
Quando nacque La Verità, Giampaolo Pansa partecipò con entusiasmo al progetto. A un certo punto lo sfiorò perfino l’idea di diventarne azionista. Un quotidiano che avesse come padroni solo i lettori e i giornalisti lo affascinava: finalmente un giornale libero. Due anni dopo però mi comunicò che avrebbe lasciato, traslocando altrove la rubrica che scriveva ogni sabato. Nessuno gli aveva mai impedito di dire quello che voleva, ma lui voleva impedire a me di scrivere ciò che io pensavo. Convinto che Matteo Salvini fosse la reincarnazione di Hitler, non gli piaceva che applaudissi alle iniziative del ministro dell’Interno. In particolare, non digeriva che, a proposito dei porti chiusi ai migranti, avessi scritto «Forza Salvini». L’addio di Giampaolo è il mio più grande smacco professionale, non solo perché a lui ho voluto bene come a pochi, ma in quanto con il suo addio veniva meno l’idea che in un giornale libero tutti potessero pubblicare le proprie opinioni, anche quando queste erano in contrasto fra loro. Io ero convinto che gli articoli di Pansa fossero uno spunto di riflessione anche se contrastavano con i miei. Toccava ai lettori decidere per chi parteggiare e scegliere quali tesi sposare. Non vi nascondo che mi capitò spesso di ricevere mail che contestavano Giampaolo e mi chiedevano di cacciarlo, ma ce n’erano anche lettori che, pur essendo in disaccordo con i suoi argomenti, avevano comunque verso di lui un grande rispetto per aver avuto il coraggio, lui che veniva da sinistra, di alzare il velo sugli orrori della resistenza partigiana. Poteva anche aver torto su Salvini o su altro, ma Il sangue dei vinti, ossia il resoconto delle stragi - spesso di persone innocenti - commesse in nome della libertà, testimoniava non soltanto la sua grandezza come cronista, ma anche la sua straordinaria onestà intellettuale.
Se vi parlo di una ferita che per me non si è mai rimarginata, è perché in questi giorni sono costretto a fare i conti con un altro trauma. Dal 7 ottobre, giorno in cui i terroristi di Hamas e della jihad islamica hanno assaltato i villaggi al confine della Striscia di Gaza, uccidendo 1.400 persone e rapendone oltre 200 che oggi sono rinchiuse sottoterra, ricevo diverse lettere di protesta. A chi ci segue da anni, non piace che il nostro giornale abbia preso le parti delle vittime israeliane, dimenticando le vittime palestinesi. C’è chi mette in dubbio le ricostruzioni, come lo scempio di bambini innocenti, chi non crede che i terroristi siano arrivati in deltaplano, chi pensa che i migliori servizi segreti del mondo non possano essere stati sorpresi da un assalto pianificato negli anni, mentre altri sono certi che la strage dell’ospedale di Al-Alhi sia da attribuire all’esercito di Gerusalemme.
Poi ci sono quanti risalgono alla notte dei tempi, alla nascita stessa di Israele, cioè al 14 maggio del 1948, e alla Nakba, ovvero alla catastrofe che portò all’esodo di 700.000 palestinesi dalla terra in cui erano nati e cresciuti, e ricordano che anche gli ebrei, per conquistare e difendere il territorio che avevano eletto a propria patria, ricorsero al terrorismo. Poi c’è chi ricorda che la Striscia di Gaza è una prigione a cielo aperto, perché non solo gli ingressi e le uscite sono controllati da Gerusalemme, che ha chiuso con un muro i confini e sorveglia tutti i valichi di frontiera, ma anche l’economia è nelle mani di Israele, poiché controlla importazioni ed esportazioni.
Non intendo rispondere qui a tutte le contestazioni che ci sono state mosse, anche perché credo in parte di averlo fatto con gli articoli pubblicati nei giorni scorsi. Oggi, prima di lasciare spazio alle lettere ricevute (anche quelle più offensive), voglio solo aggiungere un elemento di riflessione. Il compito di un giornalista non è ricostruire la storia di un secolo fa. Quello è affare degli storici i quali, documenti alla mano, possono stabilire quali furono gli errori alla base del conflitto. Certo, alle origini dell’emigrazione dall’Africa ci sono le stragi e lo sfruttamento delle potenze coloniali, ma anche i conflitti tra diverse etnie e una straordinaria corruzione autoctona, dove i Paesi europei non c’entrano nulla. Io quando scrivo di migranti però mi fermo ai dati di fatto, ovvero a quel che sta succedendo ora, in questi anni, e ai pericoli che ne derivano, anche se spesso ciò che accade ha alle spalle un passato che non passa.
