2025-08-23
Medioevo di stenti? Non se sei il Paperone dei mercanti di Prato
Francesco Datini in un dipinto di Filippino Lippi (Getty Images)
Francesco Datini, ricchissimo commerciante toscano, ci ha lasciato un pantagruelico resoconto delle sue mangiate.Avignone, 15 luglio 1376. C’è aria di festa nella città dei Papi. Si celebrano le nozze tra Francesco di Marco Datini e Margherita di Domenico Bandini, cittadini avignonesi da parecchi anni, ma entrambi di origine toscana: pratese lui, fiorentina lei. La differenza d’età tra gli sposi è notevole: Francesco ha 41 anni, Margherita 16. Lui è un ricchissimo mercante, lei una giovinetta di ottima famiglia, ma povera in canna: l’anno in cui nacque il governo fiorentino condannò alla mannaia papà Bandini per aver partecipato a un complotto pro Papa contro la Repubblica di Firenze e sequestrò tutti i beni di famiglia.Le nozze sono sontuose e il convito che segue strepitoso. Nell’immenso archivio Datini che si trova a Prato c’è un documento con la lista della spesa per il banchetto di nozze: i volatili di cortile, 37 capponi, 11 galline, 23 piccioni; poi 24 pivieri; due quarti di bue grasso; 16 mezzi quarti di montone. Golosissime le gelatine preparate con gli zampetti e la testa di due maiali. Ancora: quattro mazzi e mezzo di pernici, 110 libbre di formaggio, 250 uova; 406 pani tondi. Il dolce? «250 nievolle con zucchero». Cialde antenate dei brigidini di Lamporecchio? Abbinata a tanto bendidìo, la Vernaccia: 8 picieri (contenitori). Francesco Datini, gastronomo avveduto, assume un cuoco di una certa fama, Bartolommeo Coco che pagherà «per la sua fatica tre soldi e 12 denari». Ad aiutarlo in cucina e nel servizio ingaggia un secondo cuoco, tale Ligi, e altre cinque persone.Il Paperon de’ Paperoni del tardo Medioevo visse a cavallo fra il Trecento e il Quattrocento, nel periodo in cui il Medioevo chiudeva i conti col tempo antico e il Rinascimento apriva la porta dell’era moderna. Francesco di Marco Datini fu imprenditore, magnate, finanziere e banchiere. Ma fu soprattutto un mercante con la emme maiuscola. Passò alla storia e alla letteratura come il «mercante di Prato», incarnando perfettamente l’uomo nuovo del mondo rinato dopo le angosce del Mille, l’uomo della ripresa economica, dello sviluppo dei commerci e delle città, della nascita di una borghesia ricca e più laica, amante del lusso e della buona tavola. Datini era una macchina da soldi. «Nel nome d’Iddio e del guadagno» era il motto che governava le sue azioni e che usava come intestazione nelle epistole commerciali che spediva in tutta Europa.Marco, il babbo, era un modesto tavernaio di Prato ucciso dalla peste del 1348 assieme alla moglie e ad altri due figli. Francesco, accolto da una famiglia caritatevole, affinò a 14 anni lo straordinario fiuto per gli affari come garzone nelle botteghe di due mercanti fiorentini. A 15 anni si trasferì ad Avignone. La nuova sede del papato era diventata un centro economico molto importante, un richiamo irresistibile per mercanti, artigiani, usurai e altra gente di pochi scrupoli. Il giovane mercante scalò anno dopo anno tutti i gradini che lo portarono ad essere il «mercante di Prato»: fu garzone, fattore, associato e, infine, titolare di un’azienda individuale con la quale guadagnò una colossale ricchezza.Quando Gregorio XI riportò il papato a Roma, anche Francesco Datini fece le valigie e tornò a Prato, dove si fece costruire un palazzo degno di un re. Il suo regno era fatto di fondachi, magazzini, manifatture, empori e compagnie in tutta Europa e in parecchi luoghi del Mediterraneo. Francesco e Margherita amavano entrambi la buona cucina e ne parlavano spesso nelle loro lettere. Nonostante la differenza d’età, la coppia andava molto d’accordo. Nelle carte del Datini, oltre ai conti con i pollaioli e gli speziali, non mancano le ricette e i consigli dei medici su cosa mangiare per stare bene in salute. I pranzi del giorno erano due: il desinare che si consumava tra le 9 e le 10 del mattino e la cena al tramonto. La colazione del mattino era sconosciuta nel Medioevo. Una merenda pomeridiana era concessa in estate quando il sole tramontava tardi. Ser Lapo Mazzei, notaio