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2019-07-28
Due ragazzini americani hanno ucciso il carabiniere per un grammo di cocaina
Ansa
Il coltellaccio lordo di sangue nascosto dietro uno dei pannelli del soffitto. Gli abiti indossati durante l'omicidio nascosti in una sacca, nel bagno. E fuori dall'hotel Meridien Visconti, occultato in una fioriera, lo zainetto costato la vita al vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Così si è chiuso il cerchio.
La Procura di Roma non ha dubbi che a uccidere il carabiniere di Somma Vesuviana - impegnato nel tentativo di sventare un'estorsione col trucco del «cavallo di ritorno» - siano stati due californiani in vacanza a Roma. Giovani sbandati, nonostante le fortune finanziarie familiari, che giovedì sera hanno lasciato la loro lussuosa camera da 250 euro a notte per andare in cerca di emozioni forti. I due si chiamano Elder Finnegan Lee di 19 anni e Gabriel Christian Natale Hjorth di 18 anni. Ad affondare per otto volte la lama nel corpo del militare sarebbe stato il primo, ma l'accusa di concorso in omicidio e concorso in estorsione riguarda anche l'amico. La presenza di Natale Hjorth e la sua contrapposizione al carabiniere Andrea Varriale, che insieme a Cerciello Rega avrebbe dovuto fare luce su uno strano furto accaduto poco prima, «ha fornito un decisivo contributo alla causazione dell'evento morte quantomeno perché ha bloccato l'intervento di Varriale in aiuto del suo compagno», scrivono i pm nel decreto di fermo. La dinamica, anche grazie alle testimonianze del portiere e del facchino del Meridien, ai tabulati telefonici e alle immagini dei sistemi di videosorveglianza, è stata ricostruita. È notte fonda quando i due amici, alterati dall'alcol, rubano un borsone a Sergio Brugiatelli per vendicarsi della compravendita di una dose di cocaina rivelatasi, invece, semplice aspirina in polvere. Non è ancora chiaro se Brugiatelli, che anziché trovarsi ai domiciliari era tranquillamente a spasso per Trastevere, si sia limitato a indicare uno spacciatore ai ragazzi o se abbia ceduto egli stesso la sostanza, ma è il prosieguo della storia a creare le condizioni per la tragedia. Brugiatelli si rivolge ai carabinieri e denuncia il furto. In quegli stessi attimi, si crea un contatto tra Natale Hjorth, che parla e capisce l'italiano, e il proprietario dello zainetto. S'intavola una trattativa, l'americano chiede a Brugiatelli il riscatto per la restituzione del borsone: 100 euro e un grammo di cocaina. A questo punto entrano in gioco i carabinieri: viene predisposto un servizio di appostamento. Cerciello Rega e il suo collega Andrea Varriale dovranno avvicinare i due criminali, in borghese, e arrestarli. Qualcosa va storto. Scrivono i magistrati: il diciottenne di San Francisco colpisce «più volte la vittima al tronco in zona vitale», desistendo «dall'azione solo quando ha percepito di aver sopraffatto il suo antagonista». Quando è stato raggiunto da «numerosi fendenti», Cerciello ha infatti urlato e «a quel punto, sentito questo urlo, si è fermato anche Natale Hjorth», che stava fronteggiando l'altro militare dell'Arma. I due americani scappano verso l'hotel in cui alloggiano senza che altri uomini dell'Arma, che pure si trovavano in zona, riescano a intervenire. Interrogati dal gip Chiara Gallo, che si è riservata sulla convalida del fermo, i due americani si sono avvalsi della facoltà di non rispondere dopo aver comunque già confessato, la notte precedente, ai pm di Piazzale Clodio. In quell'occasione, il killer ha tentato di giustificarsi affermando di non aver capito che si trattasse di carabinieri perché non parla italiano. E per questo ha impugnato la lama. Reazione che i pm hanno definito «del tutto spropositata» anche perché nessuno dei due carabinieri «neppure ha tentato di estrarre un'arma». I due avevano un coltello con loro perché avevano paura di essere nuovamente «ingannati e di ritrovarsi davanti a soggetti pericolosi», magari amici di Brugiatelli. Nonostante le foto che li mostrano con lo sguardo assente, i due hanno mantenuto il sangue freddo nella notte tant'è che - si legge nel decreto di fermo - avevano i bagagli pronti e stavano per lasciare l'hotel. Si è poi scoperto che Elder Lee fa uso di Xanax, uno psicofarmaco.
