2018-09-17
Élite e potentati vogliono distruggerli. Ma nonostante tutto gli italiani esistono
Quando il Paese ha provato a pensare e ad agire in grande è stato umiliato. Ma ha sempre avuto la forza di risorgere.«Gli italiani non esistono». Così titolava, qualche mese fa, il principale quotidiano italiano, presentando la consueta ricerca genetica che ci dava i soliti risultati scontati, rilanciati per fare propaganda al nostro suicidio collettivo. Gli italiani non esistono. Voleva essere una constatazione, ma suonava come un programma: gli italiani non devono esistere. È un popolo che va terminato, cancellato, resettato. Un popolo sbagliato, che non ha mai imparato la lezione. Un popolo che, per questo, deve pagare. Questo Paese così «anomalo», questa nazione così «dispettosa», questa patria che nonostante tutto continua a produrre resistenze economiche, politiche e culturali ai progetti oligarchici mondiali. Tutto questo deve finire, una volta per tutte. Bisogna, insomma, «eliminare la “diversità" degli italiani, della loro intelligenza, della loro insopprimibile potenza creativa» (Ida Magli). Non parliamo di alcuna azione concertata, ovviamente. Non c'è nessun complotto. Contro l'Italia non si leva un piano, ma un insieme convergente d'interessi geopolitici, tradizioni avverse e rancori storici. L'Italia, questa penisola che qualcuno vorrebbe trasformare in bagnasciuga per le ferie assolate di tutte le oligarchie, questo serbatoio inesauribile di folclore e rovine, questo teatro ambulante vocato al sollazzo dei padroni del mondo, sconta e sconterà sempre la colpa di esistere. Avrebbe dovuto essere solo un Paese di simpatici pizzaioli e invece si è impuntata ad avere un ruolo storico, a fare di testa sua. Asservita, umiliata, vilipesa, incatenata, pure essa resta nonostante tutto scaturigine di eterni grattacapi per i Mangiafuoco globali, a cominciare da quella sua insopportabile posizione geografica, ostinatamente e scandalosamente incuneata nel mare degli inglesi, degli americani, dei francesi, degli israeliani, il mare di tutti fuorché «nostrum». Messa dagli dèi lì dov'è, l'Italia è buona per fungere da portaerei altrui, ma che non le passi per la testa di darsi da fare in autonomia, come a modo loro hanno tentato i vari Crispi, Mussolini, Craxi, Mattei – in una certa misura persino Berlusconi. Personaggi la cui carriera politica, quando non la vita stessa, si è sempre traumaticamente interrotta. [...]Tutta la storia dell'Italia come nazione unita è caratterizzata da questo conflitto a intensità variabile: ogni volta che ha provato ad alzare la testa, a pensare in grande, c'è stata una mano intervenuta dall'alto per riportarla al posto che le compete secondo le gerarchie stabilite altrove. Prendiamo la politica industriale; pochi possono immaginare, per esempio, che all'inizio degli anni Sessanta l'Italia vantasse alcuni poli di assoluta eccellenza in almeno quattro settori strategici: informatico, petrolifero, nucleare, medico. Abbiamo progettato – noi, che uscivamo da una guerra persa e da una difficile ricostruzione – il primo pc e i primi microprocessori del mondo; siamo riusciti a insidiare i monopoli petroliferi delle potenze occidentali; eravamo al terzo posto per produzione di energia elettrica di origine nucleare e siamo stati uno dei primi tre produttori di penicillina grazie anche all'invenzione del microscopio elettronico. Oggi siamo stati estromessi, o quasi, da tutti quei settori grazie a scelte politiche disastrose, faide suicide e pressioni internazionali. Un vero e proprio «miracolo scippato», come l'ha definito il giornalista Marco Pivato. Fino ad arrivare al grande saccheggio inglese consumato nel 1992 sul panfilo Britannia, alla perdita dei colossi dell'alimentare e alla svendita generalizzata della nostra industria dell'acciaio. Con tanto di lezioni, da parte della quinta colonna accademica e giornalistica, sulla necessità di dedicarsi esclusivamente al terziario, ai servizi, al turismo e di lasciare andare la politica industriale, che è cosa da grandi e non ci compete. Perché sono proprio i nostri a dirlo. Gli stranieri tramano, ma sanno anche di poter andare sul sicuro, grazie all'innata inclinazione al tradimento di parte della nostra classe dirigente, soprattutto intellettuale. Siamo noi ad autodenigrarci, a considerarci inaffidabili, incostanti, vili. Noi, o meglio, una parte di noi, che guarda caso è proprio quella a cui è affidato il compito di riprodurre una narrazione nazionale in cui il nostro popolo possa rispecchiarsi. Le nostre élite non credono nell'Italia, trasmettono lo scetticismo e lo spirito di autosabotaggio a gran parte della popolazione. Nell'epoca dell'antirazzismo obbligatorio, siamo l'unico popolo di cui si possono elencare impunemente difetti e malefatte, indiscriminatamente attribuiti a un'intera collettività. Non si può più odiare nessuno, tranne noi stessi. […] Nel Dna spirituale dell'Italia, del resto, è indelebilmente scritta una grammatica di rinnovamento, rinascita e resurrezione. Non è un caso che i due momenti più alti della storia nazionale, il primo in senso culturale e il secondo in chiave politica, si chiamino Rinascimento e Risorgimento. Rinascere dopo i «secoli bui» del Medioevo; risorgere dopo epoche di servaggio e umiliazione nazionale; «tornare a riveder le stelle» dopo la discesa all'inferno. Dopo Caporetto c'è sempre Vittorio Veneto. Persino nel nostro sport nazionale trionfiamo su tutto e su tutti solo quando siamo sull'orlo del baratro, quando sembra che tutto sia perduto, quasi per far dispetto al destino. […] Nell'Italia c'è salus, la salute/salvezza che costituisce il cuore della sua missione sacra, che del resto fa dannare i suoi nemici mortali, perché l'Italia sembra non morire mai, perché gli italiani risorgono sempre, nonostante i reiterati tentativi volti a terminare la loro esistenza politica, culturale e spirituale. Malgrado tutto, noi ci siamo. Malgrado tutto, gli italiani esistono.
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