2025-07-12
Il reato (ideologico) di «femminicidio» nega l’uguaglianza e influenza i giudici
Il disegno di legge, nella sua nuova formulazione, è addirittura peggiorato. Difficile legare un’azione all’odio verso le donne.Presidente di sezione emerito della Corte di CassazioneDi male in peggio. Non trovo altre parole per commentare la nuova formulazione, approvata all’unanimità il 9 luglio dalla commissione Giustizia del Senato, del reato di «femminicidio» che si vorrebbe introdurre, in aggiunta all’ordinario omicidio, nel codice penale. La formulazione originaria, contenuta nel disegno di legge a suo tempo presentato dal governo, era la seguente: «Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità è punito con l’ergastolo. Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575». Ed ecco ora il testo della nuova formulazione: «Chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di odio o di discriminazione o di prevaricazione o come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna, o in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo o come atto di limitazione delle sue libertà individuali, è punito con la pena dell’ergastolo». Diciamo subito che, indipendentemente da ogni e qualsiasi formulazione, l’idea stessa che possa attribuirsi un qualunque rilievo al sesso della persona offesa per differenziare la sanzione da infliggere a chi ne abbia cagionato la morte costituisce nulla di meno che un abominio giuridico, del tutto assimilabile a quello che, a termini invertiti rispetto agli attuali, era riscontrabile nella legislazione e nella prassi di secoli passati. Chi scrive aveva già illustrato, in un articolo comparso sulla Verità del 16 marzo 2025 il palese contrasto nel quale la nuova figura di reato, una volta introdotta nell’ordinamento, si verrebbe a trovare con il principio di uguaglianza solennemente affermato, anche con riguardo al sesso, dall’art. 3 della Costituzione. Si metteva in luce, inoltre, nello stesso scritto, come si rivelasse, in realtà, inesistente, alla stregua dei dati ufficiali del ministero dell’interno, il preteso, abnorme aumento dei «femminicidi», per fronteggiare il quale si sostiene che sarebbe comunque necessario un inasprimento delle pene, e come, in ogni caso, per espresso riconoscimento da parte della stessa ministra Roccella, promotrice del disegno di legge in discorso, nei casi comunemente definiti, nei commenti e nelle cronache giudiziarie, come «femminicidi», sarebbe già applicabile, in base alla normativa vigente, la pena dell’ergastolo. E tanto per dimostrare che le critiche non provenivano solo da chi scrive, basti ricordare, fra le tante, quelle espresse da un riconosciuto maestro del diritto penale, coautore di un notissimo manuale diffuso da decenni in buona parte delle università italiane, qual è il prof. Giovanni Fiandaca, il quale, in un articolo comparso sul Foglio del 13 marzo 2025 e ripreso il giorno dopo dalla rivista Sistema penale, esprimeva, all’esito di una rigorosa analisi, il più totale dissenso per la nuova, ipotizzata figura di reato, affermando che essa non poteva che «andare incontro a una netta bocciatura». La nuova formulazione della norma, introdotta dalla commissione Giustizia del Senato, non potrebbe che rafforzare tale giudizio. Immutato essendo rimasto, infatti, il suo evidente carattere di «norma manifesto», espressione di una determinata visione ideologica dei rapporti uomo-donna, risulta poi addirittura peggiorata, rispetto all’originale, la configurazione delle condizioni in presenza delle quali l’omicidio di una donna possa essere qualificato come «femminicidio». Ciò vale, anzitutto, con riguardo all’aggiunta, al fine di una maggiore caratterizzazione del reato, dell’elemento costituito dall’avere il colpevole cagionato la morte della donna «come atto di controllo o possesso o dominio in quanto donna». Non si comprende, infatti, sulla base di quali elementi oggettivamente accertabili un giudice potrà mai stabilire che l’atto omicidiario abbia avuto una tale inusitata e singolarissima connotazione. Essa, quindi, proprio a causa di ciò, potrà essere riconosciuta o negata, in modo sempre e comunque opinabile, a seconda dei personali orientamenti socio-politici del giudice. Il che rende la previsione in questione fortemente sospettabile di genericità e indeterminatezza e, pertanto, di contrasto con l’art. 25, secondo comma, della Costituzione, nell’interpretazione che costantemente ne è stata offerta dalla Corte costituzionale. Non meno criticabile, sotto diverso profilo, appare poi l’ulteriore aggiunta costituita dalla qualificabilità del fatto come «femminicidio» anche quando ricorra la sola condizione che esso sia stato commesso «in relazione al rifiuto della donna di instaurare o mantenere un rapporto affettivo». Appare infatti manifesta, in questo caso, la violazione del principio costituzionale di uguaglianza, giacché una identica condotta può essere facilmente posta in essere anche da una donna in relazione ad un rapporto affettivo con un uomo, e non si vede per quale ragione essa dovrebbe essere punita meno gravemente dell’altra, autore della quale si presume debba essere un uomo. Il fatto che la condotta in questione sia più frequentemente commessa da uomini non può, all’evidenza, giustificare la limitazione solo a questi ultimi della sua previsione come reato. Anche il delitto d’onore, previsto nella originaria formulazione del codice penale, risalente al 1930, era quasi sempre commesso da uomini. Ciò non aveva, però, impedito che nella norma incriminatrice ne venisse giustamente indicato come possibile autore «chiunque», per cui, teoricamente, anche una donna poteva esserne riconosciuta autrice se, come pur era possibile, avesse posto in essere la stessa condotta in danno di un uomo. E lo stesso poteva dirsi in base alla formulazione dell’analoga ipotesi di reato contenuta nel precedente codice penale Zanardelli, in vigore dal 1889 al 1930. Vien quasi da pensare, a questo punto, che i legislatori di quegli anni avessero, con riguardo all’uguaglianza dei sessi, benché non ancora codificata a livello costituzionale, idee più precise di quelle mostrate, almeno nella presente occasione, dai legislatori dell’epoca nostra; il che, potrebbe, tuttavia, spiegarsi ipotizzando che questi ultimi non abbiano inteso, in realtà, disattendere l’art. 3 della Costituzione ma solo meglio interpretarlo alla luce della regola vigente nella Fattoria degli animali di George Orwell, in cui, com’è noto, tutti gli animali erano uguali ma alcuni erano più uguali degli altri.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)