre o madre, ma genitore 1 e genitore 2. In Gran Bretagna le gonne nelle scuole sono benedette perché favoriscono i trans, ma a condizione che le portino anche i cosiddetti «maschi». Transgender, neologismo che veicola clandestinamente tutta l'ideologia che lo sottende: al vecchio transessualismo «le donne sapienti - scrive ancora Bousquet - gli preferiranno le delizie del transgenderismo, nuovo venuto nel lessico della preziosità. La politica linguistica di integrazione transgenderista avanza a grandi passi seguendo l'agenda demenziale della società inclusiva».
Viviamo nell'epoca della «società liquida», secondo la buonanima di Zygmunt Bauman, forse l'unica cosa sensata che abbia detto il sociologo polacco. Ma meglio ancora viviamo nell'epoca del «trans», che nulla ha a che fare con lo «über» dello «Übermensch» di Nietzsche, ben traducibile con «oltre-uomo» più che «superuomo», nell'epoca del passaggio, della transizione dove nulla è più «sostanza». In fondo, aveva visto bene all'inizio del 1900 Ernst Cassirer con il suo libro famoso su «concetto di sostanza e concetto di funzione»: la modernità ha dissolto ogni sostanza, come aveva detto ancora prima il vecchio Karl Marx nel Manifesto. Non più, dunque, «uomo», ma una dimensione gassosa che a seconda delle circostanze può essere uomo, donna, bi, inter, omo, quello che si vuole, anche animale, a questo punto, sulla premessa che si può tornare a scegliere il giorno dopo, in un soggettivismo delirante, l'esito ultimo dell'assolutismo libertario del marchese de Sade.
Il «trans» è il nuovo nato nella dissoluzione delle forme, del limite, dell'idea di orizzonte che delimita ciò che è dal suo altro o diverso. È l'orizzonte in quanto tale che deve essere abrogato nel «trans-moderno», la forma classica che deve essere confusa, come nelle tele sanguinolente di Bacon. La lingua si trasforma, decade, perde la sintassi: i verbi si usano a piacimento, si danno nuovi significati a ciò che ha sempre significato il contrario. Freud ha insegnato che la civiltà è lo sforzo di imbrigliare l'istinto; oggi l'istinto è diventato la pseudocivilizzazione dominante, che rompe ogni vincolo, ogni de-finizione, nel significato proprio del termine, di porre un confine al senso. Non più forma, come nella tradizione europea, ma in-forme, non più ordine, ma dis-ordine, il tutto, semmai, in nome dei «diritti», nemmeno più dell'uomo, ma del «trans». A quando i «transdiritti»?
Non a caso i teorici del «trans» contestano il valore della biologia come scienza. La biologia studia la vita nella sua sostanza naturale, che conosce certo le deviazioni, le difformità, ma che appunto sono tali rispetto alla natura, che conosce la femminilità e la mascolinità come dimensioni dell'essere. Quella natura che deve essere abrogata in nome nemmeno più della ideologia, ma di una squisita aberrazione mentale. Come avrebbe detto mia madre: è colpa della bomba atomica. O, secondo i filosofi à la page, semplicemente tutto è costruzione, produzione del discorso. Di qui l'uso abnorme del termine «genere». Sfogliate il Dizionario Battaglia come ho fatto io: per tre dense pagine nulla che abbia a che fare con il «gender» dei nuovi signori del tempo. Ha ragione Bousquet: il genere è performativo in sé, ovvero fa dicendo, costruisce con la parola.
Sono un giurista e questo discorso mi porta al diritto: forse non è un caso che nel diritto non si parli più di «regole», bensì di «princìpi», seguendo le ideologiche costruzioni di Ronald Dworkin, ben riprese anche in Italia dai giudici, specie costituzionali, e grazie alla quali non si giudica più in base a regole, ma appunto a presunti princìpi di origine indeterminata (anch'essi «trans»?), che devono essere «soppesati» indipendentemente dalla sostanza del caso, ma sempre in base alla «valenza» del principio (che di regola è un «diritto» appena scoperto dal giudice di turno). La regola è «dura», dice Dworkin, il «principio» molle, flessibile, «mite», per citare Zagrebelsky. Altro che «identità di genere»: a guardare bene si tratta di un altro imbroglio, perché è proprio l'identità che viene negata e deve essere negata. L'identità è natura e la natura è cattiva, perché mi fa nascere uomo o donna, mentre è giusto e bello non essere né l'uno né l'altra.
