2020-12-11
Fabio Riva assolto nel momento decisivo per il ritorno dello Stato nell’Ilva
(Fabrizio Villa - Getty Images)
Cade l'accusa di bancarotta: «Il fatto non sussiste». L'inchiesta ha cambiato il destino dell'acciaio, ora in mano a Domenico Arcuri.La Corte d'appello di Milano ieri ha confermato l'assoluzione per Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia ex proprietaria dell'Ilva di Taranto, dalle accuse di bancarotta per il crac della holding Riva fire che controllava il gruppo siderurgico. Un pezzo di storia industriale del Paese avrebbe potuto quindi essere scritta in maniera completamente diversa. E per uno scherzo del destino la sentenza è arrivata nel giorno dell'attesa firma dell'accordo tra l'Invitalia, guidata da Domenico Arcuri, e Arcelormittal per sancire il ritorno dell'Ilva allo Stato. Cosa è successo in tribunale? Malgrado il ricorso in appello della Procura, la procuratrice generale Celestina Gravina ha sollecitato la conferma dell'assoluzione di Fabio Riva «perché il fatto non sussiste». Gli altri componenti della famiglia, Adriano (fratello di Emilio, l'ex patron scomparso nel 2014) e Nicola, erano già usciti dal procedimento patteggiando la pena rispettivamente a due anni e sei mesi e a tre anni di carcere dopo che un precedente tentativo di patteggiamento era stato rigettato dal gup perché la pena proposta era stata considerata «non congrua», e dunque troppo bassa. Fabio Riva, ex vicepresidente dell'Ilva, era quindi l'unico andato a processo nella vicenda. Nella gestione dell'Ilva di Taranto da parte della famiglia Riva, tra il 1995 e il 2012, aveva scritto il gup Lidia Castellucci nelle motivazioni dell'assoluzione in primo grado nel luglio 2019, la società ha investito «in materia di ambiente» e «oltre 3 miliardi per l'ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti» e quindi non c'è stato il «contestato depauperamento generale della struttura». Contro questa sentenza la Procura di Milano, che in primo grado chiese oltre cinque anni per Fabio Riva, aveva presentato appello. Il ricorso, però, non è stato condiviso in aula dal sostituto pg Gravina.«Siamo molto contenti perchè la giustizia e il diritto tornano ad essere quello che devono essere nella società: ovvero una modalità per una risoluzione pacata dei conflitti», ha commentato ieri l'avvocato Salvatore Scuto, che ha guidato insieme al collega Giampaolo Del Sasso il collegio difensivo di Fabio Riva. Il dissesto del colosso siderurgico, «come dimostra la sentenza non è stato causato dai Riva con la loro gestione di Ilva», sottolinea il legale. Ricordando che la vicenda della famiglia Riva inizia nel 1995 proprio «quando lo Stato dismise tutte le attività siderurgiche. Il merito di questi imprenditori è stato di prendere degli stabilimenti problematici» e di farli lavorare nel rispetto delle norme ambientali poste dal 2005 dalla legge e accolte dall'Aia nel 2011. La famiglia Riva «sarebbe stata pronta a prendersi sulle spalle» anche l'impianto «con le nuove norme», ma questo non è stato permesso «per l'azione giudiziaria troppo invasiva dell'autorità giudiziaria di Taranto e per la dinamica complessiva di quell'impianto», conclude Scuto. La «doppia conforme», ovvero la sentenza di assoluzione di primo grado ora confermata in appello, potrebbe avere anche un effetto sul processo ancora aperto a Taranto per il presunto disastro ambientale causato dal siderurgico. Resta, intanto, singolare, che il dispositivo della sentenza - bisognerà attendere 90 giorni per leggerne le motivazioni - sia uscito lo stesso giorno in cui era attesa la formalizzazione dell'accordo tra Invitalia e Arcelormittal. Lo Stato, attraverso la società del Mef, entra nel capitale della società siderurgica che è stata pubblica, con Iri e Finsider, sino al 1995, quando appunto fu privatizzata e data al gruppo industriale dei Riva (per quasi 2 miliardi di vecchie lire) che l'ha gestita sino all'estate del 2012 quando sono intervenuti i provvedimenti della magistratura tarantina. E successivamente il governo Letta, con un decreto legge che fece molto discutere, ha affidato il colosso siderurgico ai commissari. Fino a giugno 2017 quando viene scelta l'offerta di Arcelormittal, tramite il veicolo Am investco, che batte la concorrente Acciaitalia, con Jindal, Arvedi e Cdp, cordata capitanata da Lucia Morselli, ora ad di Arcelormittal Italia. Dopo 25 anni il colosso dell'acciaio torna pubblico nelle mani di Arcuri proprio quando, se la sentenza di ieri passerà in giudicato, rischia di innescarsi la mina dei risarcimenti che potrebbero essere richiesti dalla famiglia. C'è, del resto, un precedente importante in giurisprudenza: quei 1.000 miliardi che nel 1990 gli eredi del petroliere Nino Rovelli si videro assegnare dalla Corte d'appello di Roma nella loro causa contro l'Imi. E, visto che l'istituto di credito era pubblico, i soldi li mise lo Stato.