2022-02-19
E Carlo Alberto alla Tavolara disse: «Ho visto un re»
Carlo Alberto di Savoia e il pane carasau (IStock)
In Sardegna, «la più piccola monarchia del mondo». Regnante e regina appassionati di limoni di mare, capretto e pane carasau.Della Sardegna avevamo scritto in altre puntate, raccontando delle sue tentazioni golose, a dimensione farinacea, tra pane e paste assortite. Ma l’isola dei Nuraghi è un piccolo grande universo di altre eccellenze che meritano di essere raccontate. Immaginiamo di veleggiare di bolina con una ideale caravella pronta a scoprire il meglio del suo lato nord orientale, quello più conosciuto, tra Gallura e Costa Smeralda. Cibovagando (Davide Paolini copyright) per mercatini e trattorie di resistenza piscatoria si possono incontrare i limoni di mare, che non sono agrumi naviganti, bensì «un’ostrica di un altro pianeta» come ben descritto da Faith Willinger, food trotter made in Usa. Limoni detti carnummi nello slang locale. Hanno una struttura a forma di otre, coriaceo e rugoso. Classificati come «microcosmus», forse in riferimento al fatto che, la loro superficie esterna, è rivestita da microrganismi vari: alghe, attinie, spugne, tanto «da sembrare un giardino fiorito», il che rende difficile poterli riconoscere, così agghindati, tra i fondali marini, rocciosi e melmosi. Un gusto intenso e particolare, quasi iodato, che ricorda influenze sulfuree, tanto che qualcuno li ha anche ribattezzati «uova di mare». La medaglia sul piatto (si possono gustare crudi o in abbinata agli spaghetti) da parte di Luciano Pignataro, maestro di penna & forchetta: «È il frutto di mare con il sapore e l’odore più intenso che io conosco. Le carnummole sono la laurea tra le varie specie di genere» (alla faccia di ostriche e capesante…). Una sola cautela. Sono molto filtranti di quanto le circonda, al pari delle cozze, e quindi richiedono una provenienza certa, da acque sicure. Dopo aver limonato ai quattro palmenti gettiamo l’ancora a Tavolara, quattro colpi di remi da Olbia. Qui ad accoglierci un arzillo novantenne, Tonino Bertoleoni, affiancato dal figlio Giuseppe. Tonino, per tutti, il «Re di Tavolara», il quale «ha ereditato una storia talmente bella da sembrare una fiaba». Un suo trisavolo, il genovese Giuseppe, in cerca di miglior fortuna arrivò da queste parti a inizio Ottocento e avviò un’attività di allevamento delle capre locali, «dai denti d’oro» grazie alle erbe dai sentori salmastri che le alimentavano. Tra queste l’euforbia, responsabile dei pigmenti che poi «laccavano» di patina dorata la dentatura. Ben presto Beppe Bertoleoni (e le sue capre) divennero un riferimento per tutta la costiera della Gallura, tanto da attirare l’attenzione di Carlo Alberto di Savoia, re di Sardegna e padre di Vittorio Emanuele II, il primo re del futuro Regno d’Italia. All’alba di un giorno del 1836 Beppe vide sbarcare sulla riva deserta un nobiluomo con tanto di fucili a tracolla e qualche aiutante. Perplesso gli chiese la carta d’identità. «E lei chi è?». «Sono il Re di Sardegna». «Ah, beh, allora io sono il Re di Tavolara». Dopo questo primo confronto di nobiltà reale o presunta i due familiarizzarono in quelle giornate dove il cadetto dei Savoia scoprì un mondo a lui sconosciuto tanto che, al saluto della staffa, fu lo stesso dinasta piemontese a salutare il «collega» con queste parole. «Lei è un vero custode del territorio, scriverò a Torino perché le diano la corona che merita». Il resto è storia degna del miglior Poirot. La famiglia Berteleoni rivendica, da sempre, che quell’attestato le è arrivato, tanto che il figlio Paolo, qualche anno dopo, si prese cura di realizzare lo stemma araldico e la bandiera, orgoglio di Tavolara nel mondo. Il seguito un crescendo