2023-01-12
I social network sono morti. O forse stanno solo mutando pelle
True
(IStock)
Ancora quattro o cinque anni fa, era piuttosto frequente imbattersi in articoli di futurologia un tanto al chilo che prevedevano, in tempi brevissimi, il trasloco della nostra intera attività online su Facebook. Non avremmo più creato siti, perché bastava aprire, con meno fatica e meno soldi, una pagina Facebook per la nostra azienda; non avremmo più utilizzato le mail, perché bastava usare il servizio di messagistica del social; non avremmo più usato YouTube, perché i video li avremmo caricati, cercati e visti sulla piattaforma di Mark Zuckerberg; non avremmo più navigato sui quotidiani online, perché la grande F blu avrebbe inglobato i media tradizionali.
Oggi, e già da qualche tempo, ci troviamo invece a decretare la fine di Facebook. Che va avanti per forza d'inerzia e ha ovviamente ancora una platea sterminata. Ma, di fatto, è un prodotto vecchio, per vecchi, che funziona male, che si impalla, che non è pratico, che i giovani snobbano. Vi si trovano solo meme di bassa qualità e sfoghi qualunquisti, ma l'idea è quella di un rottame digitale. Esattamente come Microsoft, arrivata prima su un settore e in possesso di un semi-monopolio, l'azienda di Menlo Park si è avvitata su se stessa, non ha saputo rinnovarsi, peggiorando sensibilmente il proprio prodotto a ogni aggiornamento. Ma non è una deriva che riguarda solo Facebook.
In due decenni, sono già morte circa una cinquantina di piattaforme (chi si ricorda di MySpace o di Google+, tanto per fare un esempio?). E gli altri, quelli che sembrano ancora andare forte? Twitter è nel pieno di una crisi di identità politico-aziendale. La precedente gestione si era incartata con le propria linea politica, le censure arbitrarie, la policy che sembrava un programma di partito. E, da quel che sta emergendo in queste settimane, sembra proprio che la gestione politica dei profili fosse scientifica. Elon Musk, dal canto suo, ha giocato a recitare il ruolo del grande liberatore, ma tuttora la sua acquisizione del social sembra più uno sfizio da miliardario, come i magnati dei film che vengono rimbalzati al ristorante e allora si comprano il locale. Manca, tuttavia, una idea costruttiva di come debba essere il nuovo Twitter e Elon Musk non sembra troppo interessato al tema. Logico che la cosa, a queste condizioni, non possa funzionare. Più in generale, comunque, Twitter appare come un social per commentatori politici e wannabe giornalisti, adatto a un pubblico non giovanissimo e istruito (o sedicente tale). Instagram sopravvive stancamente, ma mostra comunque segni di decadenza.
Spopola TikTok, ma oltre a essere legato in modo inquietante alle strutture governative cinesi e quindi anche agli altalenanti equilibri tra Pechino e l'Occidente, lo stile del social orientale – almeno nella sua versione occidentale perché, come abbiamo già detto, l'algoritmo in Cina è differente – appare effimero. «Per le persone che non amano postare video-selfie su “cosa ho fatto oggi” o non hanno la vocazione di insegnare agli altri a preparare frullati con dentro centinaia di ingredienti», si legge su Motherboard, «TikTok non sarà mai lo spazio giusto».
Quanto ai vari social di destra, da Parler al trumpiano Truth, non hanno mai preso il decollo. Parler ha mostrato poi inquietanti problemi di sicurezza quando, dopo Capitol Hill, i dati di milioni di utenti sono finiti in rete, catturati da hacker antifascisti. Del resto la forza dei social è stata quella di presentarsi come piazze virtuali, aperte a tutti: la politicizzazione della policy è arrivata strada facendo e comunque in forma subdola (per un certo periodo nelle reti sociali è stato veramente possibile far passare qualsiasi contenuto, per quanto politicamente scorretto). Un social dichiaratamente «schierato» parte ad handicap: anziché sembrare una piazza virtuale, appare come una sezione di partito virtuale. Dire che si ha un profilo su Parler, significa già fare professione di voto. Poco social e troppo militante.
Un articolo apparso sulla Harvard Business Review ha parlato di inizio dell'era antisociale dei social media. Tutto nasce, ovviamente, dai più giovani, che sono inizialmente arrivati in massa sui social per sfuggire ai controlli dei genitori. Quando questi ultimi li hanno raggiunti sulle stese piattaforme, i ragazzi hanno cominciato a migrare. In questo modo, le piattaforme hanno conosciuto una mutazione continua. Ovviamente l'era pre social non tornerà più. Ma è probabile che il macro contenitore da cui passi ogni contenuto che sognava Mark Zuckerberg qualche anno fa non veda mai la luce. Alcune piattaforme emerse di recente come Twitch, mostrano che la nuova tendenza è meno orizzontale ed egualitaria e più unidirezionale: lo streaming, il podcast, la diretta del «Vip» della rete etc. Pensiamo anche alla seconda vita di alcuni che Vip lo erano davvero, e nei media tradizionali, ma che si sono reinventati sulla Rete (un caso esemplare è la Bobo Tv). Interessante, in questo senso, anche l'evoluzione di YouTube, nato come piattaforma in cui caricare i filmini della prima comunione, quindi con un'ottica molto social prima maniera, ma che oggi conosce una seconda giovinezza per dirette e trasmissioni virtuali. Non è detto che questa sia la forma definitiva dei social, né che una forma definitiva debba necessariamente esserci. Forse, molto semplicemente, i social si evolveranno parcellizzandosi, dividendosi in mille segmenti, in mille nicchie. Ma, in questo modo, verrà meno anche la loro forza.
