2024-05-13
Ernesto Colnago: «Ho vinto tutto ma resto un artigiano»
Il grande costruttore si racconta: «Invitai Magni nel mio “bugigattolo”, gli risolsi un problema alla pedalata e mi volle con sé al Giro. Il mio motto? Mano, lima e testa. Ferrari era un genio. Come Pogacar c’era solo Merckx».L’ultimo dei grandi artigiani-costruttori italiani di biciclette è un uomo oggi minuto ma con l’altezza dei suoi 92 anni in perfetta forma. Ricorda ogni data, ogni snodo, ogni fatica e ferita, ogni commozione. «Sono sempre stato un uomo innamorato», mi dice nella sua casa di Cambiago, qualche chilometro da Milano, che basta attraversare la strada e si entra in azienda. Lo dice tra racconti di lavoro, campioni e vittorie - tutti non ci stanno in una pagina di giornale - quando a un certo punto si ferma, mi guarda negli occhi e fa la sua sintesi. «La vita è passione e amore, continuità e serietà. L’esperienza non ha un prezzo. E i successi arrivano passo dopo passo».Un’oretta prima, Ernesto Colnago stava ancora armeggiando con le chiavi delle porte de «La collezione» - più che un museo, uno spazio dell’anima, la sua, e della storia, di tutti noi - che già gli chiedevo di Tadej Pogacar, che in questi giorni al Giro d’Italia corre forte in sella a una bici con il suo marchio. Mi fa cenno con le mani: «Calma, si deve dare una calmata, sta andando fin troppo bene. Quello che ha fatto lui alla sua età lo aveva fatto solo un certo Eddy Merckx», dice con un guizzo negli occhi, ché li conosce bene i suoi atleti. La maggioranza dell’azienda da qualche anno è passata a un fondo di investimento. Entriamo in sala. Lui mi mostra ogni bicicletta e ogni fotografia. Ce n’è una che lo ritrae da bambino, alla Comunione. «Il vestito era in prestito, e vede che ho tagliato via i piedi dalla foto?».Perché lo ha fatto?«Perché eravamo così poveri che mia madre mi aveva cucito le calze di due marroni diversi e avevo scarpe usate del 42, ma non portavo nemmeno il 37, sembravo Charlie Chaplin».È figlio di contadini.«E me ne vanto. Avevamo 8 mucche, e i tedeschi se le portarono via tutte tranne una per dare il latte ai bambini. Alle elementari mungevo, e davo una mano nei campi, ma chiesi a mio padre la possibilità di imparare un altro mestiere».Ci restò male?«Diceva sempre a mia madre che non voleva negarmi niente, darmi la possibilità. Qualche mese da un elettricista, e poi in un’officina del paese che riparava aratri, zappe e pure le biciclette. Erano i miei genitori a ricompensare la famiglia che mi dava lavoro, pensi un po’: due chili di farina gialla a settimana per insegnarmi la saldatura, e allora era come l’oro».Fu l’inizio?«Forse quello vero fu più avanti, ma non avevo nemmeno 14 anni. Era il 25 novembre e nevicava, il mio amico Luigi e io - con indosso il pastrano tagliato di mio zio tornato dalla prigionia in Russia - fummo accettati alla azienda meccanica Gloria di Alfredo Focesi: si costruivano biciclette e motorini. Per essere assunto mentii sull’età, aumentandola di un anno. Mi misero accanto al Sozzi, il miglior saldatore. Che alla prima distrazione mi provocò apposta con la cannella della fiamma ossidrica una bruciatura».Crudeltà?«E però ricordo ancora quel che mi insegnò: “Sul lavoro non si scherza, sul lavoro non ci si guarda in giro”».Poi cominciò a fare il mestiere in proprio…«Affittai una stanza qui a Cambiago di 5 metri per 5. Un tavolo in legno, un trapanino a mano e una morsa. Niente altro, all’inizio. Mi facevo pagare non in soldi, ma in materiale. Così riparavo le bici dei contadini e degli operai. Mi costruii la fama di chi fa le cose per bene e non tira bidoni. Allora correvo anche in bici. Ma lavoravo anche 15 ore al giorno, a montare biciclette mano a mano per i dilettanti della mia zona».La prima bici con il suo nome?«Era 1954. Che orgoglio. Cominciava a circolare voce che c’era un ragazzo a Cambiago che ci sapeva fare con le mani».L’incontro decisivo fu con Fiorenzo Magni.«Allora esistevano solo loro tre: Coppi, Bartali e Magni. Ero pieno di vergogna, quasi non volevo accettare l’invito di un amico a conoscere un fuoriclasse assoluto come lui».Si ricorda bene quel giorno?«E come dimenticarlo? Ogni dettaglio. Primavera 1955: usciamo in bici con un po’ di amici. Mancava qualche giorno al Giro d’Italia. In una pausa di allenamento, sento Magni lamentarsi del male alla gamba, e mi accorgo che la pedivella era da sistemare, così che la pedalata fosse rotonda. Lo invito nel mio “bugigattolo” - così lo chiamò lui ».La rimise in asse bene?«Tanto che mi chiese di andare al Giro, che poi vinse. Io gli raddrizzai la bici, lui a me la vita. L’anno dopo ero il primo meccanico. Un sogno. I campioni del ciclismo che diventavano compagni di viaggio».Sempre da artigiano, collezionando vittorie.