- La nota al Def s'impegna per l'ennesima volta a eliminarli, ma non spiega come. L'ultimo censimento è del 2012: sono più di 500 e ci costano oltre 10 miliardi l'anno.
- «Nessun politico è intenzionato a sopprimere i pachidermi di Stato». Roberto Perotti, l'economista chiamato nel 2014 a sfrondare le società pubbliche spiega il flop della spending review di Matteo Renzi. «I miei dossier si sono arenati alla fase pre operativa. Lo spreco peggiore? Gli stipendi degli ambasciatori».
La nota al Def s'impegna per l'ennesima volta a eliminarli, ma non spiega come. L'ultimo censimento è del 2012: sono più di 500 e ci costano oltre 10 miliardi l'anno. «Nessun politico è intenzionato a sopprimere i pachidermi di Stato». Roberto Perotti, l'economista chiamato nel 2014 a sfrondare le società pubbliche spiega il flop della spending review di Matteo Renzi. «I miei dossier si sono arenati alla fase pre operativa. Lo spreco peggiore? Gli stipendi degli ambasciatori». Lo speciale comprende due articoli. L'ultima puntata della guerra agli enti inutili è scritta nella nota al Def 2019 (il Documento di economia e finanza). Una riga secca, nella quale il governo Conte bis ribadisce l'impegno a chiudere gli enti inutili. Nulla di più, nemmeno una quantificazione delle risorse pubbliche che si potrebbero recuperare. Sembra quasi un messaggio di impotenza, ancora più emblematico, se si pensa che i 5 stelle hanno fatto della lotta alla casta e agli sprechi il loro distintivo. D'altronde la storia parla chiaro. Chi ci ha provato, in passato, ha dovuto desistere. Guai a toccarli. E la spesa corre: il mantenimento di certe realtà costa allo Stato e quindi alle nostre tasche, oltre 10 miliardi l'anno. Secondo l'ultimo censimento, effettuato dal governo Monti nel 2012, sarebbero più di 500 gli enti che zavorrano il bilancio pubblico: una ragnatela di istituti vigilati, partecipate, consorzi, comunità montane, fondazioni, associazioni in difesa di qualcosa o di qualcuno, comitati. Oggi tali istituti dovrebbero seguire le regole previste dal Tusp, il Testo unico per le società a partecipazione pubblica, varato nel 2016, che ha imposto alle amministrazioni pubbliche con partecipazioni di effettuare, entro il 30 settembre 2017, una verifica di tutte le società in loro portafoglio. È emerso che il 37% di quelle monitorate erano almeno in una delle condizioni critiche indicate dal Tusp (perdite di bilancio, assenza di dipendenti o in numero inferiore agli amministratori). Inoltre, 119 enti avevano i tre fattori di rischio. Le amministrazioni però hanno liquidato solo tre società su dieci. Alcuni enti hanno una longevità impressionante. Sanno adattarsi ai tempi. L'Unione italiana tiro a segno risale al Regno d'Italia. È sopravvissuta a diversi tentativi di abolizione, ha cambiato pelle e ora è sotto la vigilanza del ministero della Difesa ed è affiliata al Coni. Che cosa fa? Organizza l'attività istituzionale svolta dalle varie sezioni del tiro a segno sparse a livello nazionale. Domandiamo a una sezione, quella di Roma, il perché di quello che ci pare un doppione. La risposta: «Noi dipendiamo da loro». L'analfabetismo è debellato, ma l'Unione nazionale per la lotta contro l'analfabetismo (Unla), fondata nel 1947 nell'ambito del programma governativo del secondo dopoguerra di alfabetizzazione della popolazione, esiste ancora. E si è reinventata. Sul sito c'è scritto che si occupa «della progettazione e realizzazione di progetti speciali». Il presidente, Vitaliano Gemelli, ci spiega che l'istituto fa formazione, convegnistica, presenta libri, organizza dibattiti e manifestazioni di promozione del territorio. Riceve un finanziamento di 45.000 euro l'anno. Attività già coperte da altre istituzioni pubbliche. In Piemonte, l'interesse per l'Africa è tale da giustificare la permanenza dal 1983 del Centro piemontese studi africani. L'ente promuove ricerche di grande importanza, secondo il direttore, Federico Daneo, ma non al punto da evitare che la Corte dei conti lo inserisse nella black list. Anche il Comune di Torino, l'anno scorso, gli ha negato 10.000 euro di contributi. L'istituto riceve fondi per 30.000 euro dalla Regione Piemonte. Quest'anno, per il progetto Diplomazia dell'acqua, sulle conseguenze della siccità nel Ciad, ha avuto 10.000 euro dalla Farnesina. L'anno scorso è stata la volta di uno studio sull'emergenza idrica del Nilo, che ha ottenuto dall'Autorità di bacino 15.000 euro. Alla Corte dei conti, Daneo replica che «è stato fatto un elenco basandosi su dati statistici e senza analizzare le singole iniziative». Forse alla magistratura contabile è saltato all'occhio l'organico di soli tre dipendenti in una sede di 230 metri quadri, di proprietà del Comune, gestita dall'Atc (le case popolari) con un affitto di 290 euro