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2021-12-22
Energia grazie alla fusione. Entro il 2025 operativo il progetto sperimentale
Il settore dell’energia è responsabile di quasi tre quarti delle emissioni globali di anidride carbonica. Per centrare gli obiettivi sul clima fissati dagli accordi di Parigi è necessaria, dunque, una trasformazione radicale dei sistemi energetici che sostengono le nostre economie, passando da un mix centrato sui combustibili fossili a uno a basse emissioni di carbonio, basato principalmente sulle fonti rinnovabili. Limitarsi a investire sulle rinnovabili potrebbe però non essere sufficiente a garantire un approvvigionamento energetico stabile, sicuro e a prezzi accessibili. Come conciliare, dunque, la sfida della transizione con quella del benessere e dello sviluppo? Il nostro più potente alleato è la tecnologia, quella disponibile già oggi e quella che verrà.
svolta
Di recente la ricerca ha aperto infatti la strada verso una tecnologia rincorsa dagli scienziati da oltre mezzo secolo: la fusione nucleare. La svolta è arrivata lo scorso settembre, quando Cfs (Commonwealth fusion systems), società spin out del Massachusetts institute of technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha messo a punto e testato un superconduttore che assicurerà il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica, avvicinando il momento in cui questa tecnologia potrà essere impiegata in impianti dimostrativi. La fusione magnetica, che riproduce il processo che avviene nelle stelle, rappresenta un vero e proprio game changer del panorama energetico mondiale perché, una volta applicata a livello industriale, consentirà di ottenere energia pulita, virtualmente inesauribile e sicura. Basti pensare che un grammo di combustibile per la fusione contiene l’energia equivalente a quella di oltre 60 barili di petrolio senza che questo comporti nessun tipo di emissioni di gas serra.
Sul fronte impianti, la fusione a confinamento magnetico contribuirà a realizzare centrali molto più piccole e compatte, semplici ma allo stesso tempo efficienti. Piccole centrali saranno più facili da distribuire sul territorio e più comode da connettere alla rete elettrica riducendo quindi di molto il problema di creare nuove infrastrutture dedicate per il trasporto energetico.
Entro il 2025 Cfs costruirà Sparc, il primo impianto sperimentale a produzione netta di energia e in seguito la roadmap prevede la costruzione di Arc, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica, disponibile, secondo le previsioni, nel prossimo decennio. «Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer», ha commentato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi.
In un’ottica di innovazione profonda, che possa condurre nel medio termine a disporre di una forma di energia sicura e pulita, Eni ha avviato da tempo un programma che prevede impegni su più fronti. Oltre alla partecipazione in Cfs, il Cane a sei zampe collabora direttamente con il Mit a un programma scientifico, denominato Lift (Laboratory for innovation in fusion technology), volto ad accelerare l’individuazione di soluzioni in termini di materiali, tecnologie superconduttive, fisica e controllo del plasma. Eni partecipa insieme a Enea, inoltre al progetto internazionale Dtt (Divertor tokamak test), sviluppato all’interno del programma Eurofusion. Tale progetto prevede la realizzazione di un tokamak per studiare soluzioni al problema dei carichi termici all’interno della camera a vuoto. Nella fusione a confinamento magnetico, il plasma caldo è racchiuso in una camera a vuoto a forma di ciambella, chiamata per l’appunto tokamak: il plasma è generato, sostenuto e confinato grazie all’alto campo magnetico prodotti da superconduttori. Lo scopo primario del campo magnetico è evitare la deriva delle particelle del plasma verso le pareti del recipiente.
Il tokamak
Un altro progetto internazionale di ricerca sulla fusione nucleare, a cui contribuisce anche l’Ue, è Iter (International thermonuclear experimental reactor). Il progetto nasce da un accordo del 2006 da sette partner: Cina, Euratom (rappresentata dalla Commissione europea), India, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti e punta a sviluppare un reattore gigante che dovrebbe produrre dieci volte più energia di fusione rispetto all'energia termica immessa nel plasma.
I lavori di costruzione sono iniziati nel 2007 a Cadarache, nel Sud della Francia, in un sito di 42 ettari che ospita oggi il tokamak, diversi edifici, infrastrutture e impianti di alimentazione. Nel 2020 è cominciata la fase di assemblaggio del tokamak, che durerà cinque anni. Nel 2025, Iter dovrebbe creare il suo primo plasma super riscaldato, per poi raggiungere la piena potenza entro il 2035, al fine di dimostrare che è possibile produrre più energia di quanta non ne venga utilizzata per il processo.
