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2020-06-01
Arriva l’ondata di tasse. Incostituzionale
Ansa
Meglio non farsi illusioni, la stangata fiscale ci sarà, eccome. Quello tra giugno e settembre sarà un periodo di fuoco per le imprese: dovranno versare al fisco 50 miliardi. Stressate da tre mesi di mancato fatturato, dall'assenza di liquidità, dai litigi con le banche per l'accesso al credito, da una riapertura con prospettive incerte, l'appuntamento con il fisco sarà un incubo. Il governo ha parzialmente cancellato la rata Irap e fatto slittare al 16 settembre il pagamento delle imposte tra marzo e maggio, ma è come dare un'aspirina a un malato in coma. La pandemia che regredisce tra le persone ora fa strage di imprese. Intacca i bilanci, soffocati da una domanda che stenta a ripartire e da ordinativi ridotti al lumicino. La terapia d'emergenza con i pochi stanziamenti a fondo perduto, l'ulteriore indebitamento determinato dai crediti garantiti dallo Stato e lo spostamento del pagamento delle imposte sono palliativi.
Sulla testa delle imprese grava una scure da 50 miliardi di tasse che dovranno essere pagate tra giugno e settembre con una possibile coda a metà dicembre per chi decide di rateizzare. Non c'è scampo. Così le aziende, invece di concentrarsi sulla ripresa e impiegare le risorse a disposizione per ottimizzare la produzione, dovranno svuotarsi le tasche per le imposte di inizio estate. Questo vale anche per le attività in grande difficoltà.
I tributi previsti tra marzo e maggio, nei mesi di blocco totale di gran parte delle attività produttive, erano stati spostati a giugno. Si tratta di circa 20 miliardi. Tra qualche giorno, quindi, le imprese dovrebbero saldare il conto con l'Agenzia delle entrate, sommando le tasse sospese a quelle previste, di norma, per questo mese. Il governo però ha deciso di far slittare ancora, al 16 settembre, i tributi pregressi e non versati relativi al periodo di pandemia, mantenendo inalterati gli appuntamenti di giugno. È un aiuto per modo di dire, anche se il governo l'ha presentato come una boccata d'ossigeno per le attività produttive. Non tutto è oro ciò che luccica.
Il blocco tributario di 3 mesi nasconde un trabocchetto. Non tutte le imprese sono riuscite a scampare ai pagamenti di marzo. Nel momento del picco della pandemia è accaduto un «piccolo» disguido normativo che ha penalizzato quelle solitamente più puntuali nel rispettare le scadenze. Lo stop fiscale di marzo avrebbe dovuto bloccare 8,7 miliardi di imposte. Invece a causa del ritardo del decreto Cura Italia, arrivato il 17 marzo, lo Stato si è assicurato entrate per 5,2 miliardi. Chi si è affrettato a pagare è stato beffato. Sono rimasti quindi sospesi 3,5 miliardi che andranno recuperati.
Con il decreto Rilancio il governo ha fatto slittare al 16 settembre tutte le imposte e i versamenti sospesi nel trimestre di blocco delle attività, cioè le ritenute Irpef, le ritenute d'acconto, l'Iva e i contributi assistenziali e previdenziali. Per avere un'idea di quanto pesano, basta leggere la Relazione tecnica al decreto Liquidità in cui sono riportati gli importi. Le ritenute Irpef da saldare valgono 4,3 miliardi (2,53 miliardi di aprile e 1,77 miliardi di maggio); le ritenute d'acconto 929 milioni (462 milioni di aprile e 467 di maggio) e l'Iva 5,53 miliardi (2,53 miliardi di aprile e 2,59 di maggio). I contributi previdenziali e assistenziali sospesi sono pari a 8 miliardi di cui Inail 2 miliardi e Inps 6 miliardi. Si aggiungono i pagamenti degli avvisi bonari, delle cartelle esattoriali e degli accertamenti in scadenza dal 2 marzo scorso a tutto maggio. Si tratta complessivamente di oltre 22 miliardi. Il pagamento potrà avvenire in unica soluzione, il 16 settembre, o diluendolo in 4 rate di pari importo, con l'ultima in scadenza il prossimo 16 dicembre.
Non tutti però potranno usufruire dello slittamento a metà settembre. Il meccanismo è rivolto solo alle imprese che sono in uno stato veramente critico. Cioè devono trovarsi in una condizione molto particolare: con un volume d'affari fino a 2 milioni di euro per i pagamenti sospesi di marzo; con fatturato inferiore a 50 milioni e un calo dei ricavi del 33%, o con volume d'affari superiore a 50 milioni e un calo del fatturato del 50% per le tasse sospese di aprile e maggio.
Chi non ha la cassa così malmessa ha già pagato le imposte di aprile e maggio. E ora è alle prese con le scadenze di giugno. A questo appuntamento non possono sottrarsi nemmeno quelle aziende che, come abbiamo visto, erano in condizioni talmente critiche da essere state costrette a sospendere i pagamenti per tre mesi e per le quali c'è il nuovo termine del 16 settembre.
