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2021-06-08
Licenziamenti, aggressioni, sanzioni. Gli effetti dei «ddl Zan» nel mondo
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Aggressioni, licenziamenti in tronco, multe, processi, condanne: tutto solo per aver affermato che ai bambini servono un padre e una madre, o per aver manifestato contrarietà all'utero in affitto e alla partecipazione dei maschi trans alle competizioni sportive femminili.
É un elenco impressionante di «persecuzioni dolci», direbbe papa Francesco, quello contenuto nelle 60 pagine del primo Report sulle violazioni delle libertà fondamentali causate dalle leggi sull'omotransfobia. Il documento verrà presentato domani, alle 13, in conferenza stampa al Senato alla presenza dei parlamentari di centrodestra più attivi contro il ddl Zan - Simone Pillon, Lucio Malan e Isabella Rauti - e di Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu di Pro Vita & Famiglia, la onlus pro famiglia autrice dell'indagine.
«L'omotransfobia, non solo in Italia, è diventata una “clava" utile a colpire chi si oppone all'ideologia gender», ha dichiarato Coghe in vista dell'incontro di domani, aggiungendo che «le accuse di “omofobia" e di “transfobia" sono spesso utilizzate come pretesto per attaccare le persone, comprimendo il diritto alla libertà di pensiero e di religione. Abbiamo raccolto le prove e ora è il momento di renderle pubbliche».
La Verità ha visionato in anteprima il report che effettivamente colpisce, perché dimostra in modo inoppugnabile, esempi concreti alla mano, cosa già comporta, all'estero, l'applicazione di legislazioni introdotte per contrastare le discriminazioni ma poi, in realtà, rivelatesi ben altro. Per cominciare, sono esposti oltre 90 casi di violenza, abusi e altre violazioni dei diritti delle donne dovuti al transgenderismo. Le storie riportate sono agghiaccianti. Si va infatti da Karen White alias Stephen Terence Wood, transgender maschio inglese che ha ammesso d'aver aggredito sessualmente delle donne in una prigione femminile e di averne stuprate altre due fuori, al canadese Wayne Bruce Stovka, oggi Angela Valentino, anch'esso maschio transgender detenuto in una prigione femminile, dove terrorizza le detenute, che hanno paura a uscire dalle loro stanze.
Ancora, si legge di Marguerite Stern, femminista francese che ha dovuto lasciare casa sua per le minacce ricevute da attivisti trans, e della commessa che, in Spagna, è stata condannata a un anno e mezzo di prigione, con multa da 700 euro come risarcimento di danni morali, per essersi rifiutata di far provare dei reggiseni ad un uomo trans.
A legare tutte le storie, documentate con indicazione delle fonti, l'«identità di genere» quale «identificazione percepita e manifestata di sé, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione», per dirla con la lettera d) del primo comma dell'articolo 1 del ddl Zan, a rimarcare che tutto quello poc'anzi riportato, se passa la legge Lgbt, potrà accadere pure in Italia, per quanto i promotori continuino a negarlo ostinatamente.
Ma andiamo avanti. L'interessante inchiesta di Pro Vita & Famiglia prosegue con l'indicazione di altri 81 casi di persone che hanno pagato cara la loro convinzione che il sesso biologico sia rilevante, che i bambini abbiano bisogno di mamma e papà e che l'utero in affitto sia una pratica barbara.
Balzano all'occhio, pure qui, parecchi nomi di donne. Come l'americana Deepika Avanti, condannata dai giudici perché non voleva affittare una sua casa a una coppia composta da una donna e un uomo trans che si sente donna, o Lindsay Shepherd, assistente universitaria che in Canada ha subìto un procedimento per transfobia per aver mostrato un video con posizioni favorevoli e contrarie alla scelta dell'uso di pronomi gender.
Tante poi, tornando agli Usa, le donne che hanno perso il lavoro per il loro femminismo ostile all'ideologia gender: Sasha White, Kaeley Triller, Natasha Chart, M.K. Fain. In Europa le cose non vanno meglio: nel Regno Unito Lynsey McCarthy-Calvert, portavoce delle ostetriche, dopo aver scritto che «solo le donne partoriscono» ha sollevato un'ondata di proteste che l'ha portata alle dimissioni.