Londra si affida a Eni per la Ccs
Il 12% delle emissioni di gas serra da qui al 2050 dovrà essere abbattuto grazie al contributo della Ccs (Carbon capture and storage). Questo è lo scenario disegnato dall’International energy agency (Iea) nel suo Net zero emissions. Si tratta infatti del processo tecnologico più efficace ed efficiente per tempi di realizzazione e costi in grado di decarbonizzare le industrie «hard to abate» (siderurgia, cementifici, carta e del vetro, eccetera). Questi settori risultano particolarmente complessi da decarbonizzare soprattutto a causa delle caratteristiche dei processi industriali che emettono anidride carbonica non solo per soddisfare il fabbisogno energetico, ma anche attraverso le trasformazioni fisico chimiche del processo stesso. Per fare un esempio, nell’industria del cemento i due terzi delle emissioni derivano dalla trasformazione del calcare in calce. Secondo Iea la Ccs è in grado di contribuire a ridurre le emissioni altrimenti non abbattibili con altre tecnologie, sostenere il rapido aumento della produzione di idrogeno a basse emissioni e, in prospettiva, rimuovere parte della CO2 dall’atmosfera.
Ed è per questo che il Regno Unito ha puntato su Eni per decarbonizzare la sua industria selezionando nel Nord Ovest dell’Inghilterra il progetto di Hynet, in cui Eni è capofila di un consorzio con industrie locali, tra i due progetti prioritari di Ccs che per primi riceveranno finanziamenti governativi a fondo perduto nell’ambito di un piano più ampio gestito dal Department for business, energy & industrial strategy (Beis) per supportare la realizzazione oltre Manica di almeno quattro hub di Ccs entro il 2030. Hynet sarà il primo progetto Ccs operativo in Uk con partenza prevista entro il 2025 e una capacità di stoccaggio 4,5 milioni di tonnellate l’anno nella prima fase che sarà incrementato dal 2030 per stoccare fino a 10 milioni di tonnellate/anno di CO2. Eni si occuperà di trasportare e stoccare il diossido di carbonio catturato e per farlo utilizzerà i propri giacimenti di gas esauriti a circa 30 chilometri dalla costa nella Baia di Liverpool.
«Il governo del Regno Unito ha riconosciuto l’importanza del contributo che il progetto Hynet può apportare alla decarbonizzazione di una parte significativa delle attività nel Paese», ha spiegato Claudio Descalzi, ad di Eni.
La Ccs è un processo maturo e ben conosciuto che viene utilizzato sin dagli anni Settanta. La CO2 non è né esplosiva né infiammabile e quindi il suo trasporto è semplice da gestire. Per quanto riguarda lo stoccaggio vale lo stesso discorso: i giacimenti esauriti hanno contenuto per milioni di anni il gas naturale senza fuoriuscite e sono quindi i siti ideali per contenere l’anidride carbonica che viene iniettata in sicurezza e con un monitoraggio costante. Dal punto di vista dei costi, per il settore industriale la Ccs risulta la soluzione di decarbonizzazione più vantaggiosa, come dimostrato dalla recente gara in Olanda dove la Ccs è riuscita ad aggiudicarsi il 50% circa dei fondi disponibili per tutte le soluzioni tecnologie in competizione. Infatti bisogna calcolare non soltanto i costi di realizzazione e di esercizio, ma anche il fatto che permette di non pagare la Carbon tax. In uno scenario in cui il costo delle emissioni è triplicato in un anno e sembra non arrestarsi, è ragionevole credere che investire nella cattura e nello stoccaggio del carbonio converrà sempre più. In Italia nel 2019 i settori «hard to abate» hanno emesso circa 67 milioni di tonnellate di CO2 su un totale di 340 milioni, circa il 20% del totale delle emissioni, e la Ccs è l’opzione migliore per abbattere quel numero velocemente e a basso costo. Grazie a questo processo, intere aree industriali saranno protagoniste di un nuovo inizio all’insegna della sostenibilità. La riqualifica dei processi produttivi, l’abbattimento delle emissioni, il mantenimento dei livelli occupazionali, gli investimenti, la maturazione di tecnologie innovative sono parte di un futuro che insieme con le rinnovabili, l’efficienza energetica e tutti gli strumenti utili per decarbonizzare consentiranno alle nuove generazioni di vivere in un mondo senza squilibri, dove sarà consentito a tutti l’accesso a un’energia più pulita, continua ed economica.
