Energia, Draghi va in Congo in cerca di nuovo gas. Ma Eni lo estrarrà con la russa Lukoil

Il gas estratto in Congo per sostituire Mosca verrà estratto con i russi
La missione partirà la mattina di mercoledì 20 aprile, quando il premier italiano Mario Draghi atterrerà nella Repubblica dell'Angola per incontrare il presidente Joao Manuel Gonçalves Lourenço.
Il mattino dopo altra tappa, questa volta a Brazzaville, in Congo, dove è previsto il faccia a faccia con il presidente della Repubblica Denis Sassou N'Guesso. Il viaggio ha un solo motivo: ottenere più gas dai Paesi africani per cercare di sostituire prima possibile le forniture della Russia di Vladimir Putin. Draghi, come gli avrà spiegato il numero uno dell'Eni Claudio Descalzi che conosce a memoria ogni angolo dell'Africa, è praticamente certo di portare a casa un risultato. Chissà però se è stato avvertito di quella che potrebbe trasformarsi in una vera e propria beffa: per cacciare dalla porta il gas russo l'Italia userà quello africano, facendo però rientrare in qualche modo i russi dalla finestra.
È dal Congo infatti che in tempi relativamente brevi l'Italia potrà ottenere un aumento delle importazioni di gas naturale liquefatto grazie al permesso di estrazione Marine XII ottenuto da Eni al largo nelle acque territoriali congolesi (si stimano estraibili dal giacimento 1,3 miliardi di barili di petrolio e sei trilioni di piedi cubi di gas naturale). Giusto due mesi fa il gruppo guidato da Descalzi ha firmato un accordo con il miliardario statunitense Wes Edens (ex Lehman Brothers ed ex BlackRock) e la sua società newyorchese NFE (New Fortress Energy) per portare in Congo un impianto di liquefazione del gas galleggiante in grado di produrre quasi una tonnellata e mezza di gas liquefatto all'anno.
Per favorire l'operazione il parlamento congolese ha varato una nuova legge firmata dal presidente N'Guesso il 26 gennaio scorso e pubblicata sul bollettino ufficiale ai primi di marzo, dove si prevede che fino a 10 milioni di tonnellate annue di produzione il Congo riceverà in cambio il 20% dei profitti, che diventeranno il 40% sopra i 40 milioni di tonnellate annue. Il resto dei profitti sarà diviso da Eni con i due soci che lavorano all'estrazione: la Snpc (società statale del petrolio congolese) che ha il 10% del permesso, e la russa Lukoil con il suo 25%. Quindi il gas che dovrebbe sostituire per l'Italia le importazioni dalla Russia sarà estratto da Eni in Congo a braccetto con il più grande colosso russo dopo Gazprom.
Vero che al momento né Lukoil né l'oligarca che presiede il gruppo- Vagit Alekperov - figurano nelle varie liste occidentali sulle sanzioni alla Russia, ma è evidente che se Ue e Italia decidono di chiudere le porte a petrolio e gas di Mosca, è difficile non farlo con il primo gruppo petrolifero e secondo del gas in Russia. Gli intrecci con Lukoil per altro sono notevoli e favoriti anche dal passaggio avvenuto due anni fa al gruppo russo dell'allora numero due dell'Eni, Antonio Vella. Ma strettissimo è pure il rapporto fra Lukoil e le massime autorità del Congo, compreso lo stesso presidente che giovedì prossimo riceverà Draghi.
Fu infatti durante una visita di N'Guesso a Mosca a fine maggio del 2019 che fu firmata una lettera di intenti fra SNPC e Lukoil per l'ingresso da protagonista di quest'ultima nel mercato congolese nel settore degli idrocarburi e del gas. E l'intesa è stata rafforzata nel maggio 2021 grazie alla missione a Brazaville del numero due di Lukoil, Ivan Romanosky.
Non ci sono partnership russe in Angola, dove l'Eni è presente da tempo e ha lavorato a un lungo processo di fusione delle attività in loco con quelle di British Petroleum costituendo la joint venture Azule Energy, grazie alla consulenza legale-societaria dei portoghesi di Miranda e dello studio britannico Pinsent Masons. Ma se la devono comunque vedere con il primo produttore presente nel paese, il colosso francese TotalEnergies.
Aggiornamento di lunedì 18 aprile 2022
Il premier Mario Draghi è risultato positivo al Covid ed è asintomatico. Salta però il suo viaggio alla ricerca di gas alternativo a quello russo.
Dimenticata la «sensibilità istituzionale» che mise al riparo l’Expo dalle inchieste: ora non c’è Renzi ma Meloni e il gip vuole mettere sotto accusa Milano-Cortina. Mentre i colleghi danno l’assalto finale al progetto Albania.
Non siamo più nel 2015, quando Matteo Renzi poteva ringraziare la Procura di Milano per «aver gestito la vicenda dell’Expo con sensibilità istituzionale», ovvero per aver evitato che le indagini sull’esposizione lombarda creassero problemi o ritardi alla manifestazione. All’epoca, con una mossa a sorpresa dall’effetto immediato, in Procura fu creata l’Area omogenea Expo 2015, un’avocazione che tagliò fuori tutti i pm, riservando al titolare dell’ufficio ogni decisione in materia.