Ancora, il dossier riporta una cinquantina di casi internazionali di persone perseguitate in violazione della libertà religiosa, per aver espresso i propri principi etici e religiosi; ma non in Cina o in Corea del Nord, bensì in Finlandia, Belgio, Israele, Svezia, Regno Unito, insomma ovunque l'ordinamento abbia sposato le istanze arcobaleno.
Seguono quasi 70 casi di persone censurate, licenziate o che, sempre a causa di posizioni ostili al dogma gender, hanno subito il boicottaggio o danneggiamento delle loro attività economiche, e oltre 80 di sconvolgenti azioni istituzionali, governative, politiche, mediche e mediatiche volte a consolidare il transgenderismo.
Conclude questo libro nero dell'eroticamente corretto la rassegna di 40 casi italiani - un nome per tutti, il compianto psicologo Giancarlo Ricci, più volte processato dal suo ordine professionale - perseguitati per la loro contrarietà al verbo Lgbt, a conferma che il Grande Fratello arcobaleno è già fra noi. Ma approvare il ddl Zan significherebbe incoronarlo.
Il trans è simbolo e modello del nostro tempo
«Ancora giovani, questi trans somigliano a degli elfi; vecchi, a degli orchi, elfi decaduti. Il quadro clinico è dello stesso tenore. Sinistro. I rari studi fatti sugli studenti transgender dimostrano che sono quattro volte di più alle prese con problemi di salute mentale. La ricerca, condotta in 71 università, pubblicata nell'American journal of preventive medicine, non è comparsa sulla prima pagina dei vostri giornali. Peccato, perché avreste visto come la comorbilità psichica qui è la regola. Il 78% degli studenti trans presenta uno o più problemi di salute mentale. Il 60 % soffre di depressione, il 40% aveva tentato almeno una volta il suicidio». Questa citazione è tratta da un bell'articolo di François Bousquet sull'ultimo numero (aprile-maggio 2021) di Èléments: Une épidémie de transgenres.
La statistica riguarda i casi chirurgici, ma l'epidemia è la moda «trans» della domenica, dei giovani e delle giovanette annoiate, che giocano a essere quello che non sono, tutte vittime della propaganda che imperversa sui social e in tv. «Ciascuno diventa l'impresario della propria apparenza», come diceva già qualche anno fa Jean Baudrillard. Si sceglie il sesso a seconda dell'umore, come per gioco. Finché almeno ci si può pentire e tornare indietro. Ma intanto si «de-generifica», a seguito appunto della rivoluzione linguistica fondata sul «genere», che non è il sostantivo individuante di un gruppo avente caratteristiche comuni, ma lo strumento per la «de-discriminazione» pseudosessuale: abbasso il maschio, abbasso la femmina! Non più allora il premio al migliore «interprete maschile», come nei festival cinematografici di una volta: quello di Berlino li ha aboliti in favore di un premio unisex. Così niente padre o madre, ma genitore 1 e genitore 2. In Gran Bretagna le gonne nelle scuole sono benedette perché favoriscono i trans, ma a condizione che le portino anche i cosiddetti «maschi». Transgender, neologismo che veicola clandestinamente tutta l'ideologia che lo sottende: al vecchio transessualismo «le donne sapienti - scrive ancora Bousquet - gli preferiranno le delizie del transgenderismo, nuovo venuto nel lessico della preziosità. La politica linguistica di integrazione transgenderista avanza a grandi passi seguendo l'agenda demenziale della società inclusiva».