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Cfs, di cui il Cane a sei zampe è maggiore azionista, è al lavoro sull’impianto Sparc. L’atomo è essenziale per garantire elettricità sicura con zero emissioni.Il progetto Hynet di cattura della CO2, sviluppato dal gruppo con delle imprese locali, riceve finanziamenti a fondo perduto dal governo inglese e sarà operativo fra tre anni.Lo speciale contiene due articoli.Il settore dell’energia è responsabile di quasi tre quarti delle emissioni globali di anidride carbonica. Per centrare gli obiettivi sul clima fissati dagli accordi di Parigi è necessaria, dunque, una trasformazione radicale dei sistemi energetici che sostengono le nostre economie, passando da un mix centrato sui combustibili fossili a uno a basse emissioni di carbonio, basato principalmente sulle fonti rinnovabili. Limitarsi a investire sulle rinnovabili potrebbe però non essere sufficiente a garantire un approvvigionamento energetico stabile, sicuro e a prezzi accessibili. Come conciliare, dunque, la sfida della transizione con quella del benessere e dello sviluppo? Il nostro più potente alleato è la tecnologia, quella disponibile già oggi e quella che verrà. svoltaDi recente la ricerca ha aperto infatti la strada verso una tecnologia rincorsa dagli scienziati da oltre mezzo secolo: la fusione nucleare. La svolta è arrivata lo scorso settembre, quando Cfs (Commonwealth fusion systems), società spin out del Massachusetts institute of technology di cui Eni è il maggiore azionista, ha messo a punto e testato un superconduttore che assicurerà il confinamento del plasma nel processo di fusione magnetica, avvicinando il momento in cui questa tecnologia potrà essere impiegata in impianti dimostrativi. La fusione magnetica, che riproduce il processo che avviene nelle stelle, rappresenta un vero e proprio game changer del panorama energetico mondiale perché, una volta applicata a livello industriale, consentirà di ottenere energia pulita, virtualmente inesauribile e sicura. Basti pensare che un grammo di combustibile per la fusione contiene l’energia equivalente a quella di oltre 60 barili di petrolio senza che questo comporti nessun tipo di emissioni di gas serra. Sul fronte impianti, la fusione a confinamento magnetico contribuirà a realizzare centrali molto più piccole e compatte, semplici ma allo stesso tempo efficienti. Piccole centrali saranno più facili da distribuire sul territorio e più comode da connettere alla rete elettrica riducendo quindi di molto il problema di creare nuove infrastrutture dedicate per il trasporto energetico. Entro il 2025 Cfs costruirà Sparc, il primo impianto sperimentale a produzione netta di energia e in seguito la roadmap prevede la costruzione di Arc, il primo impianto capace di immettere energia da fusione nella rete elettrica, disponibile, secondo le previsioni, nel prossimo decennio. «Il risultato straordinario ottenuto durante il test dimostra ancora una volta l’importanza strategica delle nostre partnership di ricerca nel settore energetico e consolida il nostro contributo allo sviluppo di tecnologie game changer», ha commentato l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi.In un’ottica di innovazione profonda, che possa condurre nel medio termine a disporre di una forma di energia sicura e pulita, Eni ha avviato da tempo un programma che prevede impegni su più fronti. Oltre alla partecipazione in Cfs, il Cane a sei zampe collabora direttamente con il Mit a un programma scientifico, denominato Lift (Laboratory for innovation in fusion technology), volto ad accelerare l’individuazione di soluzioni in termini di materiali, tecnologie superconduttive, fisica e controllo del plasma. Eni partecipa insieme a Enea, inoltre al progetto internazionale Dtt (Divertor tokamak test), sviluppato all’interno del programma Eurofusion. Tale progetto prevede la realizzazione di un tokamak per studiare soluzioni al problema dei carichi termici all’interno della camera a vuoto. Nella fusione a confinamento magnetico, il plasma caldo è racchiuso in una camera a vuoto a forma di ciambella, chiamata per l’appunto tokamak: il plasma è generato, sostenuto e confinato grazie all’alto campo magnetico prodotti da superconduttori. Lo scopo primario del campo magnetico è evitare la deriva delle particelle del plasma verso le pareti del recipiente.Il tokamakUn altro progetto internazionale di ricerca sulla fusione nucleare, a cui contribuisce anche l’Ue, è Iter (International thermonuclear experimental reactor). Il progetto nasce da un accordo del 2006 da sette partner: Cina, Euratom (rappresentata dalla Commissione europea), India, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti e punta a sviluppare un reattore gigante che dovrebbe produrre dieci volte più energia di fusione rispetto all'energia termica immessa nel plasma.I lavori di costruzione sono iniziati nel 2007 a Cadarache, nel Sud della Francia, in un sito di 42 ettari che ospita oggi il tokamak, diversi edifici, infrastrutture e impianti di alimentazione. Nel 2020 è cominciata la fase di assemblaggio del tokamak, che durerà cinque anni. Nel 2025, Iter dovrebbe creare il suo primo plasma super riscaldato, per poi raggiungere la piena potenza entro il 2035, al fine di dimostrare che è possibile produrre più energia di quanta non ne venga utilizzata per il processo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/eni-energia-fusione-2656091720.