2022-06-22
È finita l’era di Amara e Calafiore: i giudici negano patteggiamenti
Piero Amara e nel riquadro Giuseppe Calafiore (Imagoeconomica)
Il gip boccia la richiesta di patteggiamento dell’ex legale dell’Eni. Stessa sorte al socio. Per Cassazione avrebbe corrotto Denis Verdini.Per anni sono stati ritenuti due collaboratori di giustizia a 24 carati. Ma adesso per i faccendieri Piero Amara e Giuseppe Calafiore l’aria sembra cambiata. I giudici italiani non paiono più disposti a concedere sconti di pena sulla fiducia. Come dimostrano due casi recentissimi. Ad Amara, per esempio, dopo i dispiaceri milanesi, è toccato pure l’amaro lucano.Secondo la Procura ambrosiana l’avvocato siciliano avrebbe calunniato l’ad dell’Eni Claudio Descalzi e il suo braccio destro Claudio Granata, oltre all’ex consigliere del Csm Marco Mancinetti. Spostandoci dalla Lombardia in Umbria, la situazione non migliora: a Perugia le dichiarazioni di Amara sulla fantomatica loggia Ungheria potrebbero presto essere archiviate aprendo la strada a una valanga di ulteriori denunce.Scendendo ancora più a sud, bisogna aggiungere al già salato conto le accuse mosse dalla Procura di Potenza per la presunta calunnia commessa ai danni dell’ex ministro Paola Severino, dell’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia e del manager e lobbista dalemiano Roberto De Santis, tutti accusati di traffico illecito di rifiuti negli esposti presentati da Amara alla Procura di Trani nel 2015. A tale contestazione gli inquirenti lucani ne hanno aggiunta una per corruzione in atti giudiziari che Amara avrebbe commesso in concorso con l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo, con un funzionario di polizia e con un consulente dei commissari dell’Ilva. Ipotesi delittuosa, quest’ultima, che un anno fa ha portato all’arresto del legale siciliano.Ma i pm, dopo averlo interrogato più volte, si sono convinti della bontà della collaborazione del faccendiere, benché questi avesse dichiarato di essersi precedentemente preso gioco degli inquirenti di Roma e Milano.Di fronte a questa apertura di credito il sedicente massone ha tentato di patteggiare con il consenso della Procura una pena di «soli» tre mesi, trovando, però, la strada sbarrata dal Gip Teresa Reggio, la quale, con un’ordinanza firmata pochi giorni fa, ha rigettato l’istanza proposta da accusa e difesa affermando che non può riconoscersi l’attenuante della collaborazione. Il motivo? Non sarebbe stato possibile valutare la reale «portata» del contributo offerto da Amara sia allo «sviluppo delle indagini» che alla «migliore comprensione dei fatti», dal momento che gli inquirenti non hanno allegato agli atti i verbali degli interrogatori resi dal presunto collaboratore di giustizia.Inoltre per il giudice l’imputato non ha più diritto neanche alle attenuanti generiche come dimostrerebbe la condanna in primo grado del novembre scorso a 9 mesi di reclusione (anche questi patteggiati) per «plurimi fatti di bancarotta fraudolenta pluriaggravata». Infatti, anche se la sentenza di sette mesi fa non è definitiva (al contrario di quelle arrivate tra il 2019 e il 2020 a Roma - 3 anni e 1 mese -, Messina - 1 anno e 2 mesi - e Siracusa - 9 mesi -), «offre, comunque, elementi che consentono di ritenere che il crimine rappresenti per Amara un valido e alternativo sistema di vita e contribuisce a rafforzare il giudizio negativo posto a fondamento del diniego delle richieste circostanze attenuanti generiche». Non è finita. Secondo la Reggio «la personalità negativa di Amara […] connotata da estrema e preoccupante spregiudicatezza, non consente di esprimere un giudizio di congruità della pena, che, nella misura concordata, appare con tutta evidenza inidonea […]», pur considerando i reati espressione di un medesimo disegno criminoso. Per questo il Gip ha rigettato la richiesta e ha restituito gli atti alla Procura.La valutazione del giudice stride fortemente con quella inviata dai pm di Milano nel 2020 al Tribunale di sorveglianza di Roma, allorquando Amara venne giudicato un pentito affidabile e per questo meritevole dell’attenuante della collaborazione.Contattato dalla Verità l’avvocato Salvino Mondello, difensore di Amara, ha dichiarato che riproporrà il patteggiamento a 3 mesi chiedendo, però, al pm di Potenza di allegare agli atti gli interrogatori. «Si fa sempre passare il mio assistito come un bugiardo e una cattiva persona. In realtà è un detenuto modello che in questo momento si sta prodigando per migliorare la condizione dei compagni di prigionia. Ha scelto di lavorare durante il giorno e onora questa possibilità con grande dedizione, e questo, per fortuna, i giudici di Sorveglianza lo sanno» rimarca Mondello.A lottare contro altri magistrati che non gli credono è anche Calafiore che, ormai da qualche anno, tenta di patteggiare a Messina le pene per i reati commessi nel corso di una vita. A frustrare le sue aspirazioni è in questo caso la Procura generale presso la Corte di appello peloritana che ha ingaggiato una lotta senza quartiere contro i patteggiamenti proposti dai pm messinesi ed accettati dai Gip. Un primo accordo proposto dalla Procura diretta da Maurizio De Lucia è stato accolto dal Gip Fabio Pagana ma, a seguito di ricorso del sostituto procuratore generale Felice Lima, la Corte di cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo, che è il giudice che ha stroncato l’indagine romana denominata «Mafia Capitale», ha annullato, con sentenza del 16 novembre 2021 il patteggiamento sposando in pieno la tesi di Lima che vedeva nella contestazione mossa a Calafiore, Amara e Denis Verdini non tanto un’ipotesi di finanziamento illecito ai partiti, bensì una corruzione. Ha rilevato, infatti, la Cassazione che giudice e pm hanno commesso un «errore manifesto» poiché la «lettura della imputazione […] rivela con immediatezza come il fatto contestato sia strutturalmente costruito e descritto facendo riferimento […] a un fatto corruttivo; Verdini […] avrebbe ricevuto denaro dall’imputato per compiere una serie di condotte (quali la nomina di un consigliere di Stato, ndr) che avevano la loro giustificazione causale nei voleri di Amara e Calafiore e che erano corrispettive della dazione». La Cassazione rileva quindi che il fatto «non poteva essere sussunto» nel reato di finanziamento illecito ai partiti e che quella proposta dai pubblici ministeri e dal giudice era «una qualificazione giuridica manifestamente errata, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione».Nonostante questa chiara presa di posizione degli ermellini, i pm di Messina e il Gip, questa volta Ornella Pastore, con una sentenza del 25 maggio 2022, hanno ribadito il proprio punto di vista ritenendo la sentenza della Cassazione «non vincolante» e continuando quindi a qualificare il fatto contestato a Verdini, in concorso con Amara e Calafiore, come un semplice finanziamento illecito. Non si è fatta attendere la reazione della Procura generale della città dello Stretto che con un lungo ricorso, firmato dal sostituto procuratore generale Santi Cutroneo e datato 13 giugno 2022, ha di nuovo invocato l’intervento della Cassazione, chiedendo l’annullamento della decisione, essendo la sentenza della Cassazione vincolante «per il giudice del prosieguo del procedimento».