Viviamo nell'epoca della «società liquida», secondo la buonanima di Zygmunt Bauman, forse l'unica cosa sensata che abbia detto il sociologo polacco. Ma meglio ancora viviamo nell'epoca del «trans», che nulla ha a che fare con lo «über» dello «Übermensch» di Nietzsche, ben traducibile con «oltre-uomo» più che «superuomo», nell'epoca del passaggio, della transizione dove nulla è più «sostanza». In fondo, aveva visto bene all'inizio del 1900 Ernst Cassirer con il suo libro famoso su «concetto di sostanza e concetto di funzione»: la modernità ha dissolto ogni sostanza, come aveva detto ancora prima il vecchio Karl Marx nel Manifesto. Non più, dunque, «uomo», ma una dimensione gassosa che a seconda delle circostanze può essere uomo, donna, bi, inter, omo, quello che si vuole, anche animale, a questo punto, sulla premessa che si può tornare a scegliere il giorno dopo, in un soggettivismo delirante, l'esito ultimo dell'assolutismo libertario del marchese de Sade.
Il «trans» è il nuovo nato nella dissoluzione delle forme, del limite, dell'idea di orizzonte che delimita ciò che è dal suo altro o diverso. È l'orizzonte in quanto tale che deve essere abrogato nel «trans-moderno», la forma classica che deve essere confusa, come nelle tele sanguinolente di Bacon. La lingua si trasforma, decade, perde la sintassi: i verbi si usano a piacimento, si danno nuovi significati a ciò che ha sempre significato il contrario. Freud ha insegnato che la civiltà è lo sforzo di imbrigliare l'istinto; oggi l'istinto è diventato la pseudocivilizzazione dominante, che rompe ogni vincolo, ogni de-finizione, nel significato proprio del termine, di porre un confine al senso. Non più forma, come nella tradizione europea, ma in-forme, non più ordine, ma dis-ordine, il tutto, semmai, in nome dei «diritti», nemmeno più dell'uomo, ma del «trans». A quando i «transdiritti»?
Non a caso i teorici del «trans» contestano il valore della biologia come scienza. La biologia studia la vita nella sua sostanza naturale, che conosce certo le deviazioni, le difformità, ma che appunto sono tali rispetto alla natura, che conosce la femminilità e la mascolinità come dimensioni dell'essere. Quella natura che deve essere abrogata in nome nemmeno più della ideologia, ma di una squisita aberrazione mentale. Come avrebbe detto mia madre: è colpa della bomba atomica. O, secondo i filosofi à la page, semplicemente tutto è costruzione, produzione del discorso. Di qui l'uso abnorme del termine «genere». Sfogliate il Dizionario Battaglia come ho fatto io: per tre dense pagine nulla che abbia a che fare con il «gender» dei nuovi signori del tempo. Ha ragione Bousquet: il genere è performativo in sé, ovvero fa dicendo, costruisce con la parola.
Sono un giurista e questo discorso mi porta al diritto: forse non è un caso che nel diritto non si parli più di «regole», bensì di «princìpi», seguendo le ideologiche costruzioni di Ronald Dworkin, ben riprese anche in Italia dai giudici, specie costituzionali, e grazie alla quali non si giudica più in base a regole, ma appunto a presunti princìpi di origine indeterminata (anch'essi «trans»?), che devono essere «soppesati» indipendentemente dalla sostanza del caso, ma sempre in base alla «valenza» del principio (che di regola è un «diritto» appena scoperto dal giudice di turno). La regola è «dura», dice Dworkin, il «principio» molle, flessibile, «mite», per citare Zagrebelsky. Altro che «identità di genere»: a guardare bene si tratta di un altro imbroglio, perché è proprio l'identità che viene negata e deve essere negata. L'identità è natura e la natura è cattiva, perché mi fa nascere uomo o donna, mentre è giusto e bello non essere né l'uno né l'altra.
Ma se così stanno le cose, se la questione è la trasformazione della mente, l'assoggettamento della psiche alla moda imperante della equiparazione funzionale al consumo e al profitto, cosa c'entrano i «diritti»? Cosa c'entra la «prevenzione» dell'omofobia e via dicendo, come con il ddl Zan e in altre costruzioni analoghe qua e là per i paesi dell'Unione europea, che non a caso ha dichiarato l'Europa (la loro Europa) «lgbt friendly»? Ma di ciò prossimamente.