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="londra-si-affida-a-eni-per-la-ccs" data-post-id="2656091720" data-published-at="1640190213" data-use-pagination="False"> Londra si affida a Eni per la Ccs Il 12% delle emissioni di gas serra da qui al 2050 dovrà essere abbattuto grazie al contributo della Ccs (Carbon capture and storage). Questo è lo scenario disegnato dall’International energy agency (Iea) nel suo Net zero emissions. Si tratta infatti del processo tecnologico più efficace ed efficiente per tempi di realizzazione e costi in grado di decarbonizzare le industrie «hard to abate» (siderurgia, cementifici, carta e del vetro, eccetera). Questi settori risultano particolarmente complessi da decarbonizzare soprattutto a causa delle caratteristiche dei processi industriali che emettono anidride carbonica non solo per soddisfare il fabbisogno energetico, ma anche attraverso le trasformazioni fisico chimiche del processo stesso. Per fare un esempio, nell’industria del cemento i due terzi delle emissioni derivano dalla trasformazione del calcare in calce. Secondo Iea la Ccs è in grado di contribuire a ridurre le emissioni altrimenti non abbattibili con altre tecnologie, sostenere il rapido aumento della produzione di idrogeno a basse emissioni e, in prospettiva, rimuovere parte della CO2 dall’atmosfera. Ed è per questo che il Regno Unito ha puntato su Eni per decarbonizzare la sua industria selezionando nel Nord Ovest dell’Inghilterra il progetto di Hynet, in cui Eni è capofila di un consorzio con industrie locali, tra i due progetti prioritari di Ccs che per primi riceveranno finanziamenti governativi a fondo perduto nell’ambito di un piano più ampio gestito dal Department for business, energy & industrial strategy (Beis) per supportare la realizzazione oltre Manica di almeno quattro hub di Ccs entro il 2030. Hynet sarà il primo progetto Ccs operativo in Uk con partenza prevista entro il 2025 e una capacità di stoccaggio 4,5 milioni di tonnellate l’anno nella prima fase che sarà incrementato dal 2030 per stoccare fino a 10 milioni di tonnellate/anno di CO2. Eni si occuperà di trasportare e stoccare il diossido di carbonio catturato e per farlo utilizzerà i propri giacimenti di gas esauriti a circa 30 chilometri dalla costa nella Baia di Liverpool. «Il governo del Regno Unito ha riconosciuto l’importanza del contributo che il progetto Hynet può apportare alla decarbonizzazione di una parte significativa delle attività nel Paese», ha spiegato Claudio Descalzi, ad di Eni. La Ccs è un processo maturo e ben conosciuto che viene utilizzato sin dagli anni Settanta. La CO2 non è né esplosiva né infiammabile e quindi il suo trasporto è semplice da gestire. Per quanto riguarda lo stoccaggio vale lo stesso discorso: i giacimenti esauriti hanno contenuto per milioni di anni il gas naturale senza fuoriuscite e sono quindi i siti ideali per contenere l’anidride carbonica che viene iniettata in sicurezza e con un monitoraggio costante. Dal punto di vista dei costi, per il settore industriale la Ccs risulta la soluzione di decarbonizzazione più vantaggiosa, come dimostrato dalla recente gara in Olanda dove la Ccs è riuscita ad aggiudicarsi il 50% circa dei fondi disponibili per tutte le soluzioni tecnologie in competizione. Infatti bisogna calcolare non soltanto i costi di realizzazione e di esercizio, ma anche il fatto che permette di non pagare la Carbon tax. In uno scenario in cui il costo delle emissioni è triplicato in un anno e sembra non arrestarsi, è ragionevole credere che investire nella cattura e nello stoccaggio del carbonio converrà sempre più. In Italia nel 2019 i settori «hard to abate» hanno emesso circa 67 milioni di tonnellate di CO2 su un totale di 340 milioni, circa il 20% del totale delle emissioni, e la Ccs è l’opzione migliore per abbattere quel numero velocemente e a basso costo. Grazie a questo processo, intere aree industriali saranno protagoniste di un nuovo inizio all’insegna della sostenibilità. La riqualifica dei processi produttivi, l’abbattimento delle emissioni, il mantenimento dei livelli occupazionali, gli investimenti, la maturazione di tecnologie innovative sono parte di un futuro che insieme con le rinnovabili, l’efficienza energetica e tutti gli strumenti utili per decarbonizzare consentiranno alle nuove generazioni di vivere in un mondo senza squilibri, dove sarà consentito a tutti l’accesso a un’energia più pulita, continua ed economica.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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