2024-12-02
Enrico Vanzina: «Facevo merenda da Totò. Il mio rimpianto è Verdone»
Il celebre regista si racconta: «La grande commedia raccontava gli italiani con i loro vizi, ma senza mai giudicarli. Oggi il cinema va male perché mancano produttori».Con i maggiori protagonisti del cinema italiano, Enrico Vanzina ha avuto familiarità sin dall’infanzia. Suo padre, il celebre Steno, Stefano Vanzina, dopo gli inizi in co-regia con Mario Monicelli, divenne tra i più apprezzati registi e sceneggiatori soprattutto della commedia all’italiana. Dietro la macchina da presa, suo fratello, Carlo Vanzina, ne mise in atto, con altrettanto successo, il passaggio generazionale, in un’Italia cambiata. Lui, Enrico, nato a Roma nel marzo 1949, sceneggiatore, regista e anche produttore, lo vediamo ora in Vi racconto, la rubrica in onda su Cine 34, il canale tematico sul cinema edito da Mediaset, con interessante progressione di share, deliziare i cinefili. Suo padre, Steno. «Mio fratello Carlo ed io abbiamo avuto la fortuna di nascere in una famiglia italiana normale ma con un papà speciale, un grande disegnatore, poi sceneggiatore e regista, un democratico, un liberale che ha sempre assecondato le nostre aspirazioni. Da casa nostra sono passati tutti, Totò, Sordi, Monicelli… A noi piacevano molto anche Raimondo Vianello, Paolo Panelli, Bice Valori... Abbiamo scoperto la magia del cinema sul set dei suoi film, in estate. Mamma severa, ma molto simpatica. Infanzia felice».Suo padre regista di molti film con Totò. Pertanto l’ha conosciuto. Come lo ricorda? «Per noi, era il principe De Curtis. Abitava non lontano da casa nostra e girava nel quartiere con una Cadillac con le tendine. Era un signore elegantissimo, non diceva mai cose fuori luogo. Da piccoli ci invitava a casa sua a prendere tè con biscottini». E Alberto Sordi, che Stefano Vanzina diresse in Un americano a Roma? «Un signore scatenato e simpaticissimo che irrompeva spesso a casa nostra con il maestro di musica Piero Piccioni. Frequentavo casa di Sordi, professionalmente, e, quando mancò, fu terribile. Non ne guardai il volto ma gli feci una carezza. Ne sento ancora il brivido».A Vi racconto traccia una godibile galleria di attori e registi. «È stata una cosa bellissima che mi è capitata. Quasi tutte le persone di cui parlo le ho conosciute, Marcello Mastroianni, Dino Risi, Laura Antonelli, Monica Vitti, Mariangela Melato, Ugo Tognazzi… Spero che di questi brevi si possa farne un cofanetto anche per i ragazzi». In una puntata racconta del giorno in cui Federico Fellini si presentò come disegnatore da suo padre, al giornale umoristico Marc’Aurelio.«Papà, giovane, disegnava al Marc’Aurelio e ne diventò una colonna. Vide entrare questo ragazzo allampanato che veniva dalla provincia. Gli disse: “Fai un disegno”. Guardò il disegno: “Assunto!”. Quando Fellini lo incontrava a via Margutta, lo prendeva in braccio e lo lanciava in aria dicendo “Il mio Stenino! Il mio Stenino!”. Furono legati per tutta la vita». Alberto Sordi diceva che Fellini era «forse l’uomo più bugiardo del mondo».«Beh, credo di sì, conoscevo benissimo i suoi sceneggiatori. Ennio Flaiano ebbe un rapporto molto tormentato con lui. La dolce vita non ha senso senza Flaiano, ma lui lo citava poco e, quando ci fu la candidatura all’Oscar, non lo invitarono. Lui si offese molto e ci fu una lite andata avanti tanti anni. Bernardino Zapponi mi confessò che quando Fellini diceva una cosa, pensava esattamente il contrario». Si ha l’impressione che Vittorio De Sica, nei film, raccontasse anche sé stesso, tipo nel Conte Max.«De Sica era un personaggio meraviglioso. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e ho lavorato tanto con i suoi figli. Era un’amicizia di famiglia così forte che, quando papà è morto e doveva essere sepolto ad Arona, sembrava ingiusto non fosse sepolto a Roma. La moglie di De Sica disse: “Mettiamo Steno vicino a Vittorio”, dove rimase qualche anno». In un’altra puntata, Mauro Bolognini, regista di La notte brava, di cui fu sceneggiatore Pier Paolo Pasolini. L’ha conosciuto Pasolini? «Pasolini lo incontrai solo una volta, in occasione di Capriccio all’italiana, un film a episodi, tra cui uno di papà. Quando ci fu la proiezione del film, io e Carlo, abbastanza piccoli, giocammo con lui a pallone nel piazzale degli studi Ponti-De Laurentis. Era simpaticissimo».Quale il film che più le è piaciuto di Pasolini?