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Domani Pro vita presenta in Senato il rapporto sui «risultati» delle leggi contro l'omotransfobia in Occidente. Le prime vittime sono le donne: aggredite in carcere da transgender maschi o processate per le proprie idee.L'epoca moderna ha cancellato l'idea stessa di limite e di natura: anche l'identità ormai è soggettiva.Lo speciale contiene due articoli.Aggressioni, licenziamenti in tronco, multe, processi, condanne: tutto solo per aver affermato che ai bambini servono un padre e una madre, o per aver manifestato contrarietà all'utero in affitto e alla partecipazione dei maschi trans alle competizioni sportive femminili. É un elenco impressionante di «persecuzioni dolci», direbbe papa Francesco, quello contenuto nelle 60 pagine del primo Report sulle violazioni delle libertà fondamentali causate dalle leggi sull'omotransfobia. Il documento verrà presentato domani, alle 13, in conferenza stampa al Senato alla presenza dei parlamentari di centrodestra più attivi contro il ddl Zan - Simone Pillon, Lucio Malan e Isabella Rauti - e di Jacopo Coghe e Maria Rachele Ruiu di Pro Vita & Famiglia, la onlus pro famiglia autrice dell'indagine.«L'omotransfobia, non solo in Italia, è diventata una “clava" utile a colpire chi si oppone all'ideologia gender», ha dichiarato Coghe in vista dell'incontro di domani, aggiungendo che «le accuse di “omofobia" e di “transfobia" sono spesso utilizzate come pretesto per attaccare le persone, comprimendo il diritto alla libertà di pensiero e di religione. Abbiamo raccolto le prove e ora è il momento di renderle pubbliche». La Verità ha visionato in anteprima il report che effettivamente colpisce, perché dimostra in modo inoppugnabile, esempi concreti alla mano, cosa già comporta, all'estero, l'applicazione di legislazioni introdotte per contrastare le discriminazioni ma poi, in realtà, rivelatesi ben altro. Per cominciare, sono esposti oltre 90 casi di violenza, abusi e altre violazioni dei diritti delle donne dovuti al transgenderismo. Le storie riportate sono agghiaccianti. Si va infatti da Karen White alias Stephen Terence Wood, transgender maschio inglese che ha ammesso d'aver aggredito sessualmente delle donne in una prigione femminile e di averne stuprate altre due fuori, al canadese Wayne Bruce Stovka, oggi Angela Valentino, anch'esso maschio transgender detenuto in una prigione femminile, dove terrorizza le detenute, che hanno paura a uscire dalle loro stanze. Ancora, si legge di Marguerite Stern, femminista francese che ha dovuto lasciare casa sua per le minacce ricevute da attivisti trans, e della commessa che, in Spagna, è stata condannata a un anno e mezzo di prigione, con multa da 700 euro come risarcimento di danni morali, per essersi rifiutata di far provare dei reggiseni ad un uomo trans.A legare tutte le storie, documentate con indicazione delle fonti, l'«identità di genere» quale «identificazione percepita e manifestata di sé, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall'aver concluso un percorso di transizione», per dirla con la lettera d) del primo comma dell'articolo 1 del ddl Zan, a rimarcare che tutto quello poc'anzi riportato, se passa la legge Lgbt, potrà accadere pure in Italia, per quanto i promotori continuino a negarlo ostinatamente. Ma andiamo avanti. L'interessante inchiesta di Pro Vita & Famiglia prosegue con l'indicazione di altri 81 casi di persone che hanno pagato cara la loro convinzione che il sesso biologico sia rilevante, che i bambini abbiano bisogno di mamma e papà e che l'utero in affitto sia una pratica barbara. Balzano all'occhio, pure qui, parecchi nomi di donne. Come l'americana Deepika Avanti, condannata dai giudici perché non voleva affittare una sua casa a una coppia composta da una donna e un uomo trans che si sente donna, o Lindsay Shepherd, assistente universitaria che in Canada ha subìto un procedimento per transfobia per aver mostrato un video con posizioni favorevoli e contrarie alla scelta dell'uso di pronomi gender. Tante poi, tornando agli Usa, le donne che hanno perso il lavoro per il loro femminismo