mensili. «È fatiscente», specifica Daneo. Infatti presto si trasferiranno nella centralissima piazza della Repubblica, in un appartamento ancora più grande: 300 metri quadri. L'Atc ha chiesto un canone di 1.500 euro, ma il Comune potrebbe ridurre l'affitto fino al 90%. Alcuni enti cambiano nome nel tempo. L'Indire, l'Istituto di documentazione, innovazione e ricerca educativa, il più vecchio ente di ricerca del ministero dell'Istruzione, dalla sua nascita, nel 1925, ha mutato pelle più volte. Nel 2007 si trasforma in Ansas (Agenzia per lo sviluppo dell'autonomia scolastica) per poi tornare a essere Indire nel 2012. Il suo compito? «Sviluppare azioni di sostegno ai processi di miglioramento della didattica e dei comportamenti professionali del personale della scuola». Attorno al patrimonio storico artistico prolifera una serie di enti. Uno di questi è l'Ales (Arte, lavoro e servizi) che ha inglobato l'Arcus, società per lo sviluppo dell'arte, della cultura e dello spettacolo. Ha come socio unico il ministero dei Beni culturali, che «supporta nell'attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale» e negli «uffici tecnico amministrativi». Ma non ci sono altre strutture pubbliche che svolgono questa funzione? È quanto ci chiediamo anche per l'Istituto regionale Ville Tuscolane (Irvit), nato nel 1992, che rivendica il compito inalienabile di «assicurare la conservazione, la valorizzazione e la conoscenza» delle dieci Ville Tuscolane dei Castelli romani. Oltre a qualche convegno, l'ente collabora con la Regione Lazio alle giornate di apertura delle dimore storiche. La Regione non riesce a far fronte a queste iniziative? Sopravvive l'Istituto per l'incremento ippico per la Sicilia che, si legge nel sito, «raccoglie l'eredità del Regio deposito stalloni, creato nel 1884 dall'allora ministro della Guerra». Sempre in Sicilia, il Comune di Marsala, dal 2006, si è fatto affiancare, nella gestione dei servizi scolastici, dall'istituzione comunale «Marsala Schola». L'attività «ferve». L'ente è aperto tre ore e mezzo la mattina per tre giorni a settimana e due volte nel pomeriggio, un'ora e mezzo in più. I centri studi sorgono come funghi. C'è il Cuia (Consorzio interuniversitario italiano per l'Argentina) che si occupa dei progetti di cooperazione tra le università italiane e argentine, l'Indam (Istituto nazionale di alta matematica) che promuove la ricerca nella matematica e i rapporti con centri internazionali (come se gli atenei non bastassero). C'è il Cinid (Consorzio interuniversitario per l'idrologia), per «favorire la cooperazione tra le Università consorziate» su difesa del suolo e salvaguardia dei sistemi ambientali. A quanto pare, le università non riescono a parlarsi tra di loro direttamente. I primi tentativi di disboscare questa giungla risalgono al 1956, quando fu creato addirittura un ulteriore ente, l'Iged, per velocizzare l'operazione. Ha continuato a funzionare fino al 2002 ed è costato circa 50 milioni di euro l'anno. Ma il «bosco», anziché sfoltirsi, s'è allargato. A ottobre 2009, l'allora ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, aveva promesso «una ghigliottina» per 1.621 istituti ed era riuscito a scrivere 29 decreti di riordino per altrettanti enti. Ma i decreti sono stati bocciati. Mario Monti, nella cura da lacrime e sangue per il Paese, mise anche il taglio di poltrone eccellenti, ma solo a scadenza degli incarichi. La Corte dei conti, in una relazione del 2018, è stata netta: nessun risultato dalla spending review. Chiudere un ente è un'impresa quasi impossibile. La liquidazione può durare anni e nel frattempo lo scenario politico muta. Basta vedere quello che è accaduto al Cnel, dove stanno ancora brindando per lo scampato pericolo. Abolito dal governo Renzi, questo parcheggio per sindacalisti, che in 82 anni di vita ha proposto 26 disegni di legge nessuno dei quali approvato dal Parlamento, è stato resuscitato dal fallimento del referendum 2016. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/enti-inutili-la-beffa-della-manovra-2641488660.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nessun-politico-e-intenzionato-a-sopprimere-i-pachidermi-di-stato" data-post-id="2641488660" data-published-at="1763653590" data-use-pagination="False"> «Nessun politico è intenzionato a sopprimere i pachidermi di Stato» «Alcuni enti mi sembravano non solo inutili ma addirittura dannosi. Su alcuni non sono riuscito a rompere la cortina di silenzio. Il Cnel? Un residuo preistorico e ridicolo. Se scomparisse nessuno se ne accorgerebbe». L'economista Roberto Perotti è uno dei tecnici chiamati da Palazzo Chigi dall'ex premier Matteo Renzi per far luce sul buco nero della spesa pubblica, in tandem con il deputato Pd Yoram Gutgeld. Il suo mandato dura poco più di un anno (settembre 2014-dicembre 2015). Dopo settimane di maretta con Renzi, lascia. Cosa accadde? «Ero consigliere economico del premier. È stata un'esperienza “normale". Rapporti umani normali, anche cordiali con molte persone. Non posso dire di avere incontrato ostacoli, anche perché non sono mai arrivato ad una fase in cui potessi essere considerato una minaccia per qualche persona o organizzazione o ente. Mi piacerebbe poter dire altrimenti, ma ero decisamente fuori dai nodi decisionali». Chi resisteva ai tagli? «Di fatto mi sono occupato soprattutto di raccolta dati, sulla base dei quali traevo conclusioni che affidavo a dei dossier; ma in termini di tempo la raccolta dati era preponderante. Oltre non sono mai riuscito ad andare. Moltissimi dati sono online, se uno vuole li trova, quindi c'erano pochi ostacoli da frapporre. Altri li chiedevo ai ministeri. Alcuni hanno collaborato lealmente, altri meno, come la Farnesina. Ma questo non mi ha sorpreso perché in passato avevo criticato le remunerazioni, a mio avviso, molto alte, dei nostri ambasciatori». Perché lasciò l'incarico? «Mi ero accorto che le priorità erano cambiate, e il mio lavoro non era più una priorità, ammesso e non concesso che lo fosse mai stata. È una decisione politica che ancora adesso rispetto, forse al posto dei politici in quella situazione avrei fatto lo stesso, ma non avevo voglia di rimanere a Roma a girarmi i pollici». A che punto era arrivato nel suo lavoro? «Avevo prodotto molti dossier su ministeri, enti pubblici, aziende di Stato, remunerazioni, istituzioni politiche, spese fiscali... Nessuno è mai arrivato però a una fase nemmeno pre operativa». I predecessori le avevano lasciato i loro report o ha cominciato da capo? «In alcuni casi ho utilizzato il lavoro di Carlo Cottarelli e del suo staff, anche se loro dipendevano dal Mef e io dalla presidenza del Consiglio. Strettamente parlando non avevamo predecessori». Non le sembra assurdo che un tema come questo non sia ancora stato risolto? «Sì e no. A me sembrano troppo alte le remunerazioni degli ambasciatori, loro probabilmente ritengono che i professori universitari, come me, servano a poco o niente. Non ci sono criteri oggettivi. Anche se certe situazioni sono più estreme e assurde di altre. E in alcuni casi i raffronti internazionali parlano chiaro». Altri enti da eliminare? «Non ci sono criteri oggettivi. Non c'è una lista condivisa da tutti: se ci fosse sarebbe tutto più semplice. Personalmente trovo difficile trovare una qualsiasi ratio in certi intrecci diabolici di partecipazioni di Comuni o Regioni. Allo stesso tempo alcuni enti a me sembravano non solo inutili ma dannosi, eppure altri avevano idee molto diverse. Sentivo molti dirigenti o funzionari che privatamente ammettevano che l'ente in cui lavoravano aveva miriadi di problemi, ma si guardavano bene dal fare alcunché di tangibile per migliorare la situazione, alcune volte per quieto vivere, altre volte perché non avevano la capacità. E quando qualcuno è intervenuto, spesso ha peggiorato la situazione, perché sottoposto a veti incrociati o anche per mera incompetenza o superficialità. Si pensi alle province: difficile fare una riforma più assurda. A Roma mi divertivo a chiedere a ogni politico che incontravo: “Ma allora le province sono state abolite o no?". Non ne ho mai incontrato uno che sapesse darmi una risposta precisa». Perché certi enti sono dannosi? «Perché creano un sottobosco dove si incrociano politica e impresa. Per esempio, molti imprenditori invece di lavorare nell'innovazione perdono il loro tempo a inseguire i soldi dei fondi strutturali europei». Il caso del Cnel. Un ente che sembra avere sette vite. «Penso che se venisse obliterato dalla faccia della terra, nessuno se ne accorgerebbe, eccetto chi ci lavora e ci andrebbe di mezzo incolpevolmente, e i suoi membri, molti dei quali si fanno ancora oggi inspiegabilmente vanto di appartenere a un ente obsoleto e ridicolo. Sfido chiunque a citarmi una pubblicazione, un convegno, un evento del Cnel che abbia avuto un qualche impatto. Il Cnel è un residuo preistorico, un fossile ammuffito, uno scandalo. Fortunatamente è uno scandalo molto piccolo, oggi ci costa poche centinaia di migliaia di euro». Per liquidare un ente c'è un problema burocratico? «Il problema è a monte: bisogna prima voler liquidare un ente …».
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.
2025-11-20
Mondiali 2026, il cammino dell'Italia: Irlanda del Nord in semifinale e Galles o Bosnia in finale
True
Getty Images
Gli azzurri affronteranno in casa l’Irlanda del Nord nella semifinale playoff del 26 marzo, con eventuale finale in trasferta contro Galles o Bosnia. A Zurigo definiti percorso e accoppiamenti per gli spareggi che assegnano gli ultimi posti al Mondiale 2026.