Ieri è stata eseguita l'autopsia sul cadavere del povero Cerciello Rega da parte del professor Antonio Grande, che ha stabilito che la causa della morte è stata una forte emorragia interna. Presenti anche degli uomini del Nucleo investigativo dei carabinieri e gli avvocati della famiglia della vittima. «Stiamo male, siamo distrutti. Adesso chiediamo solo rispetto», hanno dichiarato gli amici napoletani che si sono fermati all'esterno dell'istituto di medicina legale del Verano. «Con Mario ci conoscevamo da una vita, siamo vicini di casa», racconta Antonio, 37 anni, un impiegato arrivato a Roma da Somma Vesuviana insieme a quattro amici del militare, «siamo cresciuti insieme, adesso bisogna stare vicini alla famiglia, alla moglie, ai genitori: lui era un punto di riferimento per tutti. Chiediamo rispetto». Antonio ricorda il grande amore che «Mario aveva per la terra del padre: il tempo libero lo passava sul trattore nei campi per curare le noci, le nocciole, la frutta e la verdura che in parte coltivano per loro, in parte vendono per rientrare delle spese. Era un ragazzo speciale, voglio dire solo questo».
Oggi, dalle 16 alle 20.30, in piazza Monti di Pietá 33 sarà allestita la camera ardente del povero vicebrigadiere. Domani, invece, i funerali con lutto cittadino proclamato dal sindaco.
Simone Di Meo
Una notte folle, che va ricostruita per intero
Di certo c'è che per sgozzare il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega è stato usato un coltello, poi ritrovato nell'albergo di lusso in cui alloggiavano i due sospettati. Per il resto la versione degli investigatori, per quanto il pubblico ministero Maria Sabina Calabretta si sia sforzata di precisare che «i carabinieri hanno compiutamente ricostruito la vicenda», lasci aperto ancora qualche interrogativo.
Davanti a un'accusa meno che granitica, le autorità americane potrebbero decidere di intervenire in modo energico. E di questioni aperte nel delitto di via Pietro Cossa, rione Prati, ce ne sono diverse. La prima: non c'è una piena confessione dei due ragazzi americani: Christian Gabriel Natale Hjorth ed Elder Finnegan Lee. Il pm, infatti, scrive nel decreto di fermo per i due americani che «pur a fronte di parziali discordanze hanno sostanzialmente ammesso gli addebiti». Che, però, non sono stati confermati davanti al gip. Finnegan Lee, il ragazzo che avrebbe usato il coltello per assassinare il militare, si è avvalso della facoltà di non rispondere. E a rendere il tutto più complicato c'è che i due si sono accusati a vicenda, rimpallandosi responsabilità e descrivendo i fatti in modo contraddittorio. Sul loro coinvolgimento gli investigatori e anche il pm non hanno dubbi, perché a provarlo, oltre al ritrovamento del coltello nella loro suite, ci sono i tabulati telefonici, lo zainetto che avevano rubato al pusher e le dichiarazioni del collega della vittima, del portiere e del facchino dell'albergo. Ci sono dettagli, però, che rendono la questione ancora non totalmente delineata. A partire dalla chiamata al 112 di Sergio Brugiatelli, l'uomo al quale sono stati rubati lo zainetto e il telefono cellulare. Cosa aveva nello smartphone di così importante da spingerlo a rischiare un'accusa di spaccio chiamando il 112? L'uomo ha raccontato ai carabinieri di essere stato contattato dai due americani che, per restituirgli tutto, gli hanno chiesto dei soldi. Della chiamata alla centrale viene dato atto nel decreto di fermo. Ma il pm non specifica se la registrazione della chiamata è stata acquisita. In più, non viene indicato se i militari della stazione Farnese, alla quale appartenevano i due carabinieri, conoscessero Brugiatelli. Né se sapessero cosa facesse, se spacciasse nel loro territorio di competenza o se fosse un loro informatore. L'informativa numero 331/1-2 del 27 luglio 2019, alla base del provvedimento di fermo, questi particolari per nulla secondari li contiene? E poi: chi ha deciso la missione? E perché i due carabinieri sono stati mandati all'appuntamento con due cittadini stranieri in borghese e disarmati? E, soprattutto, perché dopo l'accoltellamento nessuno ha inseguito i due in fuga dalla scena del crimine all'hotel che dista neanche 200 metri in linea d'aria? Si sa che al seguito dei due militari erano state inviate due pattuglie che, però, stando alle notizie di stampa, sarebbero arrivate in ritardo.