ostile all'ideologia gender: Sasha White, Kaeley Triller, Natasha Chart, M.K. Fain. In Europa le cose non vanno meglio: nel Regno Unito Lynsey McCarthy-Calvert, portavoce delle ostetriche, dopo aver scritto che «solo le donne partoriscono» ha sollevato un'ondata di proteste che l'ha portata alle dimissioni. Ancora, il dossier riporta una cinquantina di casi internazionali di persone perseguitate in violazione della libertà religiosa, per aver espresso i propri principi etici e religiosi; ma non in Cina o in Corea del Nord, bensì in Finlandia, Belgio, Israele, Svezia, Regno Unito, insomma ovunque l'ordinamento abbia sposato le istanze arcobaleno.Seguono quasi 70 casi di persone censurate, licenziate o che, sempre a causa di posizioni ostili al dogma gender, hanno subito il boicottaggio o danneggiamento delle loro attività economiche, e oltre 80 di sconvolgenti azioni istituzionali, governative, politiche, mediche e mediatiche volte a consolidare il transgenderismo. Conclude questo libro nero dell'eroticamente corretto la rassegna di 40 casi italiani - un nome per tutti, il compianto psicologo Giancarlo Ricci, più volte processato dal suo ordine professionale - perseguitati per la loro contrarietà al verbo Lgbt, a conferma che il Grande Fratello arcobaleno è già fra noi. Ma approvare il ddl Zan significherebbe incoronarlo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/licenziamenti-aggressioni-ddl-zan-mondo-2653271265.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-trans-e-simbolo-e-modello-del-nostro-tempo" data-post-id="2653271265" data-published-at="1623103884" data-use-pagination="False"> Il trans è simbolo e modello del nostro tempo «Ancora giovani, questi trans somigliano a degli elfi; vecchi, a degli orchi, elfi decaduti. Il quadro clinico è dello stesso tenore. Sinistro. I rari studi fatti sugli studenti transgender dimostrano che sono quattro volte di più alle prese con problemi di salute mentale. La ricerca, condotta in 71 università, pubblicata nell'American journal of preventive medicine, non è comparsa sulla prima pagina dei vostri giornali. Peccato, perché avreste visto come la comorbilità psichica qui è la regola. Il 78% degli studenti trans presenta uno o più problemi di salute mentale. Il 60 % soffre di depressione, il 40% aveva tentato almeno una volta il suicidio». Questa citazione è tratta da un bell'articolo di François Bousquet sull'ultimo numero (aprile-maggio 2021) di Èléments: Une épidémie de transgenres. La statistica riguarda i casi chirurgici, ma l'epidemia è la moda «trans» della domenica, dei giovani e delle giovanette annoiate, che giocano a essere quello che non sono, tutte vittime della propaganda che imperversa sui social e in tv. «Ciascuno diventa l'impresario della propria apparenza», come diceva già qualche anno fa Jean Baudrillard. Si sceglie il sesso a seconda dell'umore, come per gioco. Finché almeno ci si può pentire e tornare indietro. Ma intanto si «de-generifica», a seguito appunto della rivoluzione linguistica fondata sul «genere», che non è il sostantivo individuante di un gruppo avente caratteristiche comuni, ma lo strumento per la «de-discriminazione» pseudosessuale: abbasso il maschio, abbasso la femmina! Non più allora il premio al migliore «interprete maschile», come nei festival cinematografici di una volta: quello di Berlino li ha aboliti in favore di un premio unisex. Così niente padre o madre, ma genitore 1 e genitore 2. In Gran Bretagna le gonne nelle scuole sono benedette perché favoriscono i trans, ma a condizione che le portino anche i cosiddetti «maschi». Transgender, neologismo che veicola clandestinamente tutta l'ideologia che lo sottende: al vecchio transessualismo «le donne sapienti - scrive ancora Bousquet - gli preferiranno le delizie del transgenderismo, nuovo venuto nel lessico della preziosità. La politica linguistica di integrazione transgenderista avanza a grandi passi seguendo l'agenda demenziale della società inclusiva». Viviamo nell'epoca della «società liquida», secondo la buonanima di Zygmunt Bauman, forse l'unica cosa sensata che abbia detto il sociologo