Per avere un'idea del peso impositivo che attende gli imprenditori alla vigilia dell'estate, possiamo rifarci al gettito dell'anno scorso.
Nel giugno 2019 le imprese hanno versato 4 miliardi tra saldo e acconto Irpef e 8 miliardi per l'Ires (sempre saldo e acconto). Totale 12 miliardi circa. A questi va aggiunta la prima rata dell'Imu (sospesa quest'anno per le attività ricettive), la Tasi (1 miliardo) e l'Iva (9 miliardi). Totale 29 miliardi. Questa è la scadenza più pesante.
La preoccupazione riguarda anche il calcolo dell'acconto. Come si può fare una stima del fatturato di un anno nominato da grandissima incertezza? Il fisco chiuderà un occhio solo con un margine di errore del 20%. Non sarà sanzionato chi verserà almeno l'80% dell'acconto che poi si rivelerà rispondente al reale giro d'affari dell'anno. È un calcolo da equilibrista. Tutte le previsioni indicano un peggioramento netto dell'andamento dell'economia. Il Centro studi di Confindustria ha stimato un crollo del Pil per il 2020 del 9,6%.
L'Irap merita un discorso a parte. La rata del 30 giugno è stata abolita ma solo per chi ha fatturato sotto 250 milioni di euro, anche se non hanno avuto un calo del giro d'affari. Circa 1.200 imprese invece la pagheranno perché hanno un giro d'affari superiore. Alcuni imprenditori hanno segnalato che lo sbianchettamento di tale imposta non è stato effettuato con un criterio di equità. L'abolizione è riconosciuta indistintamente a tutti coloro che hanno ricavi sotto i 250 milioni di ricavi. Quelle risorse si potevano utilizzare per aumentare il fondo perduto a favore di chi è in difficoltà.
Da questo scenario emerge che la rateizzazione in quattro step potrebbe creare un ingolfamento dei pagamenti, zavorrando i bilanci delle aziende proprio in un momento in cui la liquidità dovrebbe essere convogliata per aiutare la ripartenza. Inoltre, resta per tutti l'impegno di giugno, sia per chi è con l'acqua alla gola sia per chi naviga sul filo del rasoio. C'è il rischio che aumenti l'evasione come scelta obbligata per sopravvivere.
Se per mesi non si guadagna non è giusto pagare i tributi
Le tasse non sono state cancellate, come spesso si sente dire, sono state solo rinviate. Non si pagano ora - e ci mancherebbe altro - si pagheranno più avanti. L'unica cancellata è la rata Irap del 30 giugno (saldo 2019 e acconto 2020) soltanto per chi ha un fatturato inferiore a 250 milioni. Le grandi imprese, anche se hanno subito gravi cali di fatturato, non avranno alcuna sospensione. Motivo? Non detto o, meglio, incomprensibile. O meglio ancora comprensibilissimo: se fanno fatturati così alti, cosa vogliono questi imprenditori? Non avranno mica bisogno, avranno montagne di soldi da parte, avranno evaso l'animaccia loro, avranno soldi all'estero, nel pagliaio di casa, sotto il materasso, nel caminetto finto del salotto. Ma che modo di ragionare è? Ma è mai possibile non capire una mazza dell'economia reale fino a questo punto? Se queste imprese hanno fatturato meno sono in pericolo un gran numero dei posti di lavoro, o no? Se hanno fatturato meno avranno un problema di liquidità, o no? Se hanno fatturato meno lo Stato dovrebbe gravarle meno con i tributi, o no? No, se sono ricche, tutto questo non vale. Boh.
Dicevamo, tutte le altre tasse rimandate. Non cancellate. Le scadenze da marzo a giugno sono state rinviate a settembre: ritenute Irpef, ritenute d'acconto, Iva, contributi Inps e Inail (due istituti che si sono guadagnati medaglie d'oro di inefficienza e di pressapochismo, medaglie d'oro mondiali). Ma cosa vuol dire rimandare? Perché rimandarle e non cancellarle? Dietro c'è un ragionamento malato e, talvolta, ci sorge il dubbio che non ci sia nessun ragionamento proprio, una scarsa conoscenza dei principi della costituzione.
Ora, la Costituzione sul punto è chiarissima. All'articolo 53 dice che i cittadini devono concorrere alle spese dello Stato in ragione della loro capacità contributiva. Cioè in relazione al loro livello di reddito. In parole povere, si devono pagare le tasse nella misura che si può, non solo perché lo Stato ce lo impone. Lo Stato, di diritto e di fatto, non può imporre tasse e tributi in una misura che è insostenibile per un contribuente. Un cittadino non deve mai essere messo di fronte all'alternativa: o pago le tasse o campo. Che sia un cittadino o un'impresa non cambia nulla. Anzi, a maggior ragione, semmai, il principio è ancora più valido per un'impresa dalla quale dipendono i redditi di diversi cittadini lavoratori. O no?