rossiniano. Dopo qualche anno giunge l’incrociatore Vulcan, della Real Casa britannica. Emissari della regina Vittoria vogliono conoscere de facto «la più piccola monarchia del mondo». Negli archivi di famiglia ci sono ritagli di vari giornali, tra cui il New York Sunday World, che magnificano questa piccola realtà. Nel terzo millennio, al tavolo della trattoria di famiglia, si possono gustare le prelibatezze del posto: spaghetti con arselle e bottarga e, ovviamente, capretto con patate al rosmarino. Dopo la visita a un re non può mancare quella (alla memoria) di degna regina (dei fornelli), ovvero Rita Denza. Viene scoperta e lanciata da Luca Goldoni, penna eclettica, autore di libri che hanno fatto la storia dell’editoria nazionale. In una nota per la Guida de l’Espresso la presenta così «La cucina di Rita Denza regala una soddisfazione così singolare che averla provata una volta significa non dimenticare mai il suo sapore e avere sempre il forte desiderio di gustarla ancora». Rincara la dose Gino Veronelli (che per lei realizzò una meditata carta dei vini) «Rita ha il genio, essì, della reinvenzione dei piatti di Sardegna, con qualche felice evasione». Completa il trittico d’autore Davide Paolini: «Una cuoca piccola, dagli occhi vispi, con il fare di un comandante, nonostante la sua umanissima dolcezza». Figlia e nipote d’arte. Il nonno Giuseppe uno degli ultimi «monsù» napoletani, al servizio di famiglie quali i Ruffo di Calabria e i Lanza di Trabia. Papà Angelo primo chef di una compagnia di wagon lits che portava i turisti del tempo in giro per l’Europa. Lo zio, Luigi Denza, professore di canto alla Royal Academy di Londra, compositore di Funiculì, funiculà, l’inno ufficiale, nel 1880, alla inaugurazione della funicolare del Vesuvio. Papà Angelo, nel dopoguerra, rileva e restaura uno storico ristorante di Olbia, il Pausania, con una innovazione importante, inizia a lavorare il pescato di qualità, senza dimenticare l’importante tradizione agropastorale del territorio. Nasce così Il Gallura. La giovane Rita ci mette di suo. Come ben la descrive Gianni Salvaterra «è una cucina che sa di memoria (la tradizione) e di nuove frontiere (negli abbinamenti)». Citando eclettici. Dall’anguilla con il pecorino alla coda di rospo con arance e zafferano, così come il polpo con la melagrana o moscardini e zafferano. Non manca il capretto (quello di Tavolara, ovviamente), cotto rigorosamente nel forno a legna, così da valorizzare «ulteriori e inaspettati profumi». Una ricerca del meglio, dal frue Gennargentu (il formaggio fresco di capra) alla cipolla rossa di Ozieri per dar vita, con altri aromi, ad una zuppa di porcini che conferma le parole di Luca Goldoni. Orciadas, gli anemoni di mare, «fritti come fossero raggi di luna». Sempre Salvaterra «ogni prodotto della campagna e del mare che entra nella sua cucina potrebbe rappresentare l’ideale platonico della sua specie». Ai suoi tavoli è passato il mondo, come testimonia il libro degli ospiti: dagli Agnelli ai Donà delle Rose, la dinastia Barilla. Chiamata, a Porto Rotondo, dal presidente Francesco Cossiga per accogliere Diana e Carlo d’Inghilterra con un menù ambasciatore del meglio dell’isola sua. La cosa curiosa è che, quando si attardava nelle rare pause sul porticato del locale, amava conversare con i clienti sbocconcellando il suo piatto preferito, formaggio e pane, naturalmente carasau. Purtroppo, per le strane vicende della vita, il locale ha dovuto chiudere anzitempo. Rita è poi mancata, nel 2014. Il miglior ricordo, quello di Gian Arturo Rota, allievo e genero di Veronelli: «Ci lascia un’amica testarda e generosa, il cui sorriso era tale da liquefare qualsiasi malumore».
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)