
Il Papa ha definito «sicari» i medici che praticano l’interruzione di gravidanza. Più corretto chiamarli «boia», visto che agiscono nel rispetto delle leggi. Parole dure? Se non chiamiamo le cose con il loro nome, condanniamo le ragazze a una vita di rimpianti.Dire pane al pane e vino al vino vuol dire chiamare le cose con il loro vero nome, o anche chiamare le persone con il loro vero nome. Il pontefice attualmente regnante ha finalmente parlato contro l’aborto, definendo i medici abortisti come sicari. Si tratta in tutti i casi di un discorso ambiguo, visto che lo stesso Papa aveva definito Emma Bonino una grande italiana. La signora ha eseguito migliaia di aborti, lei non è un sicario? Oppure il fatto che favorisca al massimo l’ingresso in Italia di un enorme numero di emigranti maschi islamici in età militare provenienti da zone di guerre asintomatiche e fame impalpabile, i cosiddetti migranti, fa passare in secondo piano l’abbattimento di minuscoli naufraghi che non avevano altra possibilità di sopravvivenza che essere accolti? Anche il conferimento da parte del Vaticano nel 2017 della Medaglia di San Gregorio Magno a Lilianne Ploumen, già ministro olandese particolarmente attiva nella diffusione a livello mondiale dell’aborto e dei diritti Lgbt, lascia perplessi noi e certamente anche San Gregorio. Una terza abortista portata letteralmente sugli altari è l’idolo chiamato Pachamana, una madre terra rinsecchita dalla siccità, con le mammelle vuote, cui si facevano sacrifici di feti e neonati. Le informazioni corrette sull’anatomia della gravidanza che la Pachamama mostra nella rappresentazione del ventre in sezione non possono che essere state ottenute sventrando donne incinte. L’aborto volontario è un tale scandalo che bisognerebbe evitare di dare riconoscimenti verbali e onorificenze a chi ne parla come un diritto umano. Scandalo viene da inciampo, ostacolo, insidia. Meglio una macina al collo che scandalizzare questi piccoli, è scritto nel Vangelo. Un bambino si scandalizza a essere ammazzato. Un bambino si scandalizza all’idea che avrebbe potuto essere ammazzato e che questo sarebbe stato considerato normale, perfettamente legale. Oltre che ambiguo, è un discorso semanticamente scorretto. I medici hanno fatto un’alzata di scudi, visto che finalmente qualcosa di cattolico è stato detto, rispondendo che loro seguono la legge. Hanno ragione loro: il sicario è un fuorilegge, deve avere un certo coraggio, correre rischi, avere anche abilità militari: mira, conoscenza delle arti marziali, capacità di travestimento. E soprattutto rischia l’arresto. I medici abortisti con dodici mensilità, tredicesima e pensione, rientrano nella figura statale. Loro sono all’interno della legge. Il termine corretto è boia, cioè colui che ha l’ufficio di eseguire le sentenze di morte di un essere umano all’interno della legge. A tutti i medici abortisti che stanno sussultando davanti a questa definizione, dico: per favore, prima di sussultare, esaminate le parole. Quello che voi distruggete, non è un essere? È un non essere? Non diciamo idiozie. Non è umano? Cosa è, un essere canino, vegetale, un porcospino, una stella di mare? È un essere umano. Molti di voi, sbagliando, non lo considerano ancora persona, ma solo persona in potenza. Nessuno di voi può negare che è comunque un essere ed è umano. Voi mettete le mani su un essere umano che prima di incontrarvi era vivo e dopo avervi incontrato è morto, quasi sempre smembrato da vivo e senza anestesia. Quello che fate si chiama uccidere un essere umano e lo fate con uno stipendio statale. Il punto di questa diatriba è duplice: molti di voi ritengono che si diventi persona solo dopo la nascita e che chiunque non sia desiderato da sua madre non debba avere il diritto di vivere nel suo utero, anche se questo ne causa la morte, perché la madre deve avere il diritto di gestire il proprio corpo. Questo diritto non è riconosciuto per chi vuole rifiutare un vaccino, o uscire di casa durante un inutile assurdo lockdown. Nel momento in cui chiede l’aborto, la volontà della donna è far uccidere il bambino di cui vuole sbarazzarsi, azione