«Accattone, perché c’è una cifra personale fantastica». Quello con Carlo, suo fratello, che ci ha lasciati nel luglio 2018, è stato un fecondo sodalizio affettivo e professionale. «Da quando era piccolissimo, Carlo voleva fare il cinema, tant’è che, a 17-18 anni, era già aiuto-regista di Monicelli. Io invece volevo fare lo scrittore e basta e poi sono stato travolto dalla scrittura cinematografica. Ci capivamo al volo e amavamo il cinema nello stesso modo. Poi le cose si sono mescolate. Carlo ha scritto moltissimo insieme a me e molte cose di regia e montaggio le facevano insieme. Un interscambio continuo di ruoli».Avete adattato la commedia all’italiana ai nuovi tempi. Quali differenze rispetto a quella degli anni Cinquanta e Sessanta? «Credo che noi ne siamo rimasti attaccati ai fondamentali, quelli di Age & Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, Suso Cecchi D’Amico, cercando di fare film su temi spesso drammatici ma in maniera lieve, raccontando gli italiani, con i loro vizi, senza mai giudicarli. Quando iniziammo, i migliori talenti italiani, Benigni, Troisi, Verdone, Nuti, diventarono tutti registi. Nel passato, invece, c’era una forte divisione dei ruoli, produttore, sceneggiatore, regista e attori. La grande commedia all’italiana ha potuto vivere con la forza di registi e attori, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Gassman, Giannini, Monica Vitti… Dovevamo sostituire i grandi attori e abbiamo fatto dei film più corali, come con Sapore di mare e Vacanze di Natale. Poi abbiamo usato un registro più pop, ricorrendo molto alla musica». Il vostro film Yuppies, del 1986, che raccontava svagatamente lo stile di vita dei «rampanti», aveva anche un fondo amaro?«Ma sì, era una presa in giro forte di questi ragazzi italiani che si credevano americani ma restavano italiani, parlavano sempre di soldi ma litigavano sul conto. Ma quel film è importante perché facemmo nascere la coppia Massimo Boldi-Christian De Sica». Con Carlo vi dedicaste anche ad altri generi. «Il thriller numero 1 in Italia, negli anni ottanta, è stato Sotto il vestito niente. Poi il giallo Tre colonne in cronaca, con Gian Maria Volonté, attore di categoria superiore». Dino Risi… «È stato la persona del cinema più vicina a me, dopo papà. Il giorno in cui papà morì, si avvicinò, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina. Con la sua erre moscia, mi disse: “Enrico, sei hai bisogno di un vice-papà, io ci sono”. Sapore di mare nasce dal suo L’ombrellone».Nel 1963, Risi diresse un film meno ricordato del Sorpasso, Il giovedì, con un immenso Walter Chiari. «Sul set di un film di papà, in Spagna, Walter ci portava a cavallo, ci raccontava le barzellette. È stato uno degli eroi assoluti della mia infanzia. Ha avuto una vita complicata e l’ha un po’ buttata. Quando sei buffo e anche bellissimo è difficile far convivere queste due dimensioni». E Laura Antonelli?«Timida, riservata e sfrontata. Chi ha girato con lei si è innamorato. Tutti. Quando Carlo ebbe un incidente in Viuuulentemente mia, con Diego Abatantuono, lo sostituì papà, che s’innamorò perdutamente di lei, platonicamente». Nanni Moretti le piace? «Io sono un fan sperticato di Nanni Moretti. Mi piace moltissimo. Divertentissimo. Il film che preferisco? Caro diario».L’attore straniero che più ama della storia del cinema?«Jack Lemmon». E il regista straniero?«Billy Wilder».Un attore che lei e Carlo avreste voluto avere, ma…?«L’unico rimpianto è Carlo Verdone, un grandissimo amico». Ma i produttori di un tempo esistono ancora?«Non ci sono più. Il cinema sta andando male per questo. Erano dei signori che scommettevano in un film e ci mettevano soldi propri. Li ho conosciuti tutti, Carlo Ponti, Dino De Laurentis, Franco Cristaldi, Goffredo Lombardo. Poi Angelo Rizzoli, un editore innamorato del cinema che finanziava anche film che non capiva, come La dolce vita. Oggi ci sono solo grandi gruppi che producono senza una figura visibile». La sua passione per la scrittura. Ha appena pubblicato, con HarperCollins, Noblesse oblige, un romanzo comico. «In questo momento storico così difficile e cupo ho voluto scrivere un libro comico, il primo che faccio, ambientato nel 1980, un principe squattrinato con, accanto, un maggiordomo napoletano. Molto buffo e con un fondo di malinconia che mi piace molto». Nel 2020 ha diretto il film-commedia Lockdown all’italiana. Momenti sì drammatici, ma anche tragicomici. «Esatto. Qualcuno lo attaccò. Ma non capivano che cos’è la commedia, che si nutre anche di situazioni drammatiche, pensiamo a La vita è bella o ai film di Chaplin. In quella tragedia globale c’erano aspetti anche comici, gli affini e i parenti, il dramma di dover stare chiuso in casa con una persona cui non volevi stare vicino».Quando dorme, sogna? «Sì, cerco anche di ricordarmi i sogni. Dino Risi mi diceva: “Tutte le sere non vedo l’ora di andare a letto perché così entro al cinema”». Ma i suoi sogni sono in bianco e nero o in technicolor? «Misti, scene in bianco e nero con, accanto, scene a colori, alcune dialogate e altre mute. Il cinema, proprio».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.