Ma anche il movente alla base dell'aggressione, se non dovesse essere suffragato da riscontri, potrebbe risultare un po' leggero. I due statunitensi all'appuntamento con il pusher si sono trovati davanti due carabinieri che si sono qualificati. Cosa ha scatenato la colluttazione?
L'ultima versione, riportata negli atti, è questa: i due americani hanno rubato lo zaino del pusher a Trastevere. Una ritorsione perché al posto della coca che volevano acquistare si erano ritrovati della semplice aspirina. E nello zaino c'era il cellulare dello spacciatore. Ma per concordare l'incontro come sono entrati davvero in contatto i due americani con il pusher, se il telefono dell'uomo era nello zainetto sottratto? È stato il pusher a richiamarli?
E perché il carabiniere di pattuglia con la vittima, Andrea Varriale, a caldo, ha riferito che gli aggressori erano nordafricani, fornendo anche un dettaglio preciso, ossia che uno dei due aveva i capelli con le meches? Anche la descrizione dell'abbigliamento non è esattamente quello ripreso dalle telecamere che hanno incastrato i due ragazzi: il militare presente pare avesse riferito che uno dei due indossasse una camicia a scacchi e che l'altro indossasse una felpa nera.
E ancora: si sa che i due americani avevano l'aereo di ritorno in partenza per ieri sera. Perché allora se ne sono tornati a dormire in camera? È a queste domande che la Procura cercherà di rispondere nelle prossime ore.
Fabio Amendolara
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I giovani, 18 e 19 anni, erano stati raggirati con droga falsa e avevano scippato il pusher per averne di vera, poi si sono imbattuti in Mario Cerciello Rega. Sono accusati di omicidio.Restano punti da chiarire: le azioni dello spacciatore, l'operazione e la mancanza di colleghi sul posto.Lo speciale contiene due articoli Il coltellaccio lordo di sangue nascosto dietro uno dei pannelli del soffitto. Gli abiti indossati durante l'omicidio nascosti in una sacca, nel bagno. E fuori dall'hotel Meridien Visconti, occultato in una fioriera, lo zainetto costato la vita al vicebrigadiere Mario Cerciello Rega. Così si è chiuso il cerchio.La Procura di Roma non ha dubbi che a uccidere il carabiniere di Somma Vesuviana - impegnato nel tentativo di sventare un'estorsione col trucco del «cavallo di ritorno» - siano stati due californiani in vacanza a Roma. Giovani sbandati, nonostante le fortune finanziarie familiari, che giovedì sera hanno lasciato la loro lussuosa camera da 250 euro a notte per andare in cerca di emozioni forti. I due si chiamano Elder Finnegan Lee di 19 anni e Gabriel Christian Natale Hjorth di 18 anni. Ad affondare per otto volte la lama nel corpo del militare sarebbe stato il primo, ma l'accusa di concorso in omicidio e concorso in estorsione riguarda anche l'amico. La presenza di Natale Hjorth e la sua contrapposizione al carabiniere Andrea Varriale, che insieme a Cerciello Rega avrebbe dovuto fare luce su uno strano furto accaduto poco prima, «ha fornito un decisivo contributo alla causazione dell'evento morte quantomeno perché ha bloccato l'intervento di Varriale in aiuto del suo compagno», scrivono i pm nel decreto di fermo. La dinamica, anche grazie alle testimonianze del portiere e del facchino del Meridien, ai tabulati telefonici e alle immagini dei sistemi di videosorveglianza, è stata ricostruita. È notte fonda quando i due amici, alterati dall'alcol, rubano un borsone a Sergio Brugiatelli per vendicarsi della compravendita di una dose di cocaina rivelatasi, invece, semplice aspirina in polvere. Non è ancora chiaro se Brugiatelli, che anziché trovarsi ai domiciliari era tranquillamente a spasso per Trastevere, si sia limitato a indicare uno spacciatore ai ragazzi o se abbia ceduto egli stesso la sostanza, ma è il prosieguo della storia a creare le condizioni per la tragedia. Brugiatelli si rivolge ai carabinieri e denuncia il furto. In quegli stessi attimi, si crea un contatto tra Natale Hjorth, che parla e capisce l'italiano, e il proprietario dello zainetto. S'intavola una trattativa, l'americano chiede a Brugiatelli il riscatto per la restituzione del borsone: 100 euro e un grammo di cocaina. A questo punto entrano in gioco i carabinieri: viene predisposto un servizio di appostamento. Cerciello Rega e il suo collega Andrea Varriale dovranno avvicinare i due criminali, in borghese, e arrestarli. Qualcosa va storto. Scrivono i magistrati: il diciottenne di San Francisco colpisce «più volte la vittima al tronco in zona vitale», desistendo «dall'azione solo quando ha percepito di aver sopraffatto il suo antagonista». Quando è stato raggiunto da «numerosi fendenti», Cerciello ha infatti urlato e «a quel punto, sentito questo urlo, si è fermato anche Natale Hjorth», che stava fronteggiando l'altro militare dell'Arma. I due americani scappano verso l'hotel in cui alloggiano senza che altri uomini dell'Arma, che pure si trovavano in zona, riescano a intervenire. Interrogati dal gip Chiara Gallo, che si è riservata sulla convalida del fermo, i due americani si sono avvalsi della facoltà di non rispondere dopo aver comunque già confessato, la notte precedente, ai pm di Piazzale Clodio. In quell'occasione, il killer ha tentato di giustificarsi affermando di non aver capito che si trattasse di carabinieri perché non parla italiano. E per questo ha impugnato la lama. Reazione che i pm hanno definito «del tutto spropositata» anche perché nessuno dei due carabinieri «neppure ha tentato di estrarre un'arma». I due avevano un coltello con loro perché avevano paura di essere nuovamente «ingannati e di ritrovarsi davanti a soggetti pericolosi», magari amici di Brugiatelli. Nonostante le foto che li mostrano con lo sguardo assente, i due hanno mantenuto il sangue freddo nella notte tant'è che - si legge nel decreto di fermo - avevano i bagagli pronti e stavano per lasciare l'hotel. Si è poi scoperto che Elder Lee fa uso di Xanax, uno psicofarmaco.Ieri è stata eseguita l'autopsia sul cadavere del povero Cerciello Rega da parte del professor Antonio Grande, che ha stabilito che la causa della morte è stata una forte emorragia interna. Presenti anche degli uomini del Nucleo investigativo dei carabinieri e gli avvocati della famiglia della vittima. «Stiamo male, siamo distrutti. Adesso chiediamo solo rispetto», hanno dichiarato gli amici napoletani che si sono fermati all'esterno dell'istituto di medicina legale del Verano. «Con Mario ci conoscevamo da una vita, siamo vicini di casa», racconta Antonio, 37 anni, un impiegato arrivato a Roma da Somma Vesuviana insieme a quattro amici del militare, «siamo cresciuti insieme, adesso bisogna stare vicini alla famiglia, alla moglie, ai genitori: lui era un punto di riferimento per tutti. Chiediamo rispetto». Antonio ricorda il grande amore che «Mario aveva per la terra del padre: il tempo libero lo passava sul trattore nei campi per curare le noci, le nocciole, la frutta e la verdura che in parte coltivano per loro, in parte vendono per rientrare delle spese. Era un ragazzo speciale, voglio dire solo questo».Oggi, dalle 16 alle 20.30, in piazza Monti di Pietá 33 sarà allestita la camera ardente del povero vicebrigadiere. Domani, invece, i funerali con lutto cittadino proclamato dal sindaco.Simone Di Meo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/due-ragazzini-americani-hanno-ucciso-il-carabiniere-per-un-grammo-di-cocaina-2639400199.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="una-notte-folle-che-va-ricostruita-per-intero" data-post-id="2639400199" data-published-at="1766736334" data-use-pagination="False"> Una notte folle, che va ricostruita per intero Di certo c'è che per sgozzare il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega è stato usato un coltello, poi ritrovato nell'albergo di lusso in cui alloggiavano i due sospettati. Per il resto la versione degli investigatori, per quanto il pubblico ministero Maria Sabina Calabretta si sia sforzata di precisare che «i carabinieri hanno compiutamente ricostruito la vicenda», lasci aperto ancora qualche interrogativo. Davanti a un'accusa meno che granitica, le autorità americane potrebbero decidere di intervenire in modo energico. E di questioni aperte nel delitto di via Pietro Cossa, rione Prati, ce ne sono diverse. La prima: non c'è una piena confessione dei due ragazzi americani: Christian Gabriel Natale Hjorth ed Elder Finnegan Lee. Il pm, infatti, scrive nel decreto di