Ma se così stanno le cose, se la questione è la trasformazione della mente, l'assoggettamento della psiche alla moda imperante della equiparazione funzionale al consumo e al profitto, cosa c'entrano i «diritti»? Cosa c'entra la «prevenzione» dell'omofobia e via dicendo, come con il ddl Zan e in altre costruzioni analoghe qua e là per i paesi dell'Unione europea, che non a caso ha dichiarato l'Europa (la loro Europa) «lgbt friendly»? Ma di ciò prossimamente.
Continua a leggereRiduci
Domani Pro vita presenta in Senato il rapporto sui «risultati» delle leggi contro l'omotransfobia in Occidente. Le prime vittime sono le donne: aggredite in carcere da transgender maschi o processate per le proprie idee.L'epoca moderna ha cancellato l'idea stessa di limite e di natura: anche l'identità ormai è soggettiva.Lo speciale contiene due articoli.Aggressioni, licenziamenti in tronco, multe, processi, condanne: tutto solo per aver affermato che ai bambini servono un padre e una madre, o per aver manifestato contrarietà all'utero in affitto e alla partecipazione dei maschi trans alle competizioni sportive femminili. É un elenco impressionante di «persecuzioni dolci», direbbe papa Francesco, quello contenuto nelle 60 pagine del primo Report sulle violazioni delle libertà fondamentali causate dalle leggi sull'omotransfobia. Il documento verrà presentato domani, alle 13, in conferenza stampa al Senato alla presenza dei parlamentari di centrodestra più attivi contro il ddl Zan - Simone Pillon, Lucio Malan e Isabella Rauti - e di Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu di Pro Vita & Famiglia, la onlus pro famiglia autrice dell'indagine.«L'omotransfobia, non solo in Italia, è diventata una “clava" utile a colpire chi si oppone all'ideologia gender», ha dichiarato Coghe in vista dell'incontro di domani, aggiungendo che «le accuse di “omofobia" e di “transfobia" sono spesso utilizzate come pretesto per attaccare le persone, comprimendo il diritto alla libertà di pensiero e di religione. Abbiamo raccolto le prove e ora è il momento di renderle pubbliche». La Verità ha visionato in anteprima il report che effettivamente colpisce, perché dimostra in modo inoppugnabile, esempi concreti alla mano, cosa già comporta, all'estero, l'applicazione di legislazioni introdotte per contrastare le discriminazioni ma poi, in realtà, rivelatesi ben altro. Per cominciare, sono esposti oltre 90 casi di violenza, abusi e altre violazioni dei diritti delle donne dovuti al transgenderismo. Le storie riportate sono agghiaccianti. Si va infatti da Karen White alias Stephen Terence Wood, transgender maschio inglese che ha ammesso d'aver aggredito sessualmente delle donne in una prigione femminile e di averne stuprate altre due fuori, al canadese Wayne Bruce Stovka, oggi Angela Valentino, anch'esso maschio transgender detenuto in una prigione femminile, dove terrorizza le detenute, che hanno paura a uscire dalle loro stanze. Ancora, si legge di Marguerite Stern, femminista francese che ha dovuto lasciare casa sua per le minacce ricevute da attivisti trans, e della commessa che, in Spagna, è stata condannata a un anno e mezzo di prigione, con multa da 700 euro come risarcimento di danni morali, per essersi rifiutata di far provare dei reggiseni ad un uomo trans.A legare tutte le storie, documentate con indicazione delle fonti, l'«identità di genere» quale «identificazione percepita e manifestata di sé, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione», per dirla con la lettera d) del primo comma dell'articolo 1 del ddl Zan, a rimarcare che tutto quello poc'anzi riportato, se passa la legge Lgbt, potrà accadere pure in Italia, per quanto i promotori continuino a negarlo ostinatamente. Ma andiamo avanti. L'interessante inchiesta di Pro Vita & Famiglia prosegue con l'indicazione di altri 81 casi di persone che hanno pagato cara la loro convinzione che il sesso biologico sia rilevante, che i bambini abbiano bisogno di mamma e papà e che l'utero in affitto sia una pratica barbara. Balzano all'occhio, pure qui, parecchi nomi di donne. Come l'americana Deepika Avanti, condannata dai giudici perché non voleva affittare una sua casa a una coppia composta da una donna e un uomo trans che si sente donna, o Lindsay Shepherd, assistente universitaria che in Canada ha subìto un procedimento