Se un'impresa è stata costretta a chiudere per mesi, a causa della pandemia, che capacità contributiva avrà avuto in quei mesi? Facile risposta: zero. E quale obbligo fiscale avrà maturato? Risposta ancora più facile: nessuno. Non è che a settembre, anche se riprendesse la sua attività e tale attività andasse benissimo, maturerà una capacità contributiva per i mesi nei quali è stata chiusa. Queste cose l'avvocato del popolo - come lui stesso si definì - Giuseppe Conte dovrebbe saperle. È vero che lui è professore di diritto privato, ma qualche nozione di diritto tributario, scienza delle finanze nonché di diritto costituzionale le dovrà pur avere. Le comunichi al suo ministro dell'Economia, che si occupa anche di fisco.
Non era il caso, invece di disperdere in mille rivoli i soldi della manovra, comprese le biciclette e i monopattini, concentrarsi su tasse e contributi a fondo perduto universali? E le scadenze del 16 giugno: Ires, Imu, Tasi, Tobin tax, imposte dirette relative alla dichiarazione del 2020? A oggi son lì e, vista la parziale riapertura, non vorremmo che rimanessero lì immutate. Se non hanno tolto di mezzo quelle relative ai peggiori mesi della crisi, figuratevi queste.
Il fatto che non è digeribile è il seguente: quando è lo Stato a rivendicare i suoi diritti fiscali, il dovere fiscale dei cittadini è fatto rispettare con una durezza fondamentalista, indipendentemente da tutto e da tutti. Quando in gioco sono i diritti tributari dei cittadini, allora si ragiona come se fossero diritti di serie B, inferiori, a disposizione del potere pubblico. Il virus delle tasse, in questo Paese, è il più resistente di tutti.
«Sconti sulle imposte e scadenze più lunghe»
«Pensate a un'impresa che dopo essere stata ferma per tre mesi stenta a ripartire, ha il fatturato azzerato e si trova a dover affrontare l'appuntamento fiscale di giugno. È vero che le tasse sospese da marzo a maggio sono state rinviate a settembre, ma non è che di qui a qualche mese la situazione migliorerà tanto. E poi comunque lo scoglio di giugno è un macigno. Chi ha un po' di liquidità vorrebbe metterla in azienda per facilitare il riavvio, invece deve travasarla all'Agenzia delle entrate». Silvia Bolla, presidente della Piccola impresa di Confindustria Venezia, è una mitragliatrice.
Il governo ha concesso alle imprese in difficoltà di pagare gli arretrati dei 3 mesi di pandemia il 16 settembre, o al massimo entro dicembre. Ma dalle scadenze di giugno non si scampa.
«Non so se il governo si rende conto che anche chi è riuscito a sopravvivere in questi mesi di lockdown e ha ancora fondi da parte, se li versa al fisco invece di metterli in azienda, rischia di chiudere. Non si vuole capire che ora ci sono i segnali di crisi, ma a ottobre la recessione esploderà. Togliere alle imprese anche le poche risorse che sono riuscite a conservare, significa condannarle a morte. Dopo la crisi del 2008 abbiamo avuto il numero più alto di suicidi in Veneto, non vogliamo ripetere questa tragica esperienza».
Quale è la soluzione?
«A me non piace la parola condono, non mi è mai piaciuta. È il momento però di una pace fiscale».
Pace fiscale ovvero saltare le scadenze di giugno?
«Significa scontare una parte delle imposte da pagare il prossimo mese e rateizzare il resto con scadenze lunghe. Chiediamo al governo di chiamarci a un tavolo per andare in questa direzione. Ho inviato ai miei associati un questionario in cui chiedo la loro opinione sul fisco: tutti mi hanno detto che vorrebbero tirare il fiato con un anno di tregua. È assurdo poi che un imprenditore rischi di essere sanzionato se non riesce a prevedere il fatturato di quest'anno che serve per pagare l'acconto delle imposte. In questa situazione, come faccio a stimare quale sarà il mio giro d'affari? Tante aziende non hanno ancora riaperto, il comparto del turismo sarà bloccato chissà per quanto tempo ancora. Io ho un'azienda di pulizie, ho riaperto ma sto ferma perché lavoro soprattutto con gli alberghi. Tanti imprenditori sono nella mia situazione. È una riapertura per modo di dire».
Dicono che un simile taglio dei tributi non sia compatibile con il bilancio dello Stato.
