2020-08-15
È ufficiale: nozze d’interesse fra Pd e M5s
Nicola Zingaretti, Giuseppe Conte e Luigi di Maio (Ansa)
I pentastellati stracciano anche l'ultimo brandello di coerenza e stringono un patto con i democratici per le alleanze elettorali Entusiasti Beppe Grillo, Luigi Di Maio e Dario Franceschini. Però Nicola Zingaretti tuona: «Non sosterremo mai Virginia Raggi», mentre Beppe Sala rischia a Milano. Oggi sposi. Quello fra Pd e M5s è un matrimonio ferragostano, di soppiatto, celebrato con una rapidità da sotterfugio, nel quale si intuiscono solo i profili del prete e dei chierichetti. Colui che infila gli anelli è Goffredo Bettini, il gran visir del centrosinistra alle vongole, da sempre fautore della santa alleanza «buona per battere Salvini». E i due chierici sono Luigi Di Maio e Dario Franceschini, impegnati a consolidare il loro ruolo politico in modi diametralmente opposti. Il primo facendosi incoronare di nuovo leader dalla piattaforma Rousseau, che ieri ha dato via libera con la consueta incontrollabile pantomima alla deroga dei due mandati e alle «alleanze con i partiti tradizionali». Il secondo approfittando della svolta ancora più a sinistra per togliersi di torno riformisti a suo dire pericolosi e molesti come Giorgio Gori, Dario Nardella, Tommaso Nannicini e compagnia.L'Italia ha un nuovo Ulivo che produce inquietanti bacche rosse. Che i grillini di governo fossero pronti ad abbracciare definitivamente il «partito di Bibbiano» per convenienza si era capito da due mosse lampanti: la decisione comune di rinunciare alle reciproche cause in tribunale e lo spostamento progressivo di Beppe Grillo, sempre più infatuato dalle movenze tardodemocristiane di Giuseppe Conte e sempre più preoccupato dall'inchiesta per presunta violenza sessuale di suo figlio Ciro, che giace da qualche parte nella Procura di Tempio Pausania. Il pranzo con Beppe Sala era un segnale, i complimenti al cuoco una metafora della ribollita progressista. Il più felice dell'unione di fatto è proprio Di Maio, che immediatamente concretizza gli effetti dell'accordo brindando su Facebook: «Un grande in bocca al lupo a Virginia Raggi per la sua ricandidatura e buona fortuna a tutti i candidati sindaco che saranno a capo di coalizioni politiche neoliberiste comuni dove correremo per le elezioni del 20 settembre. Da oggi inizia una nuova era per il M5s nella partecipazione alle amministrative. Includere e aggregare saranno le vie da percorrere, rispettando e difendendo sempre i nostri valori».Quali siano non lo sa più neppure lui, ormai semplice notaio di un'alleanza di fatto, battezzata da Nicola Zingaretti con la subdola frase: «È un fatto positivo. Siamo un'alleanza tra forze diverse. Ma per governare bisogna essere alleati, non si può essere avversari». E l'ambiguità dell'uscita viene smascherata un minuto dopo quando, da Orbetello, il segretario aggiunge: «Noi non sosterremo mai la ricandidatura di Virginia Raggi perché credo che siano stati cinque anni drammatici per Roma, occorre dare voce alla città e indicare una speranza nuova. I candidati alle amministrative del 2021 si scelgono dopo le amministrative 2020». Il matrimonio s'intoppa al taglio della torta e il lancio del bouquet viene malissimo. Si scopre subito l'unione di comodo, l'arrocco asfittico e utilitaristico. Dopo lo shock iniziale prendono corpo i mal di pancia. Nel campo grillino gli ortodossi sembrano basiti e rileggono con sospetto le percentuali della votazione su Rousseau. Alla domanda chiave sulle alleanze strutturali, il 59,9% ha detto sì ma il 40,1% è contrario. Significa che l'aggregazione identitaria attorno ad Alessandro Di Battista, leader dei duri e puri, è ancora forte. Spiega Pino Cabras, neanche fosse un parlamentare democristiano ai tempi del compromesso storico: «Il quesito sulle alleanze spiega di poterle fare, non di doverle fare». Già si prefigurano smarcamenti e imbarazzi. Come in Puglia, dove qualche giorno fa Vito Crimi ha chiuso la porta a Michele Emiliano: «I contrasti con il suo Pd non sono archiviabili». Sconfessato da Mario Turco, collega di partito e sottosegretario alla presidenza del Consiglio: «La continuità governativa farebbe bene a tutti». Una dialettica che non si modella sulle idee (del tutto assenti) ma sugli scambi di potere per mantenere lo status quo. Per continuare a controllare la cosa pubblica nell'Italia della palude. Se i pentastellati sono al mal di pancia dopo neppure 24 ore, nel Pd è già tempo di coliche. Da oggi nella balena rossa il riformismo è morto. Con Crimi, Raggi, Di Maio, Taverna seduti allo stesso tavolo, nessuno si illude più. Il primo a capire lo showdown è Giorgio Gori, che ha fiuto per le dinamiche nordiste non pauperiste e vede nero: «Rousseau dice sì all'alleanza col Pd. Non dico cosa penso di queste consultazioni via piattaforma ma almeno il M5s ha fatto finta di chiedere alla base cosa ne pensasse. Il Pd manco quello: dal “mai con i 5 stelle" al “nuovo centrosinistra" senza fare un plissé». Lo sconcerto è diffuso, il Frankenstein Junior che sta nascendo non può neppure contare sull'ironia di Marty Feldman. Quando va in scena Lucia Azzolina i piddini non ridono. Quanto ai vantaggi elettorali, sono tutti da verificare. Per esempio, a Milano non sarà facile per Sala far digerire alla città più in movimento d'Italia l'alleanza con il partitino più retrivo, che nella nebbia si confonde con i centri sociali e cerca abbracci pericolosi come quello dei Carc. Ma la scelta di campo è compiuta e la necessità di sopravvivenza impedisce al Pd di vedere il travaso di voti dell'ultimo anno. Mentre il Nazareno immalinconisce attorno al 20%, perdendo peraltro decimali, i grillini usciti a pezzi dalle Europee recuperano qualche consenso proprio nel travaso a sinistra. «Ci stanno cannibalizzando, ci spolpano dall'interno», è il sussurro in direzione dei riformisti all'angolo. Dalla riserva indiana liberal arrivano subito segnali di fumo. Lo scenario rianima improvvisamente Renzi, che spera in nuove fughe dal Pd per i suoi giochi di potere. La sinistra alleanza è una buona notizia per Carlo Calenda che infatti commenta: «Così la sinistra perde ogni connotazione riformista. L'essenza del progetto del Pd - unire socialdemocratici e liberaldemocratici in un partito riformista a vocazione maggioritaria - si può considerare conclusa». Si intuiscono infine salmi di giubilo nella Chiesa di papa Francesco, da sempre orfana dell'Ulivo. Per il mellifluo potere cattocomunista i grillini sono sempre stati «compagni che sparlano». Quindi educabili al nuovo catechismo green.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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