per transfobia per aver mostrato un video con posizioni favorevoli e contrarie alla scelta dell'uso di pronomi gender. Tante poi, tornando agli Usa, le donne che hanno perso il lavoro per il loro femminismo ostile all'ideologia gender: Sasha White, Kaeley Triller, Natasha Chart, M.K. Fain. In Europa le cose non vanno meglio: nel Regno Unito Lynsey McCarthy-Calvert, portavoce delle ostetriche, dopo aver scritto che «solo le donne partoriscono» ha sollevato un'ondata di proteste che l'ha portata alle dimissioni. Ancora, il dossier riporta una cinquantina di casi internazionali di persone perseguitate in violazione della libertà religiosa, per aver espresso i propri principi etici e religiosi; ma non in Cina o in Corea del Nord, bensì in Finlandia, Belgio, Israele, Svezia, Regno Unito, insomma ovunque l'ordinamento abbia sposato le istanze arcobaleno.Seguono quasi 70 casi di persone censurate, licenziate o che, sempre a causa di posizioni ostili al dogma gender, hanno subito il boicottaggio o danneggiamento delle loro attività economiche, e oltre 80 di sconvolgenti azioni istituzionali, governative, politiche, mediche e mediatiche volte a consolidare il transgenderismo. Conclude questo libro nero dell'eroticamente corretto la rassegna di 40 casi italiani - un nome per tutti, il compianto psicologo Giancarlo Ricci, più volte processato dal suo ordine professionale - perseguitati per la loro contrarietà al verbo Lgbt, a conferma che il Grande Fratello arcobaleno è già fra noi. Ma approvare il ddl Zan significherebbe incoronarlo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/licenziamenti-aggressioni-ddl-zan-mondo-2653271265.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-trans-e-simbolo-e-modello-del-nostro-tempo" data-post-id="2653271265" data-published-at="1623103884" data-use-pagination="False"> Il trans è simbolo e modello del nostro tempo «Ancora giovani, questi trans somigliano a degli elfi; vecchi, a degli orchi, elfi decaduti. Il quadro clinico è dello stesso tenore. Sinistro. I rari studi fatti sugli studenti transgender dimostrano che sono quattro volte di più alle prese con problemi di salute mentale. La ricerca, condotta in 71 università, pubblicata nell'American journal of preventive medicine, non è comparsa sulla prima pagina dei vostri giornali. Peccato, perché avreste visto come la comorbilità psichica qui è la regola. Il 78% degli studenti trans presenta uno o più problemi di salute mentale. Il 60 % soffre di depressione, il 40% aveva tentato almeno una volta il suicidio». Questa citazione è tratta da un bell'articolo di François Bousquet sull'ultimo numero (aprile-maggio 2021) di Èléments: Une épidémie de transgenres. La statistica riguarda i casi chirurgici, ma l'epidemia è la moda «trans» della domenica, dei giovani e delle giovanette annoiate, che giocano a essere quello che non sono, tutte vittime della propaganda che imperversa sui social e in tv. «Ciascuno diventa l'impresario della propria apparenza», come diceva già qualche anno fa Jean Baudrillard. Si sceglie il sesso a seconda dell'umore, come per gioco. Finché almeno ci si può pentire e tornare indietro. Ma intanto si «de-generifica», a seguito appunto della rivoluzione linguistica fondata sul «genere», che non è il sostantivo individuante di un gruppo avente caratteristiche comuni, ma lo strumento per la «de-discriminazione» pseudosessuale: abbasso il maschio, abbasso la femmina! Non più allora il premio al migliore «interprete maschile», come nei festival cinematografici di una volta: quello di Berlino li ha aboliti in favore di un premio unisex. Così niente padre o madre, ma genitore 1 e genitore 2. In Gran Bretagna le gonne nelle scuole sono benedette perché favoriscono i trans, ma a condizione che le portino anche i cosiddetti «maschi». Transgender, neologismo che veicola clandestinamente tutta l'ideologia che lo sottende: al vecchio transessualismo «le donne sapienti - scrive ancora Bousquet - gli preferiranno le delizie del transgenderismo, nuovo venuto nel lessico della preziosità. La politica linguistica di integrazione transgenderista avanza a grandi passi seguendo l'agenda demenziale della società inclusiva». Viviamo nell'epoca della «società liquida», secondo la buonanima di Zygmunt Bauman, forse l'unica cosa sensata che abbia detto il sociologo