«Qui si tratta di decidere se garantire un futuro a tante imprese rinunciando a una parte del gettito, o destinare alla morte tanta parte del tessuto produttivo italiano. E comunque se non si riparte, gli imprenditori non potranno pagare le tasse future. Non parlo di evasione, ma di rinvio dei pagamenti. Non è preferibile, per lo Stato, avere meno soldi ma sicuri, che ancora meno e incerti? Quando le aziende che hanno zero liquidità si ritrovano a dover pagare cifre importanti al fisco, saltano. Se un'azienda chiude è un problema sociale, s'impoverisce il territorio, e lo Stato non ha più le risorse che quell'azienda prima gli garantiva. Il direttore dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha parlato di un'alta evasione e di crediti inesigibili per il 40%. Se si continuano a strizzare i contribuenti temo che questa percentuale sia destinata a crescere. Meno tasse e più comprensibili: i nostri commercialisti stanno studiando i decreti attuativi per tradurli in italiano. Ci sono cavilli incredibili».
Vuol dire che il decreto Rilancio non offre certezze?
«Proprio così. Sempre per il tema fiscale, non si sa ancora se gli avvisi bonari che scadono a maggio e giugno saranno posticipati. È sempre un correre dietro ai provvedimenti che escono l'ultimo giorno utile. E poi ci saremmo aspettati un disboscamento della burocrazia, altro costo per le imprese».
Faccia qualche esempio di mala burocrazia anche nella riapertura.
«Un associato mi ha telefonato per riferire un fatto bizzarro. Aveva partecipato a una gara telematica e l'aveva vinta. Pensava così che i tempi si sarebbero accorciati, invece sbucano le marche da bollo da consegnare di persona. Un processo veloce che si incaglia nelle marche da bollo. In banca il modulo per richiedere il credito con garanzia dello Stato è cambiato 5 volte. E poi c'è l'ecobonus con credito d'imposta al 110%, che rischia di essere un nodo scorsoio per le imprese».
Ma come: il bonus per i lavori di edilizia non dovrebbe favorire il settore e rimettere in moto i cantieri?
«Dicono che così si attiveranno lavori di miglioramento ed efficientamento energetico degli immobili a costo zero. Sono felice se ci sarà un risparmio energetico importante, però il meccanismo del credito d'imposta presenta un trabocchetto per le aziende del settore».
Che cosa non va nell'ecobonus?
«Innanzitutto, non sono ancora arrivati i decreti attuativi. Chi intende avviare i lavori è bloccato. Se saranno pubblicati entro il 19 giugno, come sembra probabile, vuol dire che i cantieri prima di luglio non aprono. Ma il problema maggiore è un altro. I privati tenderanno a cedere il credito d'imposta alle imprese. Ma queste come faranno a sobbarcarsi il credito ceduto? Questo meccanismo si può fare per un paio di clienti ma non può diventare sistematico, altrimenti l'azienda se porta tutto in detrazione non ha liquidità per pagare i fornitori. Dovrebbero intervenire anche le banche ma su questo fronte non sappiamo ancora nulla. L'incertezza è totale».
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Tolta un po' di Irap, ma rimane tutto il resto: come sopravvivere al fisco dopo l'epidemiaLa Costituzione è chiara: il gettito dev'essere proporzionale al reddito. E se l'incasso è zero, all'erario non si versa nulla. Invece tra qualche giorno si abbatterà una mazzata.Il presidente delle piccole imprese di Venezia Silvia Bolla: non bisogna togliere ancora soldi alle aziende che riapronoLo speciale contiene tre articoliMeglio non farsi illusioni, la stangata fiscale ci sarà, eccome. Quello tra giugno e settembre sarà un periodo di fuoco per le imprese: dovranno versare al fisco 50 miliardi. Stressate da tre mesi di mancato fatturato, dall'assenza di liquidità, dai litigi con le banche per l'accesso al credito, da una riapertura con prospettive incerte, l'appuntamento con il fisco sarà un incubo. Il governo ha parzialmente cancellato la rata Irap e fatto slittare al 16 settembre il pagamento delle imposte tra marzo e maggio, ma è come dare un'aspirina a un malato in coma. La pandemia che regredisce tra le persone ora fa strage di imprese. Intacca i bilanci, soffocati da una domanda che stenta a ripartire e da ordinativi ridotti al lumicino. La terapia d'emergenza con i pochi stanziamenti a fondo perduto, l'ulteriore indebitamento determinato dai crediti garantiti dallo Stato e lo spostamento del pagamento delle imposte sono palliativi. Sulla testa delle imprese grava una scure da 50 miliardi di tasse che dovranno essere pagate tra giugno e settembre con una possibile coda a metà dicembre per chi decide di rateizzare. Non c'è scampo. Così le aziende, invece di concentrarsi sulla ripresa e impiegare le risorse a disposizione per ottimizzare la produzione, dovranno svuotarsi le tasche per le imposte di inizio estate. Questo vale anche per le attività in grande difficoltà.I tributi previsti tra marzo e