2022-03-02
Entriamo in guerra ma non sappiamo perché
La coalizione occidentale s’imbarca in un conflitto con Mosca, con un elevato rischio di escalation, senza averne neanche definito gli obiettivi: ripristinare la sovranità dell’Ucraina? Includerla nella Nato? Scalzare Vladimir Putin? Una vaghezza che potrebbe costarci cara.La guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi. Le armi sono uno strumento: servono a raggiungere uno scopo. E gli scopi li decidono le teste pensanti, mica il fragore dei mitra. Vogliamo spedire blindati, mitragliatori e missili terra-aria alla resistenza ucraina? Bene. Ma quand’anche riuscissimo a condurre una guerra per procura, che fine staremmo perseguendo? È un interrogativo ineludibile. Viene prima l’emergenza sul campo di battaglia? Certo. Però lo sforzo bellico prelude a un ordine postbellico. Quale?Un’ipotesi è che il nostro obiettivo sia ripristinare lo status quo. L’invasione russa viene respinta grazie al coraggio dei patrioti di Kiev, a furia di elicotteri abbattuti e carri armati inceneriti con gli armamenti giunti dall’Ovest. Mosca si rassegna al fallimento dell’«operazione speciale». L’Ucraina tira un sospiro di sollievo. Noi prendiamo due piccioni con una fava: ridimensioniamo Vladimir Putin e mandiamo un segnale a Xi Jinping su Taiwan. Ma la meta concettualmente più banale non è per forza quella tecnicamente più semplice da conquistare. Come si farebbe a congelare l’equilibrio? E a evitare gli strascichi del conflitto? Innanzitutto, servirebbe l’assicurazione che il Cremlino rinunci definitivamente all’opzione militare. Ma bisognerebbe anche prendere precauzioni nei territori più caldi: qualcuno immagina, ad esempio, il destino della popolazione russofona nel Donbass? Le vessazioni e le violenze ai suoi danni diverrebbero più frequenti e feroci. Finirebbe per aleggiare lo spettro della pulizia etnica. Peraltro, è prevedibile che il repulisti verrebbe condotto con gli equipaggiamenti procacciati dagli occidentali. Ci volteremmo dall’altra parte, per citare Mario Draghi? Oppure ci sentiremmo in dovere di organizzare una successiva «missione di pace? E se accadesse, come la prenderebbero, al di là del confine ucraino, la presenza di contingenti sulla soglia di casa?Supposizione peggiore: la consegna degli armamenti mirerà, cinicamente, a instaurare uno stallo alla siriana nel teatro ucraino. Messa in maniera schietta: abbiamo intenzione di trasformare Kiev nell’Aleppo d’Europa? Se le scorte che Roma fornirà agli alleati bastano per un anno, significa che noi consideriamo possibile un esito del genere. Può darsi che la riteniamo una tattica idonea a logorare lo zar, un po’ come accadde in Afghanistan ai sovietici. Però dobbiamo essere consapevoli delle potenziali conseguenze umanitarie, politiche e militari: un’ecatombe tra i civili; richieste sempre più pressanti da parte di Volodymyr Zelensky, che già ora spinge per l’ammissione dell’Ucraina nell’Ue; una condizione precaria, con l’incubo costante di un’improvvisa escalation. In effetti, non è chiaro se, alle nostre latitudini, tutti abbiano compreso cosa comporta davvero l’approvvigionamento di mezzi letali. Stiamo coltivando la pia illusione di una battaglia per interposti ucraini. Tuttavia, quando un Sukhoi precipiterà per via di un terra-aria marchiato con il tricolore, la Russia potrà ritenerci responsabili. È ovvio: reagire nei confronti di un membro Nato significherebbe superare il punto di non ritorno; e a Mosca sanno di non poterla spuntare, in un conflitto convenzionale di portata planetaria. Ma anche senza evocare l’improbabile alternativa della deriva atomica, siamo sicuri di essere al riparo da una rappresaglia? Nello scenario siriano, anzi, le probabilità di una vendetta aumenterebbero con il tempo, con il grado d’impantanamento dei russi e con le eventuali difficoltà interne di Putin. Ci sono regole d’ingaggio per l’impiego delle armi che daremo agli ucraini? O sarà affidato al loro arbitrio quali obiettivi bersagliare, con i razzi e i fucili automatici targati Italia ed Europa?Questo ci conduce alla terza prospettiva. Siamo disposti ad accontentarci di ritornare alla situazione antebellica, oppure, come ha già ventilato Boris Johnson, cercheremo di provocare la cacciata dello zar? E in tal caso, percorrendo quali strade? Si può lavorare per far perdere la guerra al nemico, dopo accerchiarlo con l’ingresso di Kiev nella Nato - o stanziando permanentemente sistemi di difesa in Ucraina - e confidare che oligarchi e avversari politici si risolvano a scalzare Putin. Ci si può muovere nell’ombra, foraggiando una rivoluzione colorata che dia il colpo di grazia a un leader indebolito da una sconfitta. Ma abbiamo un’idea, sul successore che ci auspichiamo entri al Cremlino? Ne troveremmo uno più dialogante, considerato che Putin era già il più occidentalista degli esponenti dell’élite? Possiamo ragionevolmente sperare in una svolta democratica, o addirittura nell’installazione di un governo fantoccio, che riporti la Russia ai tempi della Csi? E umiliandola, non avremmo paura di gettare le premesse per una nuova ondata revanscista, cioè per l’ascesa al potere di un novello Putin al cubo? Infine, pensiamo di poter rompere per sempre i rapporti con la Russia, regalando alla Cina un alleato dal simile peso specifico? Se l’ambizione di noi occidentali è riscrivere l’architettura securitaria globale, è opportuno che ne definiamo presto le coordinate. Anche perché l’unità europea, tanto sorprendente nel momento della ferma reazione all’aggressione dell’Orso, potrebbe sbriciolarsi di nuovo, dinanzi ai contorni da attribuire al mondo di domani. Attenzione: finora abbiamo commesso lo sbaglio di adagiarci sul soft power, di fare politica senza garantirci un’adeguata proiezione militare. Adesso rischiamo di inciampare sull’errore opposto, che sarebbe altrettanto esiziale: fare la guerra senza fare politica.