fermo per i due americani che «pur a fronte di parziali discordanze hanno sostanzialmente ammesso gli addebiti». Che, però, non sono stati confermati davanti al gip. Finnegan Lee, il ragazzo che avrebbe usato il coltello per assassinare il militare, si è avvalso della facoltà di non rispondere. E a rendere il tutto più complicato c'è che i due si sono accusati a vicenda, rimpallandosi responsabilità e descrivendo i fatti in modo contraddittorio. Sul loro coinvolgimento gli investigatori e anche il pm non hanno dubbi, perché a provarlo, oltre al ritrovamento del coltello nella loro suite, ci sono i tabulati telefonici, lo zainetto che avevano rubato al pusher e le dichiarazioni del collega della vittima, del portiere e del facchino dell'albergo. Ci sono dettagli, però, che rendono la questione ancora non totalmente delineata. A partire dalla chiamata al 112 di Sergio Brugiatelli, l'uomo al quale sono stati rubati lo zainetto e il telefono cellulare. Cosa aveva nello smartphone di così importante da spingerlo a rischiare un'accusa di spaccio chiamando il 112? L'uomo ha raccontato ai carabinieri di essere stato contattato dai due americani che, per restituirgli tutto, gli hanno chiesto dei soldi. Della chiamata alla centrale viene dato atto nel decreto di fermo. Ma il pm non specifica se la registrazione della chiamata è stata acquisita. In più, non viene indicato se i militari della stazione Farnese, alla quale appartenevano i due carabinieri, conoscessero Brugiatelli. Né se sapessero cosa facesse, se spacciasse nel loro territorio di competenza o se fosse un loro informatore. L'informativa numero 331/1-2 del 27 luglio 2019, alla base del provvedimento di fermo, questi particolari per nulla secondari li contiene? E poi: chi ha deciso la missione? E perché i due carabinieri sono stati mandati all'appuntamento con due cittadini stranieri in borghese e disarmati? E, soprattutto, perché dopo l'accoltellamento nessuno ha inseguito i due in fuga dalla scena del crimine all'hotel che dista neanche 200 metri in linea d'aria? Si sa che al seguito dei due militari erano state inviate due pattuglie che, però, stando alle notizie di stampa, sarebbero arrivate in ritardo. Ma anche il movente alla base dell'aggressione, se non dovesse essere suffragato da riscontri, potrebbe risultare un po' leggero. I due statunitensi all'appuntamento con il pusher si sono trovati davanti due carabinieri che si sono qualificati. Cosa ha scatenato la colluttazione? L'ultima versione, riportata negli atti, è questa: i due americani hanno rubato lo zaino del pusher a Trastevere. Una ritorsione perché al posto della coca che volevano acquistare si erano ritrovati della semplice aspirina. E nello zaino c'era il cellulare dello spacciatore. Ma per concordare l'incontro come sono entrati davvero in contatto i due americani con il pusher, se il telefono dell'uomo era nello zainetto sottratto? È stato il pusher a richiamarli? E perché il carabiniere di pattuglia con la vittima, Andrea Varriale, a caldo, ha riferito che gli aggressori erano nordafricani, fornendo anche un dettaglio preciso, ossia che uno dei due aveva i capelli con le meches? Anche la descrizione dell'abbigliamento non è esattamente quello ripreso dalle telecamere che hanno incastrato i due ragazzi: il militare presente pare avesse riferito che uno dei due indossasse una camicia a scacchi e che l'altro indossasse una felpa nera. E ancora: si sa che i due americani avevano l'aereo di ritorno in partenza per ieri sera. Perché allora se ne sono tornati a dormire in camera? È a queste domande che la Procura cercherà di rispondere nelle prossime ore. Fabio Amendolara
L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
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Donald Trump con il Segretario alla Guerra degli Stati Uniti Pete Hegseth (Getty Images)
«Stasera, su mia indicazione in qualità di Comandante in Capo, gli Stati Uniti hanno sferrato un attacco potente e letale contro la feccia terroristica dell’Isis nel nord-ovest della Nigeria, che ha preso di mira e ucciso brutalmente, principalmente cristiani innocenti, a livelli che non si vedevano da molti anni, persino da secoli», ha scritto il presidente.