maggio, nei mesi di blocco totale di gran parte delle attività produttive, erano stati spostati a giugno. Si tratta di circa 20 miliardi. Tra qualche giorno, quindi, le imprese dovrebbero saldare il conto con l'Agenzia delle entrate, sommando le tasse sospese a quelle previste, di norma, per questo mese. Il governo però ha deciso di far slittare ancora, al 16 settembre, i tributi pregressi e non versati relativi al periodo di pandemia, mantenendo inalterati gli appuntamenti di giugno. È un aiuto per modo di dire, anche se il governo l'ha presentato come una boccata d'ossigeno per le attività produttive. Non tutto è oro ciò che luccica.Il blocco tributario di 3 mesi nasconde un trabocchetto. Non tutte le imprese sono riuscite a scampare ai pagamenti di marzo. Nel momento del picco della pandemia è accaduto un «piccolo» disguido normativo che ha penalizzato quelle solitamente più puntuali nel rispettare le scadenze. Lo stop fiscale di marzo avrebbe dovuto bloccare 8,7 miliardi di imposte. Invece a causa del ritardo del decreto Cura Italia, arrivato il 17 marzo, lo Stato si è assicurato entrate per 5,2 miliardi. Chi si è affrettato a pagare è stato beffato. Sono rimasti quindi sospesi 3,5 miliardi che andranno recuperati.Con il decreto Rilancio il governo ha fatto slittare al 16 settembre tutte le imposte e i versamenti sospesi nel trimestre di blocco delle attività, cioè le ritenute Irpef, le ritenute d'acconto, l'Iva e i contributi assistenziali e previdenziali. Per avere un'idea di quanto pesano, basta leggere la Relazione tecnica al decreto Liquidità in cui sono riportati gli importi. Le ritenute Irpef da saldare valgono 4,3 miliardi (2,53 miliardi di aprile e 1,77 miliardi di maggio); le ritenute d'acconto 929 milioni (462 milioni di aprile e 467 di maggio) e l'Iva 5,53 miliardi (2,53 miliardi di aprile e 2,59 di maggio). I contributi previdenziali e assistenziali sospesi sono pari a 8 miliardi di cui Inail 2 miliardi e Inps 6 miliardi. Si aggiungono i pagamenti degli avvisi bonari, delle cartelle esattoriali e degli accertamenti in scadenza dal 2 marzo scorso a tutto maggio. Si tratta complessivamente di oltre 22 miliardi. Il pagamento potrà avvenire in unica soluzione, il 16 settembre, o diluendolo in 4 rate di pari importo, con l'ultima in scadenza il prossimo 16 dicembre. Non tutti però potranno usufruire dello slittamento a metà settembre. Il meccanismo è rivolto solo alle imprese che sono in uno stato veramente critico. Cioè devono trovarsi in una condizione molto particolare: con un volume d'affari fino a 2 milioni di euro per i pagamenti sospesi di marzo; con fatturato inferiore a 50 milioni e un calo dei ricavi del 33%, o con volume d'affari superiore a 50 milioni e un calo del fatturato del 50% per le tasse sospese di aprile e maggio.Chi non ha la cassa così malmessa ha già pagato le imposte di aprile e maggio. E ora è alle prese con le scadenze di giugno. A questo appuntamento non possono sottrarsi nemmeno quelle aziende che, come abbiamo visto, erano in condizioni talmente critiche da essere state costrette a sospendere i pagamenti per tre mesi e per le quali c'è il nuovo termine del 16 settembre.Per avere un'idea del peso impositivo che attende gli imprenditori alla vigilia dell'estate, possiamo rifarci al gettito dell'anno scorso. Nel giugno 2019 le imprese hanno versato 4 miliardi tra saldo e acconto Irpef e 8 miliardi per l'Ires (sempre saldo e acconto). Totale 12 miliardi circa. A questi va aggiunta la prima rata dell'Imu (sospesa quest'anno per le attività ricettive), la Tasi (1 miliardo) e l'Iva (9 miliardi). Totale 29 miliardi. Questa è la scadenza più pesante. La preoccupazione riguarda anche il calcolo dell'acconto. Come si può fare una stima del fatturato di un anno nominato da grandissima incertezza? Il fisco chiuderà un occhio solo con un margine di errore del 20%. Non sarà sanzionato chi verserà almeno l'80% dell'acconto che poi si rivelerà rispondente al reale giro d'affari dell'anno. È un calcolo da equilibrista. Tutte le previsioni indicano un peggioramento netto dell'andamento dell'economia. Il Centro studi di Confindustria ha stimato un crollo del Pil per il 2020 del 9,6%.L'Irap merita un discorso a parte. La rata del 30 giugno è stata abolita ma solo per chi ha fatturato sotto 250 milioni di euro, anche se non hanno avuto un calo del giro d'affari. Circa 1.200 imprese invece la pagheranno perché hanno un giro d'affari superiore. Alcuni imprenditori hanno segnalato che lo sbianchettamento di tale imposta non è stato effettuato con un criterio di equità. L'abolizione è riconosciuta indistintamente a tutti coloro che hanno ricavi sotto i 250 milioni di ricavi. Quelle risorse si potevano utilizzare per aumentare il fondo perduto a favore di chi è in difficoltà.Da questo scenario emerge che la rateizzazione in quattro step potrebbe creare un ingolfamento dei pagamenti, zavorrando i bilanci delle aziende proprio in un momento in cui la liquidità dovrebbe essere convogliata per aiutare la ripartenza. Inoltre, resta per tutti l'impegno di giugno, sia per chi è con l'acqua alla gola sia per chi naviga sul filo del rasoio. 