
Sulla pagina delle impostazioni della privacy di Facebook, noi utenti veniamo bombardati da messaggi rassicuranti: «il controllo è nelle tue mani», «ci impegniamo nel proteggere le informazioni» personali. La realtà, però, incrina cotanto ottimismo autocelebrativo.
Ieri si è appreso che il social network fondato da Mark Zuckerberg sta indagando su una «potenziale fuga di dati personali», appartenenti a 267 milioni di utenti. Il database è stato scoperto da Comparitech, società di cybersicurezza.
Gli esperti di Facebook, ovviamente, hanno provato a minimizzare: «Stiamo analizzando il problema», ha riferito un portavoce della piattaforma all'agenzia France Presse, «ma pensiamo che si tratti di informazioni ottenute prima delle modifiche effettuate negli ultimi anni per proteggere meglio i dati delle persone». Una scusa abbastanza surreale: innanzitutto perché dimostra per l'ennesima volta quanto sia stata «allegra» la gestione dei dati forniti con spensieratezza dagli ignari utenti del social; in secondo luogo, perché prova che le falle nella tutela della riservatezza hanno alimentato un fiume di informazioni che ora è complicato arginare. Nello specifico, i dati includevano user Id (la carta d'identità virtuale di un fruitore della Rete), password e numero di telefono dei proprietari dei profili. Che Facebook non avvisa neppure, nel caso siano stati esposti a una fuga di informazioni. La lista, peraltro, era liberamente consultabile online e risultava scaricabile dal dark Web, su un forum di hacker.
Secondo Comparitech, i dati sono stati estrapolati dalla piattaforma Api, degli sviluppatori di applicazioni, oppure mediante un'operazione di estrazione delle informazioni mediante l'utilizzo di appositi software. Il database, rimasto sul Web per due settimane, è stato rimosso dai provider del sito che lo ospitava in seguito alla segnalazione dei tecnici di cybersecurity.
È un copione che si ripete. Tre mesi fa, ad esempio, era stato individuato un database ancora più nutrito, contenente le informazioni di 419 milioni di iscritti a Facebook. Il social, lo scorso anno, era stato coinvolto nello scandalo Cambridge analytica, la società di consulenza, creata dall'ideologo trumpiano Steve Bannon e dal finanziatore del sito sovranista Breitbart news, Robert Mercer, che aveva raccolto senza consenso i dati personali di milioni di account della piattaforma di Zuckerberg, per motivi di propaganda. Nonostante la policy di Facebook sulla gestione dei dati fosse notoriamente «rilassata» e nonostante i precedenti simili durante la campagna elettorale di Barack Obama, il mondo della politica si è destato solo quando s'è scoperto che la destra americana provava ad approfittare della situazione. Tant'è che lo scorso ottobre, in audizione alla commissione Servizi finanziari della Camera statunitense, Zuckerberg è stato messo alle strette dalla deputata democratica Alexandria Ocasio Cortez proprio sulla vicenda di Cambridge analytica. Le authority Usa, intanto, stanno preparando un'ingiunzione antitrust contro l'azienda per via dell'integrazione tra le piattaforme Messenger, Instagram e Whatsapp, che consente a Facebook di incrociare decine di dati e di ottenere una profilazione completa degli utenti.
Giusto tre giorni fa, infine, il social di Zuckerberg è stato costretto ad ammettere, in una lettera indirizzata ai senatori americani, che continua a geolocalizzare gli utenti anche dopo che questi ultimi hanno espressamente negato il consenso alla condivisione di informazioni sulla loro posizione. La solfa autoassolutoria è la solita: la geolocalizzazione è necessaria per offrire agli iscritti una personalizzazione degli annunci pubblicitari. Ma non si vede in cosa consista la nobiltà di questo scopo, né si capisce perché il gioco (la perdita della privacy) dovrebbe valere la candela (la diffusione di spot «customizzati»).
È lo spettro del «capitalismo della sorveglianza», denunciato dalla studiosa di Harvard Shoshana Zuboff, autrice del monumentale The age of surveillance capitalism, di recente tradotto in italiano da Luiss university press. Ed è proprio a questo volume che la Ocasio Cortez si riferiva, quando, in audizione, ha accusato Zuckerberg di voler «usare il comportamento passato di una persona per determinarne quello futuro». Il risvolto inquietante dell'estrazione di dati su scala industriale, promossa da Facebook come da altri colossi tipo Google, è esattamente questo: tutte le tracce che lasciamo navigando sul Web diventano preziose fonti d'informazione, che i giganti di Internet estrapolano senza chiedere permesso e utilizzano per identificare chi siamo, cosa pensiamo, che desideri nutriamo, che sogni coltiviamo e, quindi, qual è il prodotto che potrebbe sedurci. Tale mole di dati costituisce un patrimonio che non solo le società informatiche possono rivendere direttamente ad aziende terze, ma possono pure impiegare per indirizzare surrettiziamente le nostre scelte. E indurci, facendo comparire un annuncio pubblicitario al momento giusto, nel posto giusto, senza che ne siamo consapevoli, a mangiare in un certo ristorante, o a mettere benzina in un certo distributore. Quale azienda non pagherebbe per avere la sicurezza di procurarsi clienti?
Ecco, secondo la Zuboff, il cambiamento antropologico che i big del Web stanno imponendo, senza preoccuparsi del nostro consenso e, quindi, minando le basi della democrazia: dal mondo della libertà e dunque dell'incertezza, al mondo della certezza assoluta, in cui le persone sono eterodirette. Forse non è un caso se Zuckerberg, mago della tecnologia digitale, vive in una casa quasi del tutto «analogica»...