L’intervento militare arriva dopo settimane di tensioni tra Washington e Abuja. Trump aveva più volte accusato il governo nigeriano di non riuscire a fermare le violenze contro le comunità cristiane, annunciando già il mese scorso di aver ordinato al Pentagono di predisporre una possibile azione armata. In parallelo, il Dipartimento di Stato aveva comunicato restrizioni sui visti per cittadini nigeriani e familiari coinvolti in uccisioni di massa e persecuzioni religiose. Gli Stati Uniti hanno inoltre inserito la Nigeria tra i «Paesi di particolare preoccupazione» ai sensi dell’International Religious Freedom Act.
Nel suo messaggio, Trump ha rivendicato la continuità tra gli avvertimenti lanciati in precedenza e l’azione militare appena condotta: «Avevo già avvertito questi terroristi che se non avessero smesso di massacrare i cristiani, avrebbero pagato un prezzo altissimo, e stasera è successo». Il presidente ha quindi elogiato l’operato delle forze armate: «Il Dipartimento della Guerra ha eseguito numerosi attacchi perfetti, come solo gli Stati Uniti sono in grado di fare. Sotto la mia guida, il nostro Paese non permetterà al terrorismo islamico radicale di prosperare. Che Dio benedica le nostre forze armate e Buon Natale a tutti, compresi i terroristi morti, che saranno molti di più se continueranno a massacrare i cristiani».
La conferma dell’operazione è arrivata anche dal Comando militare statunitense per l’Africa (Africom), che ha spiegato come l’attacco sia stato condotto su richiesta delle autorità nigeriane e abbia portato all’uccisione di diversi terroristi dell’Isis. «Gli attacchi letali contro l’Isis dimostrano la forza del nostro esercito e il nostro impegno nell’eliminare le minacce terroristiche contro gli americani, in patria e all’estero», ha comunicato Africom. Sulla stessa linea il capo del Pentagono, Pete Hegseth, che ha ricordato come la posizione del presidente fosse stata chiarita già nelle settimane precedenti: «Il presidente era stato chiaro il mese scorso: l’uccisione di cristiani innocenti in Nigeria (e altrove) deve finire. Il Dipartimento della Guerra è sempre pronto, come ha scoperto l’Isis stasera, a Natale. Seguiranno altre notizie», aggiungendo di essere «grato per il sostegno e la cooperazione del governo nigeriano».
Da Abuja è arrivata una conferma ufficiale dei raid. In una nota, il ministero degli Affari Esteri della Repubblica Federale della Nigeria ha dichiarato che «le autorità nigeriane continuano a collaborare in modo strutturato con i partner internazionali, compresi gli Stati Uniti, nella lotta contro la minaccia persistente del terrorismo e dell’estremismo violento». La cooperazione, prosegue il comunicato, ha portato «a attacchi mirati contro obiettivi terroristici in Nigeria mediante raid aerei nel nord-ovest del Paese». Il ministero ha inoltre precisato che, «in linea con la prassi internazionale consolidata e gli accordi bilaterali, tale cooperazione comprende lo scambio di informazioni, il coordinamento strategico e altre forme di sostegno conformi al diritto internazionale, il reciproco rispetto della sovranità e gli impegni condivisi in materia di sicurezza regionale e globale».