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O meglio ancora comprensibilissimo: se fanno fatturati così alti, cosa vogliono questi imprenditori? Non avranno mica bisogno, avranno montagne di soldi da parte, avranno evaso l'animaccia loro, avranno soldi all'estero, nel pagliaio di casa, sotto il materasso, nel caminetto finto del salotto. Ma che modo di ragionare è? Ma è mai possibile non capire una mazza dell'economia reale fino a questo punto? Se queste imprese hanno fatturato meno sono in pericolo un gran numero dei posti di lavoro, o no? Se hanno fatturato meno avranno un problema di liquidità, o no? Se hanno fatturato meno lo Stato dovrebbe gravarle meno con i tributi, o no? No, se sono ricche, tutto questo non vale. Boh. Dicevamo, tutte le altre tasse rimandate. Non cancellate. Le scadenze da marzo a giugno sono state rinviate a settembre: ritenute Irpef, ritenute d'acconto, Iva, contributi Inps e Inail (due istituti che si sono guadagnati medaglie d'oro di inefficienza e di pressapochismo, medaglie d'oro mondiali). Ma cosa vuol dire rimandare? Perché rimandarle e non cancellarle? Dietro c'è un ragionamento malato e, talvolta, ci sorge il dubbio che non ci sia nessun ragionamento proprio, una scarsa conoscenza dei principi della costituzione. Ora, la Costituzione sul punto è chiarissima. All'articolo 53 dice che i cittadini devono concorrere alle spese dello Stato in ragione della loro capacità contributiva. Cioè in relazione al loro livello di reddito. In parole povere, si devono pagare le tasse nella misura che si può, non solo perché lo Stato ce lo impone. Lo Stato, di diritto e di fatto, non può imporre tasse e tributi in una misura che è insostenibile per un contribuente. Un cittadino non deve mai essere messo di fronte all'alternativa: o pago le tasse o campo. Che sia un cittadino o un'impresa non cambia nulla. Anzi, a maggior ragione, semmai, il principio è ancora più valido per un'impresa dalla quale dipendono i redditi di diversi cittadini lavoratori. O no? Se un'impresa è stata costretta a chiudere per mesi, a causa della pandemia, che capacità contributiva avrà avuto in quei mesi? Facile risposta: zero. E quale obbligo fiscale avrà maturato? Risposta ancora più facile: nessuno. Non è che a settembre, anche se riprendesse la sua attività e tale attività andasse benissimo, maturerà una capacità contributiva per i mesi nei quali è stata chiusa. Queste cose l'avvocato del popolo - come lui stesso si definì - Giuseppe Conte dovrebbe saperle. È vero che lui è professore di diritto privato, ma qualche nozione di diritto tributario, scienza delle finanze nonché di diritto costituzionale le dovrà pur avere. Le comunichi al suo ministro dell'Economia, che si occupa anche di fisco. Non era il caso, invece di disperdere in mille rivoli i soldi della manovra, comprese le biciclette e i monopattini, concentrarsi su tasse e contributi a fondo perduto universali? E le scadenze del 16 giugno: Ires, Imu, Tasi, Tobin tax, imposte dirette relative alla dichiarazione del 2020? A oggi son lì e, vista la parziale riapertura, non vorremmo che rimanessero lì immutate. Se non hanno tolto di mezzo quelle relative ai peggiori mesi della crisi, figuratevi queste. Il fatto che non è digeribile è il seguente: quando è lo Stato a rivendicare i suoi diritti fiscali, il dovere fiscale dei cittadini è fatto rispettare con una durezza fondamentalista, indipendentemente da tutto e da tutti. Quando in gioco sono i diritti tributari dei cittadini, allora si ragiona come se fossero diritti di serie B, inferiori, a disposizione del potere pubblico. 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Silvia Bolla, presidente della Piccola impresa di Confindustria Venezia, è una mitragliatrice. Il governo ha concesso alle imprese in difficoltà di pagare gli arretrati dei 3 mesi di pandemia il 16 settembre, o al massimo entro dicembre. Ma dalle scadenze di giugno non si scampa. «Non so se il governo si rende conto che anche chi è riuscito a sopravvivere in questi mesi di lockdown e ha ancora fondi da parte, se li versa al fisco invece di metterli in azienda, rischia di chiudere. Non si vuole capire che ora ci sono i segnali di crisi, ma a ottobre la recessione esploderà. Togliere alle imprese anche le poche risorse che sono riuscite a conservare, significa condannarle a morte. Dopo la crisi del 2008 abbiamo avuto il numero più alto di suicidi in Veneto, non vogliamo ripetere questa tragica esperienza». Quale è la soluzione? «A me non piace la parola condono, non mi è mai piaciuta. È il momento però di una pace fiscale». Pace fiscale ovvero saltare le scadenze di giugno? «Significa