amico del Datini, gli suggeriva: «Fa come me: a cena mangio quattro olive e via a letto, leggero e sano». Un consiglio inascoltato: a Francesco piaceva mangiare abbondante e bene.In una lettera a Margherita, dopo un lungo viaggio, annuncia il giorno in cui sarà a Prato raccomandando di fargli trovare «…un bello brodetto con formaggio grasso, delle uova fresche, parecchi belli pesci di Bisenzio». Sollecita la moglie a comperare al mercato «parecchi belli fichi e delle pesche e noci e fate che la tavola sia bene messa e netta bene la sala». Ci teneva a mangiar bene in un bell’ambiente, oltre al palato godono anche gli occhi. Quando si fermava a lungo a lavorare nella sede di Firenze, la moglie gli mandava dalla campagna un bel po’ di provviste: uova, pollame, cacciagione, formaggio, verdura e frutta. Lui mica si accontentava. A Firenze acquistava spezie, confetti, pesce sotto sale e altre «leccornìe» che si vendevano in città. E che si faceva spedire da Firenze quando rientrava a Prato.«Il pane merita un discorso a parte», sottolinea Francesco Bernocchi, storico e scrittore pratese autore di Il pane di Prato, libro fresco di stampa. «Datini ci teneva a mangiarlo buono. Nel palazzo di Prato il pane era fatto con la farina di grano coltivato nei suoi campi e cotto nel forno fatto costruire nel giardino di casa. Per sé, per Margherita, per una ristretta cerchia famigliare e per gli ospiti illustri pretendeva il pane fatto con la farina bianca ben macinata, quello destinato al personale di servizio era fatto con farina più grossolana». E come si imbufaliva quando non trovava il pane raffinato: «Parmi questo pane molto rusticho, dimmi di quale farina egli è».Adorava la minestra: doveva essere fatta con brodo di pollo o di cappone o di pernice. Un brodo gagliardo che Datini rinforzava aggiungendo una salsa di mandorle pestate, cannella, chiodi di garofano e zenzero. Il tutto andava, poi, abbondantemente cosparso di formaggio e di zucchero. Nella lista delle prime portate erano contemplati ravioli, riso e lasagne. Datini ha lasciato ricette scritte di suo pugno. Il ripieno dei ravioli prevedeva carne di maiale tritata, uova, formaggio, un po’ di zucchero, prezzemolo. Una volta pronti, i ravioli andavano fritti nel lardo e spolverizzati di zucchero prima di servirli. Nei banchetti raccomandava di servire il bramagere (versione toscana del blanc-manger francese). Ecco la ricetta datiniana per 12 persone. Ingredienti: quattro galline, quattro libbre di mandorle, una libbra di riso, due libbre di lardo, una libbra e mezzo di zucchero e mezzo quarto di garofani. «Quando il bramagere è cotto», raccomanda, «metti dell’acqua rosata sopra le scodelle e poi zucchero e poi mandorle soffritte bianche e poi garofani. Questa vivanda vuole essere bianca come neve e potente di spezie».Le carni preferite dal «mercante di Prato» erano di vitella, maiale, capretto e montone. La vitella era considerata uno dei cibi più completi anche dal suo medico personale: «Non potreste usare per uno cibo la più sana vivanda». Francesco era particolarmente ghiotto di capponi e galline, ma i conti del suo pollaiolo testimoniano l’acquisto di pavoni, allora considerati un cibo prelibato, oche, piccioni, anatre e tortore. Quanto alla selvaggina, Francesco nomina cinghiali, lepri, fagiani e pernici, cacciati nelle sue terre oppure comprate al mercato. Il maiale merita un discorso a parte. Il mercante gourmet lo amava in tutti i modi: porchetta allo spiedo «col ramerino in bocca, come la vediamo nelle fiere di paese»; maiale pesto nei timballi; prosciutti, salami, mortadella. Il porco veniva molto usato per fare la gelatina che voleva molto solida. La considerava «una gran leccornia».Francesco Datini non si faceva mancare niente. Accontentava il palato anche nei giorni di magro. Nelle sue carte i pesci più nominati sono le tinche e i lucci del Bisenzio o dell’Arno, ma erano le anguille di Comacchio i pesci che preferiva. Anche le rane ben cotte gli davano gioia. Scrive a Margherita di aver dato alla domestica un canestro di rane pescate fresche: «Le ho detto di cuocerle per risparmiarti la fatica». Quanta delicatezza. Te la do io la differenza d’età.