polacco. Ma meglio ancora viviamo nell'epoca del «trans», che nulla ha a che fare con lo «über» dello «Übermensch» di Nietzsche, ben traducibile con «oltre-uomo» più che «superuomo», nell'epoca del passaggio, della transizione dove nulla è più «sostanza». In fondo, aveva visto bene all'inizio del 1900 Ernst Cassirer con il suo libro famoso su «concetto di sostanza e concetto di funzione»: la modernità ha dissolto ogni sostanza, come aveva detto ancora prima il vecchio Karl Marx nel Manifesto. Non più, dunque, «uomo», ma una dimensione gassosa che a seconda delle circostanze può essere uomo, donna, bi, inter, omo, quello che si vuole, anche animale, a questo punto, sulla premessa che si può tornare a scegliere il giorno dopo, in un soggettivismo delirante, l'esito ultimo dell'assolutismo libertario del marchese de Sade. Il «trans» è il nuovo nato nella dissoluzione delle forme, del limite, dell'idea di orizzonte che delimita ciò che è dal suo altro o diverso. È l'orizzonte in quanto tale che deve essere abrogato nel «trans-moderno», la forma classica che deve essere confusa, come nelle tele sanguinolente di Bacon. La lingua si trasforma, decade, perde la sintassi: i verbi si usano a piacimento, si danno nuovi significati a ciò che ha sempre significato il contrario. Freud ha insegnato che la civiltà è lo sforzo di imbrigliare l'istinto; oggi l'istinto è diventato la pseudocivilizzazione dominante, che rompe ogni vincolo, ogni de-finizione, nel significato proprio del termine, di porre un confine al senso. Non più forma, come nella tradizione europea, ma in-forme, non più ordine, ma dis-ordine, il tutto, semmai, in nome dei «diritti», nemmeno più dell'uomo, ma del «trans». A quando i «transdiritti»? Non a caso i teorici del «trans» contestano il valore della biologia come scienza. La biologia studia la vita nella sua sostanza naturale, che conosce certo le deviazioni, le difformità, ma che appunto sono tali rispetto alla natura, che conosce la femminilità e la mascolinità come dimensioni dell'essere. Quella natura che deve essere abrogata in nome nemmeno più della ideologia, ma di una squisita aberrazione mentale. Come avrebbe detto mia madre: è colpa della bomba atomica. O, secondo i filosofi à la page, semplicemente tutto è costruzione, produzione del discorso. Di qui l'uso abnorme del termine «genere». Sfogliate il Dizionario Battaglia come ho fatto io: per tre dense pagine nulla che abbia a che fare con il «gender» dei nuovi signori del tempo. Ha ragione Bousquet: il genere è performativo in sé, ovvero fa dicendo, costruisce con la parola. Sono un giurista e questo discorso mi porta al diritto: forse non è un caso che nel diritto non si parli più di «regole», bensì di «princìpi», seguendo le ideologiche costruzioni di Ronald Dworkin, ben riprese anche in Italia dai giudici, specie costituzionali, e grazie alla quali non si giudica più in base a regole, ma appunto a presunti princìpi di origine indeterminata (anch'essi «trans»?), che devono essere «soppesati» indipendentemente dalla sostanza del caso, ma sempre in base alla «valenza» del principio (che di regola è un «diritto» appena scoperto dal giudice di turno). La regola è «dura», dice Dworkin, il «principio» molle, flessibile, «mite», per citare Zagrebelsky. Altro che «identità di genere»: a guardare bene si tratta di un altro imbroglio, perché è proprio l'identità che viene negata e deve essere negata. L'identità è natura e la natura è cattiva, perché mi fa nascere uomo o donna, mentre è giusto e bello non essere né l'uno né l'altra. Ma se così stanno le cose, se la questione è la trasformazione della mente, l'assoggettamento della psiche alla moda imperante della equiparazione funzionale al consumo e al profitto, cosa c'entrano i «diritti»? Cosa c'entra la «prevenzione» dell'omofobia e via dicendo, come con il ddl Zan e in altre costruzioni analoghe qua e là per i paesi dell'Unione europea, che non a caso ha dichiarato l'Europa (la loro Europa) «lgbt friendly»? Ma di ciò prossimamente.
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
Continua a leggereRiduci
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
Continua a leggereRiduci
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
Continua a leggereRiduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
Continua a leggereRiduci