scontare una parte delle imposte da pagare il prossimo mese e rateizzare il resto con scadenze lunghe. Chiediamo al governo di chiamarci a un tavolo per andare in questa direzione. Ho inviato ai miei associati un questionario in cui chiedo la loro opinione sul fisco: tutti mi hanno detto che vorrebbero tirare il fiato con un anno di tregua. È assurdo poi che un imprenditore rischi di essere sanzionato se non riesce a prevedere il fatturato di quest'anno che serve per pagare l'acconto delle imposte. In questa situazione, come faccio a stimare quale sarà il mio giro d'affari? Tante aziende non hanno ancora riaperto, il comparto del turismo sarà bloccato chissà per quanto tempo ancora. Io ho un'azienda di pulizie, ho riaperto ma sto ferma perché lavoro soprattutto con gli alberghi. Tanti imprenditori sono nella mia situazione. È una riapertura per modo di dire». Dicono che un simile taglio dei tributi non sia compatibile con il bilancio dello Stato. «Qui si tratta di decidere se garantire un futuro a tante imprese rinunciando a una parte del gettito, o destinare alla morte tanta parte del tessuto produttivo italiano. E comunque se non si riparte, gli imprenditori non potranno pagare le tasse future. Non parlo di evasione, ma di rinvio dei pagamenti. Non è preferibile, per lo Stato, avere meno soldi ma sicuri, che ancora meno e incerti? Quando le aziende che hanno zero liquidità si ritrovano a dover pagare cifre importanti al fisco, saltano. Se un'azienda chiude è un problema sociale, s'impoverisce il territorio, e lo Stato non ha più le risorse che quell'azienda prima gli garantiva. Il direttore dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, ha parlato di un'alta evasione e di crediti inesigibili per il 40%. Se si continuano a strizzare i contribuenti temo che questa percentuale sia destinata a crescere. Meno tasse e più comprensibili: i nostri commercialisti stanno studiando i decreti attuativi per tradurli in italiano. Ci sono cavilli incredibili». Vuol dire che il decreto Rilancio non offre certezze? «Proprio così. Sempre per il tema fiscale, non si sa ancora se gli avvisi bonari che scadono a maggio e giugno saranno posticipati. È sempre un correre dietro ai provvedimenti che escono l'ultimo giorno utile. E poi ci saremmo aspettati un disboscamento della burocrazia, altro costo per le imprese». Faccia qualche esempio di mala burocrazia anche nella riapertura. «Un associato mi ha telefonato per riferire un fatto bizzarro. Aveva partecipato a una gara telematica e l'aveva vinta. Pensava così che i tempi si sarebbero accorciati, invece sbucano le marche da bollo da consegnare di persona. Un processo veloce che si incaglia nelle marche da bollo. In banca il modulo per richiedere il credito con garanzia dello Stato è cambiato 5 volte. E poi c'è l'ecobonus con credito d'imposta al 110%, che rischia di essere un nodo scorsoio per le imprese». Ma come: il bonus per i lavori di edilizia non dovrebbe favorire il settore e rimettere in moto i cantieri? «Dicono che così si attiveranno lavori di miglioramento ed efficientamento energetico degli immobili a costo zero. Sono felice se ci sarà un risparmio energetico importante, però il meccanismo del credito d'imposta presenta un trabocchetto per le aziende del settore». Che cosa non va nell'ecobonus? «Innanzitutto, non sono ancora arrivati i decreti attuativi. Chi intende avviare i lavori è bloccato. Se saranno pubblicati entro il 19 giugno, come sembra probabile, vuol dire che i cantieri prima di luglio non aprono. Ma il problema maggiore è un altro. I privati tenderanno a cedere il credito d'imposta alle imprese. Ma queste come faranno a sobbarcarsi il credito ceduto? Questo meccanismo si può fare per un paio di clienti ma non può diventare sistematico, altrimenti l'azienda se porta tutto in detrazione non ha liquidità per pagare i fornitori. Dovrebbero intervenire anche le banche ma su questo fronte non sappiamo ancora nulla. L'incertezza è totale».
i,Hamza Abdi Barre (Getty Images)
La Somalia è intrappolata in una spirale di instabilità sempre più profonda: un’insurrezione jihadista in crescita, un apparato di sicurezza inefficiente, una leadership politica divisa e la competizione tra potenze vicine che alimenta rivalità interne. Il controllo effettivo del governo federale si riduce ormai alla capitale e a poche località satelliti, una sorta di isola amministrativa circondata da gruppi armati e clan in competizione. L’esercito nazionale, logorato, frammentato e privo di una catena di comando solida, non è in grado di garantire la sicurezza nemmeno sulle principali rotte commerciali che costeggiano il Paese. In queste condizioni, il collasso dell’autorità centrale e la caduta di Mogadiscio nelle mani di gruppi ostili rappresentano scenari sempre meno remoti, con ripercussioni dirette sulla navigazione internazionale e sulla sicurezza regionale.