Tornando alla guerra arabo-israeliana, è ovvio che trova origine nella decisione delle potenze che vinsero il conflitto mondiale di dividere il Medio Oriente con il righello, creando Stati che fino ad allora non erano mai esistiti e affidandoli spesso a sovrani inventati a caso. Quello di decidere a tavolino della sorte dei popoli è un vizio che ricorre nella storia, prova ne sia che la dissoluzione dell’Unione sovietica ha dato luogo a disastri che ancora ci trasciniamo. Non penso solo all’Ucraina, ma anche al Nagorno-Karabakh, dove tra l’indifferenza generale è in corso una pulizia etnica da parte dell’Azerbaijan, e la religione, come in Palestina, ha un peso. Sbagliò l’Onu nel 1947 a votare a favore della nascita di Israele senza tener conto che a Gerusalemme e dintorni c’era un altro popolo anche se non aveva uno Stato? Probabilmente sì, perché non si tenne in alcun conto la contrarietà dei Paesi arabi, che infatti un secondo dopo la nascita di Israele lo attaccarono. Ma adesso, cioè 80 anni dopo, che facciamo? Per rimediare a un errore ne commettiamo un altro, cancellando un Paese di 6 milioni di abitanti? Oppure legittimiamo il terrorismo perché i palestinesi furono cacciati dalle loro terre? Anche in Istria, la scelta di affidare quei territori abitati da italiani alla Jugoslavia provocò l’esodo di 200.000 persone, che furono costrette a lasciare le proprie case per paura di essere passate per le armi. Tuttavia, gli istriani non si trasformarono in kamikaze. E allora, che si fa? La soluzione ci sarebbe: due popoli e due Stati, come si pensò nel 1947. Ma i primi a non volerla sono Hamas, la jihad islamica, l’Iran, il Libano e altri Paesi arabi. I quali desiderano solo la scomparsa di Israele, e anche dei palestinesi, la cui causa è usata strumentalmente anche se poi nessuno, a cominciare da Giordania, Egitto e Libano, ha intenzione di accoglierli. Hamas non vuole la Palestina libera, come sento gridare nelle piazze. Vuole la Palestina sottomessa ad Allah e alla sharia, ovvero lo Stato islamico.
Ovviamente anche Gerusalemme ci ha messo del suo, commettendo errori ed eccessi di ogni tipo, a cominciare dall’occupazione dei coloni per finire ad abusi su cui ha preferito chiudere gli occhi. Non voglio giustificarli: però se ogni giorno ti piovono in testa centinaia di razzi e salendo sull’autobus o entrando in un negozio preghi che non ti accada nulla è difficile vivere. È più facile reagire.
Perché vi ho detto tutto ciò? Per una sola ragione, cari lettori: potete non essere d’accordo con noi, potete contestarci e pretendere che si dia spazio alle vostre ragioni e a tesi opposte a quelle che abbiamo scritto, ma non dovete pensare che il nostro giornale sia al servizio di questo o di quello, di Soros o di qualche potenza «demoplutogiudaica». Pubblichiamo ciò in cui crediamo e a volte anche ciò in cui non crediamo, per spirito di libertà. L’idea che ci mosse nel 2016, con Giampaolo Pansa, è la stessa: vogliamo fare un giornale libero, dando voce a tutti. Pur non essendo d’accordo con Marco Cappato, che domani e dopodomani si presenta a Monza contro Adriano Galliani per il posto di senatore che fu di Silvio Berlusconi, sull’eutanasia pubblicai le sue tesi e lui stesso ne fu stupito. Io credo che i giornali servano a questo: non a scrivere cose su cui tutti concordano, ma a pubblicare opinioni che facciano discutere. È per questo che oggi, ma lo farò anche in futuro, sulla guerra in atto do voce a tutti quelli che ritengono che le colpe di quanto successo siano più da attribuire a Israele che ad Hamas. Sono opinioni che dividono e qualche volta indignano? Sì, ma è la storia a dividere e farci indignare, perché ciò che sta accadendo riguarda il futuro, il destino del Medio Oriente e anche quello dell’Occidente, dato che in quel fazzoletto di terra chiamato Striscia di Gaza alla fine si giocano gli equilibri di mezzo mondo. Anzi, probabilmente di tutto il mondo. Dunque, diteci ciò che ne pensate. I terroristi li temiamo e li combattiamo. Le opinioni no.