
«Rispettosamente, dissento». È la formula con cui Nicolò Zanon, ex giudice della Consulta, segnala la propria opposizione ad alcune sentenze che - scopriamo così - non erano state emesse all’unanimità. Il professore della Statale di Milano lo racconta nel suo ultimo libro, un volume edito da Zanichelli. In «dieci casi», Zanon illustra Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale. Titolo tecnico, ma non neutrale, men che meno innocuo. Perché sulla possibilità di rendere pubbliche le posizioni discordanti nelle Corti si dibatte da tempo.
Negli Stati Uniti non ci sono misteri. La Corte tedesca di Karlsruhe permette di allegare alle sentenze un’opinione di minoranza. In Italia, invece, la Consulta pretende di esprimersi a una sola voce, sigillando nel palazzo le discordie interne. Una prassi che ha lasciato perplessi fior fior di studiosi, a partire da Sabino Cassese. Avere in mano la prova che quell’organismo non è un monolite può fare la differenza. Può avere una grande rilevanza politica.
Lo si capisce bene, leggendo la testimonianza di Zanon a proposito di due importanti e controverse decisioni, prese durante l’era Covid. Si tratta di due sentenze del 2023: la prima riguarda il ricorso di una psicologa non vaccinata, alla quale era stata negata la possibilità di lavorare in smart working in virtù della legge sulle iniezioni obbligatorie; la seconda, un chimico al quale era stato interdetto l’accesso al laboratorio antinquinamento che dirigeva perché la sua attività era stata equiparata a quella dei sanitari.
La causa della dottoressa finì con una dichiarazione di inammissibilità: la competenza spettava al tribunale ordinario e non a quello amministrativo, che si era rivolto alla Consulta.
Ora, nel diritto la forma è sostanza. Zanon, però, non svicola. Anzi, bacchetta la Corte, per aver dato l’impressione che non volesse «censurare nessuna scelta legislativa assunta in periodo pandemico: come se una decisione di illegittimità costituzionale, pur mirata e ampiamente argomentabile […], potesse scalfire la compattezza e la determinazione nella lotta al virus». La tesi dell’ex giudice è chiara: siccome era assurdo impedire di lavorare a una professionista la quale, rimanendo in casa, non avrebbe potuto infettare nessuno, difficilmente la Consulta sarebbe stata in grado di salvare la norma del governo Draghi. Giunse all’uopo il soccorso del difetto di giurisdizione.
Una gabola? Secondo Zanon, durissimo, quella della Corte è stata una «rinuncia programmatica». Tirarsi indietro, per puntellare l’azione del governo. Perché? Per l’investimento culturale sull’allora premier, un cilindro estratto dal cappello di Sergio Mattarella? O per il fatto che la paternità del decreto sul vaccino coatto fosse stata attribuita, proprio da Mario Draghi, a Marta Cartabia, presidente emerito della Consulta stessa? Qui le analisi politiche collimano, inevitabilmente, con le dietrologie. La storia del chimico è più articolata. In sintesi, le toghe ritennero che sarebbe stato troppo oneroso per il legislatore, vista la situazione critica, mettersi a distinguere circostanza per circostanza, individuo per individuo, a chi andasse imposto il vaccino e a chi no. Zanon non ci sta: «Sul piano metodologico», osserva, «trovo singolare che la inveterata tendenza a ragionare in concreto, con attenzione al caso - tendenza tipica della giurisprudenza costituzionale di questi ultimi anni, che condanna gli automatismi e invoca la discrezionalità del giudice (o dell’amministrazione) - proprio in questa vicenda lasci il passo a giustificazioni generose». Di nuovo, sorge il sospetto che la Corte abbia trovato la maniera di planare sopra un provvedimento dell’esecutivo, che era per lo meno discutibile. Chiudere gli occhi (con la psicologa) o dirigerli altrove (col chimico), pur di non guardare dentro l’abisso dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità della norma.
Le rimostranze di Zanon aprono, a uno sguardo attento, anche un altro tema. Il vero tema, se vogliamo: quello della legittimità di uno stato d’emergenza. La Consulta, infatti, stabilì che fosse lecito chiedere al chimico di sottoporsi alla vaccinazione, per ridurre la probabilità che si ammalasse e che ciò compromettesse il funzionamento del servizio sanitario. Del quale, beninteso, quell’uomo non faceva parte. Ma tant’è. Al professore non sfuggono le implicazioni: «È come dire che l’articolo 32 della Costituzione, quando afferma che l’obbligo di trattamento sanitario può essere imposto a tutela della salute collettiva, autorizza a vaccinare obbligatoriamente non già per non contagiare i pazienti, ma per non far ammalare categorie che potrebbero servire all’efficienza del sistema sanitario. È un’affermazione impegnativa e pericolosa, forse sfuggita dalla penna». E lo è perché sembra individuare il bene da tutelare non più nella persona e nella sua dignità, bensì nella sua funzione all’interno dello Stato. Il tutto, in nome di un’emergenza.
Non occorre scomodare la storia del Novecento per comprendere che non siamo esattamente dinanzi a una posizione liberale. E per intuire dove si andrebbe a parare, seguendo una logica «che non ha potenzialmente limiti e che fuoriesce dallo stretto perimetro designato» dall’articolo 32 della Carta: s’introdurrebbe, tramite sentenza, una fattispecie di stato d’eccezione che la Costituzione non prevede.
Gli esempi presentati nel libro ne sono l’ennesima testimonianza: la pandemia è stata un momento rivelatore. Prima che del nostro stato di salute, di quello delle nostre democrazie. Qualcuno ha rinfacciato a Zanon di aver «infranto il segreto» della Consulta. Se i segreti sono questi, non è un male che si cominci a parlarne.