La pirateria somala, un tempo contenuta da pattugliamenti congiunti e operazioni navali multilaterali, è oggi alimentata anche dal radicamento di milizie jihadiste che controllano vaste aree dell’entroterra. Questi gruppi, dopo anni di scontri contro il governo federale e di brevi avanzate respinte con l’aiuto delle forze speciali straniere, hanno recuperato terreno e consolidato le proprie basi logistiche proprio lungo i corridoi costieri. Da qui hanno intensificato sequestri, assalti e sabotaggi, colpendo infrastrutture critiche e perfino centri governativi di intelligence. L’attacco del 2025 contro una sede dei servizi somali, che portò alla liberazione di decine di detenuti, diede il segnale dell’audacia crescente di questi movimenti.
Le debolezze dell’apparato statale restano uno dei fattori decisivi. Nonostante due decenni di aiuti, investimenti e programmi di addestramento militare, le forze somale non riescono a condurre operazioni continuative contro reti criminali e gruppi jihadisti. Il consumo interno di risorse, la corruzione diffusa, i legami di fedeltà clanici e la dipendenza dall’Agenzia dell’Unione africana per il supporto alla sicurezza hanno sgretolato ogni tentativo di riforma. Nel frattempo, l’interferenza politica nella gestione della missione internazionale ha sfiancato i donatori, ridotto il coordinamento e lasciato presagire un imminente disimpegno. A questo si aggiungono le tensioni istituzionali: modifiche costituzionali controverse, una mappa federale contestata e tentativi percepiti come manovre per prolungare la permanenza al potere della leadership attuale hanno spaccato la classe politica e paralizzato qualsiasi risposta comune alla minaccia emergente. Mentre i vertici si dividono, le bande armate osservano, consolidano il controllo del territorio e preparano nuovi colpi contro la navigazione e le città costiere. Sul piano internazionale cresce il numero di governi che, temendo un collasso definitivo del sistema federale, sondano discretamente la possibilità di una trattativa con i gruppi armati. Ma l’ipotesi di una Mogadiscio conquistata da milizie che già controllano ampie aree della costa solleva timori concreti: un ritorno alla pirateria sistemica, attacchi oltre confine e una spirale di conflitti locali che coinvolgerebbe l’intero Corno d’Africa.
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Il presidente eletto del Cile José Antonio Kast e sua moglie Maria Pia Adriasola (Ansa)
Un elemento significativo di queste elezioni presidenziali è stata l’elevata affluenza alle urne, che si è rivelata in aumento del 38% rispetto al 2021. Quelle di ieri sono infatti state le prime elezioni tenute dopo che, nel 2022, è stato introdotto il voto obbligatorio. La vittoria di Kast ha fatto da contraltare alla crisi della sinistra cilena. Il presidente uscente, Gabriel Boric, aveva vinto quattro anni fa, facendo leva soprattutto sull’impopolarità dell’amministrazione di centrodestra, guidata da Sebastián Piñera. Tuttavia, a partire dal 2023, gli indici di gradimento di Boric sono iniziati a crollare. E questo ha danneggiato senza dubbio la Jara, che è stata ministro del Lavoro fino allo scorso aprile. Certo, Kast si accinge a governare a fronte di un Congresso diviso: il che potrebbe rappresentare un problema per alcune delle sue proposte più incisive. Resta tuttavia il fatto che la sua vittoria ha avuto dei numeri assai significativi.
«La vittoria di Kast in Cile segue una serie di elezioni in America Latina che negli ultimi anni hanno spostato la regione verso destra, tra cui quelle in Argentina, Ecuador, Costa Rica ed El Salvador», ha riferito la Bbc. Lo spostamento a destra dell’America Latina è una buona notizia per la Casa Bianca. Ricordiamo che, alcuni giorni fa, Washington a pubblicato la sua nuova strategia di sicurezza nazionale: un documento alla cui base si registra il rilancio della Dottrina Monroe. Per Trump, l’obiettivo, da questo punto di vista, è duplice. Innanzitutto, punta a contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. In secondo luogo, mira ad arginare l’influenza geopolitica della Cina sull’Emisfero occidentale. Vale a tal proposito la pena di ricordare che Boric, negli ultimi anni, ha notevolmente avvicinato Santiago a Pechino. Una linea che, di certo, a Washington non è stata apprezzata.
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Getty Images
Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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