«Ho fatto bici per Saronni, Bettini, Motta, Popovich, Adorni, Merckx, Rominger, Tonkov, Petacchi (impossibile citarli tutti, ndr)… Sempre su misura, sempre alla ricerca della perfezione che si otteneva con la fatica delle mani, senza le tecnologie che esistono oggi. Mano-lima-testa, soprattutto la testa: a ripetersi di “migliorare ma non rompere”. Ero l’unico a fare i telai con le congiunzioni che potevi smontare».Il suo simbolo è un asso di fiori. Che storia c’è dietro?«Michele Dancelli vince nel 1970 la Milano-Sanremo, uno dei giorni più belli della mia vita. Piangevo come un bambino. Incontro in un ristorante Bruno Raschi, giornalista principe della Gazzetta dello Sport. Si giocava a carte, e lui prima di salutarmi mi mostra l’asso di fiori. Mi dice: asso, perché sei un asso tra i meccanici, e di fiori perché è il simbolo di Sanremo: ti porterà fortuna. Così è stato».La bici di Ballerini ho visto che la conserva sporca di fango.«Ho chiesto che non venisse pulita, è un simbolo della sua vittoria alla Parigi-Roubaix».A quella corsa debuttò la sua rivoluzione della bicicletta: in carbonio con la forcella dritta.«Ero rimasto a casa, e Giorgio Squinzi mi chiama a tarda sera, mi chiede se eravamo sicuri di non usare invece le bici d’acciaio, e le forcelle ammortizzate. Mi dice: “Qui stan diventando tutti matti. Se si spaccano, perdi tutto”. Ero sicuro. Anni di ricerca con il Politecnico, e con la Ferrari. I test avevano dimostrato che le bici erano affidabili. Squinzi risponde: “Va bene, se vinciamo vinciamo in due, se perdiamo, perdiamo tutto” Un amico vero».Dormì, quella notte?«Neanche un minuto. Mi ricordo ancora davanti alla tv, a guardare le tante cadute e poi le tre bici Mapei che emergono dall’Inferno del Nord. Vinse Franco Ballerini e di Roubaix ne vincerò altre quattro».Cambiò tutto.«Nulla fu più come prima. Si ricredettero tutti. Ci copiarono tutti».In questa rivoluzione c’era lo zampino di Enzo Ferrari.«Un genio. Riuscii a organizzare un incontro a Maranello e gli dissi che volevo utilizzare per le bici i materiali della Formula 1. Disegnammo insieme quel giorno a tavola telai e forcelle in carbonio».Che ricordo ha di Ferrari?«Io davanti a lui ultraottantenne, un giorno, ed ero un po’ demoralizzato in quel periodo. Mi chiede: quanti anni hai, Ernesto. Rispondo: 54. Fa una pausa, diventa tutto rosso: “Vergognati Ernesto, ti senti vecchio e io alla tua età ho iniziato a creare le cose più belle”. Ci ho ripensato ogni volta che le cose non giravano per il verso giusto: è stata una svolta per la mia vita e mi ha dato energia per migliorarmi sempre».Le concesse poi il marchio.«Biciclette Colnago-Ferrari. Un sogno. Mi ritenne all’altezza della miglior fabbrica di costruttori di automobili del mondo. Un giorno mi disse che gli piaceva la mia schiettezza».Nella sua Collezione ci sono pezzi di valore inestimabile, impossibile anche in questo caso elencarli tutti. Un altro pezzo di storia è nella foto che la ritrae con papa Giovanni Paolo II.«Gli feci una bicicletta d’oro, e poi gliene donai un’altra sportiva per utilizzarla. Mi raccontò che in Polonia macinava chilometri, da giovane. Ci invitò, la mia famiglia ed io, a una messa privata delle sei del mattino, ho ancora la pelle d’oca a ricordare quel momento».Lei ha fede?«Che vuole che le dica, io sono nato in quei tempi lì. E non mi chieda di politica, perché le risponderei che sono - semplicemente - del partito della bicicletta. E quando c’è da andare a votare voto per chi mi sta più simpatico».Ha rischiato tanto, Colnago, in vita sua?«I soldi per crescere li ho messi tutti di tasca mia. Nessuno mi ha mai aiutato. Ho avuto coraggio. Indipendente, autonomo, autarchico: un artigiano».Ha venduto in tutto il mondo le sue biciclette.«Fino in Russia, in Cina e in tutto l’Est. Mi sono sempre buttato, parlando brianzolo».Chi sono per lei i suoi campioni?«Come figli miei, come sono figlie le biciclette. Ho sempre cercato di dare una mano, perché così mi aveva insegnato la vita: tanti campioni venuti dall’Est dopo la caduta del muro di Berlino furono una famiglia allargata, per me. Ho sempre voluto bene a tutti i miei corridori e non ho preferiti, e loro mi hanno sempre mostrato grande riconoscenza».A qualcuno si sente di dire grazie?«Alla mia famiglia. A mia moglie, Vincenzina, che ho conosciuto a 13 anni e ogni giorno aspettavo fuori dall’oratorio: abbiamo condiviso sessant’anni stupendi di vita ed è mancata qualche anno fa. Il grazie va a mia figlia, Anna, e a mio genero Vanni, oltre che ai nipoti e a mio fratello Paolo, morto pochi anni fa, ed era il mio braccio destro. E poi ai miei collaboratori, anche quelli sono famiglia».Oggi il mondo del ciclismo è tanto cambiato?«Quasi un altro mondo: le squadre vogliono troppo. Ai tempi di Magni aveva due bici lui e i compagni una sola. Qualche telaio di scorta, e al massimo si cambiava la forcella. Oggi i corridori sono fin troppo viziati».