13 ottobre 2025: il summit per la pace di Sharm El-Sheikh (Getty Images)
iStock
In un mondo che ancora fatica a dare piena cittadinanza alla voce femminile, questa rivista è un atto di presenza, che ho fortemente voluto, con l’intenzione di restituire visibilità e valore alle donne che ogni giorno, in silenzio o sotto i riflettori, trasformano il mondo in cui vivono.
Quelle che fondano imprese e reinventano modelli economici, che fanno ricerca, innovano nelle professioni, guidano comunità e progetti sociali. Quelle che mettono la competenza al servizio dell’impegno civile, che difendono i loro diritti, che si fanno portavoce di una nuova idea di leadership: inclusiva, empatica, concreta. Non a caso in questo numero è stato dato largo spazio al premio Donna d’autore, promosso dall’A.i.d.e. (Associazione indipendente donne europee) e in modo particolare alla sua entusiasta presidente Anna Silvia Angelini, perché le premiate rappresentano in maniera evidente i modelli di Valore Donna, dove ogni pagina è una finestra aperta su storie di talento, coraggio e visione. Non ho voluto costruire solo un racconto di unicità, ma anche restituire la normalità della grandezza femminile: donne che riescono, che sbagliano, che ricominciano, che costruiscono futuro. La loro forza non è un’eccezione, ma una presenza quotidiana che Valore Donna vuole portare alla luce, con impegno, rispetto e franchezza. Questo progetto editoriale inoltre ha nel suo dna un’idea di qualità come responsabilità: nella scrittura, nelle immagini, nella scelta dei temi. Ogni contributo è frutto di una ricerca attenta, di un linguaggio curato e di una sensibilità che si sforza di vedere il mondo con occhi diversi. Dando spazio a voci nuove, a imprenditrici, giornaliste, intellettuali, professioniste, donne della politica, giovani, donne che operano nel terzo settore, donne che collaborano, si sostengono e che raccontano la realtà contemporanea senza filtri, con l’autenticità di chi la vive pienamente. Perché solo rinnovando lo sguardo si può cambiare la prospettiva. Valore Donna vuole essere una rivista che lascia un’impronta nel panorama editoriale del Paese, un luogo d’incontro tra generazioni, esperienze e linguaggi. Non un manifesto ideologico, ma un laboratorio vivo, dove la libertà di pensiero e la sensibilità estetica si intrecciano. Nel racconto di queste pagine c’è l’orgoglio delle donne che sognano e nello stesso tempo si impegnano non per rivendicare uno spazio, ma per abitarlo con la pienezza di chi sa di meritarlo. Perché il futuro si scrive soprattutto con le loro voci.
Per scaricare il numero di «Valore Donna» basta cliccare sul link qui sotto.
Valore Donna-Ottobre 2025.pdf
Continua a leggereRiduci