Una decisione contestata da Alfredo Robledo, titolare di una delle inchieste, ma la sua denuncia portò solo al trasferimento a Torino dello stesso Robledo. L’allora titolare della Procura, Edmondo Bruti Liberati, ancora oggi rivendica la decisione e spiega che senza quell’impostazione Expo avrebbe rischiato l’insuccesso. «Se si vuole chiamare questa sensibilità istituzionale», dice ora, «io sono d’accordo». Del resto, per salvare Expo si mosse pure Giorgio Napolitano, il quale per giustificare l’operazione di salvataggio della manifestazione spiegò che l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non sono patrimonio del singolo magistrato, ma dell’ufficio nel suo complesso. Dunque, Robledo aveva poco di cui lamentarsi, perché l’autonomia e l’indipendenza erano garantite dal suo capo, in quanto titolare della Procura.
Ricordo l’episodio a distanza di dieci anni, non soltanto perché con la riforma della giustizia oggi è tornata di moda la questione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, ma per rappresentare che, quando ci sono state di mezzo manifestazioni o opere pubbliche di interesse nazionale, è prevalsa quella che Bruti Liberati chiama sensibilità istituzionale. L’ex procuratore capo ovviamente non la spiegherebbe mai così, ma diciamo che su Expo pm e giudici si mossero con i guanti bianchi, forti probabilmente anche della lettera con cui il capo dello Stato, ossia il presidente del Consiglio superiore della magistratura, avallò l’operato della Procura. Al contrario, a causa del clima reso incandescente da una riforma osteggiata dall’Anm, oggi anche opere pubbliche e manifestazioni di rilievo internazionale ne fanno le spese. Al Quirinale non c’è più Napolitano e al suo posto da dieci anni si è insediato Sergio Mattarella. E a Palazzo Chigi non c’è Renzi ma Giorgia Meloni. Dunque, la sensibilità istituzionale le toghe la sentono meno. O forse non la sentono affatto. Risultato, dopo la sentenza della Corte dei Conti che rischia di minare alla base il progetto del Ponte sullo stretto, ecco arrivare un ricorso del gip di Milano contro la fondazione Milano-Cortina. Il decreto del governo, che l’ha istituita in vista delle Olimpiadi invernali, la considera un ente di diritto privato, forse per metterla al riparo da eventuali indagini per turbativa d’asta (reato che riguarda la pubblica amministrazione e per consumare il quale può bastare una decisione che punti a sveltire l’iter di un appalto o di un contratto). Ma per il giudice per le indagini preliminari, aver stabilito che le attività della fondazione sono regolate da norme di diritto privato, consentendo dunque all’ente di operare sul mercato in condizioni di concorrenza e con criteri imprenditoriali, sarebbe incostituzionale. Di qui la decisione di sottoporre il quesito sulla legittimità del decreto direttamente alla Consulta. In pratica, la magistratura (la richiesta del gip è stata sollecitata dai pm), messa da parte la sensibilità istituzionale, vorrebbe ottenere il semaforo verde per continuare a indagare e fors’anche processare i vertici della fondazione. Che, come Expo, anche Milano-Cortina sia un evento di portata internazionale poco importa. E che uno stop a un’opera d’interesse pubblico possa diventare un problema d’immagine, per i giudici non sembra d’impedimento, così come in passato non lo furono le inchieste su Tap e Mose pure se conclusesi con un nulla di fatto. Per altro adesso ci sono i centri in Albania. Non contenti di aver svuotato o quasi le strutture per migranti costruite sulla sponda opposta dell’Adriatico, ora i giudici puntano a far dichiarare illegittimo, dalla Corte di giustizia europea, qualsiasi trasferimento all’estero di extracomunitari in attesa di espulsione, mettendo così la parola fine al progetto e all’investimento a Tirana.
In pratica, la guerra tra governo e magistrati prosegue ogni giorno senza esclusione di colpi e da qui al referendum probabilmente ne vedremo delle belle. Così, mentre vi preparate al peggio, segnalo l’ennesima sentenza che lascia (semi) libero un migrante. Per di più sospettato di terrorismo.
Man mano che si chiariscono i dettagli della legge di bilancio, emerge che i provvedimenti vanno in direzione di una maggiore attenzione al ceto medio. Ma è una impostazione che si spiega guardandola in prospettiva, in quanto viene dopo due manovre che si erano concentrate sui percettori di redditi più bassi e, quindi, più sfavoriti. Anche le analisi di istituti autorevoli come la Banca d’Italia e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) tengono conto dei provvedimenti varati negli anni passati.
Sembra che al governo avessero aperto una sorta di riffa. Scavallato novembre, alcuni esponenti dell’esecutivo hanno messo in fila tutti i venerdì dell’ultimo mese dell’anno e aperto le scommesse: quando cadrà il «telefonatissimo» sciopero generale di Landini contro la manovra? Cinque, dodici e diciannove di dicembre le date segnate con un circoletto rosso. C’è chi aveva puntato sul primo fine settimana disponibile mettendo in conto che il segretario questa volta volesse fare le cose in grande: un super-ponte attaccato all’Immacolata. Pochi invece avevano messo le loro fiches sul 19, troppo vicino al Natale e all’approvazione della legge di Bilancio. La maggioranza dei partecipanti alla serratissima competizione si diceva sicura: vedrete che si organizzerà sul 12, gli manca pure la fantasia per sparigliare. Tant’è che all’annuncio di ieri, in molti anche nella maggioranza hanno stappato: evviva.