Sehrii Kuznietsov (Getty Images)
13 agosto 2025: un F-35 italiano (a sinistra) affianca un Su-27 russo nei cieli del Baltico (Aeronautica Militare)
La mattina del 13 agosto due cacciabombardieri F-35 «Lightning II» dell’Aeronautica Militare italiana erano decollati dalla base di Amari, in Estonia, per attività addestrativa. Durante il volo i piloti italiani hanno ricevuto l’ordine di «scramble» per intercettare velivoli non identificati nello spazio aereo internazionale sotto il controllo della Nato. Intervenuti immediatamente, i due aerei italiani hanno raggiunto i jet russi, due Sukhoi (un Su-27 ed un Su-24), per esercitare l’azione di deterrenza. Per la prima volta dal loro schieramento, le forze aeree italiane hanno risposto ad un allarme del centro di coordinamento Nato CAOC (Combined Air Operations Centre) di Uadem in Germania. Un mese più tardi il segretario della Nato Mark Rutte, anche in seguito all’azione di droni russi in territorio polacco del 10 settembre, ha annunciato l’avvio dell’operazione «Eastern Sentry» (Sentinella dell’Est) per la difesa dello spazio aereo di tutto il fianco orientale dei Paesi europei aderenti all’Alleanza Atlantica di cui l’Aeronautica Militare sarà probabilmente parte attiva.
L’Aeronautica Militare Italiana è da tempo impegnata all’interno della Baltic Air Policing a difesa dei cieli di Lettonia, Estonia e Lituania. La forza aerea italiana partecipa con personale e velivoli provenienti dal 32° Stormo di Amendolara e del 6° Stormo di Ghedi, operanti con F-35 e Eurofighter Typhoon, che verranno schierati dal prossimo mese di ottobre provenienti da altri reparti. Il contingente italiano (di Aeronautica ed Esercito) costituisce in ambito interforze la Task Air Force -32nd Wing e dal 1°agosto 2025 ha assunto il comando della Baltic Air Policing sostituendo l’aeronautica militare portoghese. Attualmente i velivoli italiani sono schierati presso la base aerea di Amari, situata a 37 km a sudovest della capitale Tallinn. L’aeroporto, realizzato nel 1945 al termine della seconda guerra mondiale, fu utilizzato dall’aviazione sovietica per tutti gli anni della Guerra fredda fino al 1996 in seguito all’indipendenza dell’Estonia. Dal 2004, con l’ingresso delle repubbliche baltiche nello spazio aereo occidentale, la base è passata sotto il controllo delle forze aeree dell’Alleanza Atlantica, che hanno provveduto con grandi investimenti alla modernizzazione di un aeroporto rimasto all’era sovietica. Dal 2014, anno dell’invasione russa della Crimea, i velivoli della Nato stazionano in modo continuativo nell’ambito delle operazioni di difesa dello spazio aereo delle repubbliche baltiche. Per quanto riguarda l’Italia, quella del 2025 è la terza missione in Estonia, dopo quelle del 2018 e 2021.
Oltre ai cacciabombardieri F-35 l’Aeronautica Militare ha schierato ad Amari anche un sistema antimissile Samp/T e i velivoli spia Gulfstream E-550 CAEW (come quello decollato da Amari nelle immediate circostanze dell’attacco dei droni in Polonia del 10 settembre) e Beechcraft Super King Air 350ER SPYD-R.
Il contingente italiano dell'Aeronautica Militare è attualmente comandato dal colonnello Gaetano Farina, in passato comandante delle Frecce Tricolori.
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