polacco. Ma meglio ancora viviamo nell'epoca del «trans», che nulla ha a che fare con lo «über» dello «Übermensch» di Nietzsche, ben traducibile con «oltre-uomo» più che «superuomo», nell'epoca del passaggio, della transizione dove nulla è più «sostanza». In fondo, aveva visto bene all'inizio del 1900 Ernst Cassirer con il suo libro famoso su «concetto di sostanza e concetto di funzione»: la modernità ha dissolto ogni sostanza, come aveva detto ancora prima il vecchio Karl Marx nel Manifesto. Non più, dunque, «uomo», ma una dimensione gassosa che a seconda delle circostanze può essere uomo, donna, bi, inter, omo, quello che si vuole, anche animale, a questo punto, sulla premessa che si può tornare a scegliere il giorno dopo, in un soggettivismo delirante, l'esito ultimo dell'assolutismo libertario del marchese de Sade. Il «trans» è il nuovo nato nella dissoluzione delle forme, del limite, dell'idea di orizzonte che delimita ciò che è dal suo altro o diverso. È l'orizzonte in quanto tale che deve essere abrogato nel «trans-moderno», la forma classica che deve essere confusa, come nelle tele sanguinolente di Bacon. La lingua si trasforma, decade, perde la sintassi: i verbi si usano a piacimento, si danno nuovi significati a ciò che ha sempre significato il contrario. Freud ha insegnato che la civiltà è lo sforzo di imbrigliare l'istinto; oggi l'istinto è diventato la pseudocivilizzazione dominante, che rompe ogni vincolo, ogni de-finizione, nel significato proprio del termine, di porre un confine al senso. Non più forma, come nella tradizione europea, ma in-forme, non più ordine, ma dis-ordine, il tutto, semmai, in nome dei «diritti», nemmeno più dell'uomo, ma del «trans». A quando i «transdiritti»? Non a caso i teorici del «trans» contestano il valore della biologia come scienza. La biologia studia la vita nella sua sostanza naturale, che conosce certo le deviazioni, le difformità, ma che appunto sono tali rispetto alla natura, che conosce la femminilità e la mascolinità come dimensioni dell'essere. Quella natura che deve essere abrogata in nome nemmeno più della ideologia, ma di una squisita aberrazione mentale. Come avrebbe detto mia madre: è colpa della bomba atomica. O, secondo i filosofi à la page, semplicemente tutto è costruzione, produzione del discorso. Di qui l'uso abnorme del termine «genere». Sfogliate il Dizionario Battaglia come ho fatto io: per tre dense pagine nulla che abbia a che fare con il «gender» dei nuovi signori del tempo. Ha ragione Bousquet: il genere è performativo in sé, ovvero fa dicendo, costruisce con la parola. Sono un giurista e questo discorso mi porta al diritto: forse non è un caso che nel diritto non si parli più di «regole», bensì di «princìpi», seguendo le ideologiche costruzioni di Ronald Dworkin, ben riprese anche in Italia dai giudici, specie costituzionali, e grazie alla quali non si giudica più in base a regole, ma appunto a presunti princìpi di origine indeterminata (anch'essi «trans»?), che devono essere «soppesati» indipendentemente dalla sostanza del caso, ma sempre in base alla «valenza» del principio (che di regola è un «diritto» appena scoperto dal giudice di turno). La regola è «dura», dice Dworkin, il «principio» molle, flessibile, «mite», per citare Zagrebelsky. Altro che «identità di genere»: a guardare bene si tratta di un altro imbroglio, perché è proprio l'identità che viene negata e deve essere negata. L'identità è natura e la natura è cattiva, perché mi fa nascere uomo o donna, mentre è giusto e bello non essere né l'uno né l'altra. Ma se così stanno le cose, se la questione è la trasformazione della mente, l'assoggettamento della psiche alla moda imperante della equiparazione funzionale al consumo e al profitto, cosa c'entrano i «diritti»? Cosa c'entra la «prevenzione» dell'omofobia e via dicendo, come con il ddl Zan e in altre costruzioni analoghe qua e là per i paesi dell'Unione europea, che non a caso ha dichiarato l'Europa (la loro Europa) «lgbt friendly»? Ma di ciò prossimamente.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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