che non può fare da sola in quanto violentemente anti fisiologica. Il quel momento la volontà del bambino, volontà di cui qualsiasi essere vivente inclusa l’ameba è dotato, è di vivere, ma del bambino non ve ne importa niente perché lo considerate un pezzo del corpo della madre. Ha un Dna diverso, ma sono quisquilie... Quando sei mesi dopo o dieci anni dopo la donna si rende conto di aver fatto l’idiozia della sua vita, voi site in grado di ridarle il suo bambino vivo? No. Una donna può esercitare la libertà del suo corpo soffiandosi il naso quando vuole o uscendo di casa quando vuole anche se Speranza è contrario, ma una donna che decida di abortire non può farlo da sola. La libertà non riguarda quello che non è spontaneo, quello per cui ho bisogno di una sala operatoria, un anestesista e un ginecologo. Non può rientrare nel concetto di libertà qualcosa per cui tutta la società è costretta a essere complice e qualcuno fa un lavoro che può essere semanticamente ricondotto alla definizione di boia. L’aborto volontario è violentemente anti fisiologico. La gravidanza è fisiologia. La fisiologia prevede che all’atto sessuale possa seguire il concepimento e la gravidanza, con la nascita di una nuova creatura umana, unica e irripetibile. Basta pochissimo perché molte madri decise ad abortire si fermino. Un anziano ginecologo francese era entrato nella sala d’aspetto dove si aspettava di abortire e aveva messo in mano a ciascuna della signore presenti un paio di scarpine da neonato. Questo gesto era stato sufficiente perché tre su dieci cambiassero idea. Far sentire il battito, far vedere l’ecografia permette di fermare tutte le donne che poi lo rimpiangerebbero. Se siete credenti sapete che ogni bimbo è mandato da Dio. Nel Vangelo è anche scritto: tutto quello che farete al più piccolo di voi lo farete a me. Se siete credenti, nel bidone dell’aspiratore ci finisce anche Cristo. Molte persone non credenti troveranno questo discorso ridicolo. Io sono credente ed esigo il diritto all’obiezione di coscienza fiscale. Non voglio finanziare questo massacro. «L’utero è mio e me lo gestisco io», è la promessa non mantenuta. Non deve essere fatto con denaro pubblico, mai, per nessun motivo. Una donna non può essere obbligata e tenersi un figlio che non vuole? Rimanere incinte in un’epoca di capacità tecniche anticoncezionali come la nostra non è mai un incidente, è il risultato di un desiderio inconscio, e vale per l’aborto la stessa regola che vale per il suicidio assistito e per la castrazione ampollosamente chiamata chirurgia di transizione di genere: essendo pratiche anti fisiologiche c’è solo una parte della mente che le vuole. Però la stessa classe medica che ha apprezzato l’imposizione di vaccini inefficaci e pericolosi, nell’antifisiologia vuole la difesa della libertà di scelta. Quando mi sono laureata, 1976, ho dato per ultimo l’esame di medicina legale. L’aborto era un reato, il suicidio assistito era chiamato omicidio del consenziente, la castrazione era chiamata lesione gravissima del consenziente. Esiste già un reato di intralcio all’aborto (il ginecologo delle scarpine è stato inquisito). Esiste in altre nazioni la colpa di intralcio alla castrazione: il genitore inorridito dallo scempio che si vuol fare del corpo del suo bimbo approfittando della sua confusione perde la patria potestà. Esisterà anche il reato di intralcio al suicidio: quello che si slancia per salvare il suicida che si sta buttando sotto il treno sarà inquisito. Per quanto riguarda il suicidio, la frase «voglio morire» è una richiesta di aiuto, non di morte. Ho seguito diverse pazienti nel loro ultimo tratto di strada. Il rimpianto di quel bimbo non accolto è atroce. Chiedo a tutte le donne che portano il loro concepito non nato nel cuore di denunciare il medico abortista. Sul consenso informato non c’era scritto che avreste potuto rimpiangerlo, non c’era scritto che quel medico che lo ha ucciso secondo legge percependo tredici mensilità non è in grado di risuscitarlo e ridarvelo.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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