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Sempre più segnali indicano che le reti sociali stanno andando incontro a una crisi profonda. Ma, in ogni caso,l’era in cui ne eravamo sprovvisti non tornerà più.Ancora quattro o cinque anni fa, era piuttosto frequente imbattersi in articoli di futurologia un tanto al chilo che prevedevano, in tempi brevissimi, il trasloco della nostra intera attività online su Facebook. Non avremmo più creato siti, perché bastava aprire, con meno fatica e meno soldi, una pagina Facebook per la nostra azienda; non avremmo più utilizzato le mail, perché bastava usare il servizio di messagistica del social; non avremmo più usato YouTube, perché i video li avremmo caricati, cercati e visti sulla piattaforma di Mark Zuckerberg; non avremmo più navigato sui quotidiani online, perché la grande F blu avrebbe inglobato i media tradizionali. Oggi, e già da qualche tempo, ci troviamo invece a decretare la fine di Facebook. Che va avanti per forza d'inerzia e ha ovviamente ancora una platea sterminata. Ma, di fatto, è un prodotto vecchio, per vecchi, che funziona male, che si impalla, che non è pratico, che i giovani snobbano. Vi si trovano solo meme di bassa qualità e sfoghi qualunquisti, ma l'idea è quella di un rottame digitale. Esattamente come Microsoft, arrivata prima su un settore e in possesso di un semi-monopolio, l'azienda di Menlo Park si è avvitata su se stessa, non ha saputo rinnovarsi, peggiorando sensibilmente il proprio prodotto a ogni aggiornamento. Ma non è una deriva che riguarda solo Facebook. In due decenni, sono già morte circa una cinquantina di piattaforme (chi si ricorda di MySpace o di Google+, tanto per fare un esempio?). E gli altri, quelli che sembrano ancora andare forte? Twitter è nel pieno di una crisi di identità politico-aziendale. La precedente gestione si era incartata con le propria linea politica, le censure arbitrarie, la policy che sembrava un programma di partito. E, da quel che sta emergendo in queste settimane, sembra proprio che la gestione politica dei profili fosse scientifica. Elon Musk, dal canto suo, ha giocato a recitare il ruolo del grande liberatore, ma tuttora la sua acquisizione del social sembra più uno sfizio da miliardario, come i magnati dei film che vengono rimbalzati al ristorante e allora si comprano il locale. Manca, tuttavia, una idea costruttiva di come debba essere il nuovo Twitter e Elon Musk non sembra troppo interessato al tema. Logico che la cosa, a queste condizioni, non possa funzionare. Più in generale, comunque, Twitter appare come un social per commentatori politici e wannabe giornalisti, adatto a un pubblico non giovanissimo e istruito (o sedicente tale). Instagram sopravvive stancamente, ma mostra comunque segni di decadenza. Spopola TikTok, ma oltre a essere legato in modo inquietante alle strutture governative cinesi e quindi anche agli altalenanti equilibri tra Pechino e l'Occidente, lo stile del social orientale – almeno nella sua versione occidentale perché, come abbiamo già detto, l'algoritmo in Cina è differente – appare effimero. «Per le persone che non amano postare video-selfie su “cosa ho fatto oggi” o non hanno la vocazione di insegnare agli altri a preparare frullati con dentro centinaia di ingredienti», si legge su Motherboard, «TikTok non sarà mai lo spazio giusto». Quanto ai vari social di destra, da Parler al trumpiano Truth, non hanno mai preso il decollo. Parler ha mostrato poi inquietanti problemi di sicurezza quando, dopo Capitol Hill, i dati di milioni di utenti sono finiti in rete, catturati da hacker antifascisti. Del resto la forza dei social è stata quella di presentarsi come piazze virtuali, aperte a tutti: la politicizzazione della policy è arrivata strada facendo e comunque in forma subdola (per un certo periodo nelle reti sociali è stato veramente possibile far passare qualsiasi contenuto, per quanto politicamente scorretto). Un social dichiaratamente «schierato» parte ad handicap: anziché sembrare una piazza virtuale, appare come una sezione di partito virtuale. Dire che si ha un profilo su Parler, significa già fare professione di voto. Poco social e troppo militante. Un articolo apparso sulla Harvard Business Review ha parlato di inizio dell'era antisociale dei social media. Tutto nasce, ovviamente, dai più giovani, che sono inizialmente arrivati in massa sui social per sfuggire ai controlli dei genitori. Quando questi ultimi li hanno raggiunti sulle stese piattaforme, i ragazzi hanno cominciato a migrare. In questo modo, le piattaforme hanno conosciuto una mutazione continua. Ovviamente l'era pre social non tornerà più. Ma è probabile che il macro contenitore da cui passi ogni contenuto che sognava Mark Zuckerberg qualche anno fa non veda mai la luce. Alcune piattaforme emerse di recente come Twitch, mostrano che la nuova tendenza è meno orizzontale ed egualitaria e più unidirezionale: lo streaming, il podcast, la diretta del «Vip» della rete etc. Pensiamo anche alla seconda vita di alcuni che Vip lo erano davvero, e nei media tradizionali, ma che si sono reinventati sulla Rete (un caso esemplare è la Bobo Tv). Interessante, in questo senso, anche l'evoluzione di YouTube, nato come piattaforma in cui caricare i filmini della prima comunione, quindi con un'ottica molto social prima maniera, ma che oggi conosce una seconda giovinezza per dirette e trasmissioni virtuali. Non è detto che questa sia la forma definitiva dei social, né che una forma definitiva debba necessariamente esserci. Forse, molto semplicemente, i social si evolveranno parcellizzandosi, dividendosi in mille segmenti, in mille nicchie. Ma, in questo modo, verrà meno anche la loro forza.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.