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Vincent Van Gogh, Campi di grano con falciatore, Auvers, 1890.Toledo Museum of Art, acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey
Figura che ama stupire, questa volta Goldin ha ideato un’esposizione che « va cronologicamente a ritroso »: parte dall'astrazione americana del secondo Novecento (con artisti come Richard Diebenkorn, Morris Louis e Helen Frankenthaler), prosegue con l'astrazione europea ( rappresentata da opere di Piet Mondrian, Paul Klee e Ben Nicholson) e si conclude con il passaggio dal Novecento all’Ottocento, con focus su natura morta, ritratto e paesaggio. Tre temi fondamentali, pur nelle loro molteplici declinazioni, rappresentati, in mostra, dalle sfumature poetiche delle nature morte di Giorgio Morandi e Georges Braque e dai ritratti e dalle figure di Matisse, Bonnard e Vuillard, sino ad arrivare a De Chirico e Modigliani (di grande intensità il ritratto di Paul Guillaume del 1815) e alla famosa Donna con cappello nero, uno splendido Picasso cubista del 1909. Davvero straordinaria anche la parte (l’ultima di questo originale percorso al contrario…) dedicata al paesaggio, che regala al visitatore le meravigliose visioni veneziane di Paul Signac, la Parigi di Robert Delaunay e Fernand Léger e una strepitosa sequenza di paesaggi impressionisti e post-impressionisti, tra cui spiccano una delle ultime versioni (forse la più bella… ) delle Ninfee di Monet, accanto a capolavori assoluti di Gauguin, Cezanne, Caillebotte, Renoir e Sisley, a Treviso con il suo celebre L’acquedotto a Marly, realizzato nello stesso anno della prima mostra impressionista, il 1874. A chiudere questo anomalo e ricchissimo percorso espositivo, l’artista più amato e studiato da Goldin: Vincent Van Gogh.
Solitario, a dominare su tutto, quasi a congedare il pubblico, quel capolavoro che è Campo di grano con falciatore ad Auvers del 1890, l’opera con cui l’artista olandese dice addio alla vita e che rappresenta con largo anticipo l’arte futura, quella modernità già raggiunta da Van Gogh nell’incomprensione quasi totale del suo tempo… E sempre a lui, inarrivabile e tormentato genio pittorico , è dedicato film scritto e diretto da Goldin Gli ultimi giorni di Van Gogh, proiettato a ciclo continuo nella sala ipogea del museo trevigiano. Con questa poetica proiezione si conclude il percorso espositivo, che splendidamente rappresenta la qualità altissima delle opere custodite nel Toledo Museum of Art dell’Ohio, il quotatissimo museo americano (nominato nel 2025 il miglior museo degli Stati Uniti) che ha reso possibile questa prestigiosa esposizione, che da sola merita almeno un giorno a Treviso…
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Il primo giorno di esercizio delle Ferrovie Meridionali Sarde alla stazione di Iglesias nel 1926
La Sardegna era rimasta l’ultima regione dell’Italia postunitaria a non avere una strada ferrata. Le difficoltà logistiche dovute alla distanza dal continente erano state il principale ostacolo, seguito dallo scarsissimo sviluppo economico e industriale dell’isola, caratterizzata da una secolare arretratezza. Le prime ferrovie sarde furono infatti realizzate oltre vent’anni dopo la prima linea italiana, la Napoli-Portici del 1839. Solo nel 1862, su concessione del governo unitario, fu costituita a Londra con capitale privato la Compagnia delle Ferrovie Reali Sarde (CFRS) che realizzò in 18 anni la tratta che collegava, percorrendo l’interno della Sardegna, Cagliari a Porto Torres. Negli anni successivi la rete fu ampliata da altre due concessioni ferroviarie realizzate con capitale privato. La prima fu la Società delle Strade Ferrate Secondarie della Sardegna (SFSS), fondata nel 1886, che realizzò linee a scartamento ridotto da 950mm (più agili dell’ordinario per i tratti più tortuosi dell’interno dell’Isola) tra il 1888 e il 1932. Le SFSS coprirono le tratte Cagliari – Isili (1888), Monti – Tempio Pausania (1888), Macomer – Nuoro (1889), Isili – Villacidro (1891), Mandas – Sorgono (1893), Mandas – Seui (1893), Seui – Villanova Tulo (1894), Villanova Tulo – Ussassai (1894), Ussassai – Gairo (1894), Gairo – Tortolì / Arbatax (1894), Villamar – Ales (1915), Sassari – Alghero (1929), Sassari – Tempio Pausania (1931), Tempio Pausania – Palau (1932). Una terza rete ferroviaria fu quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna (FCS), una concessione scaturita dalla legge finanziaria del 1912 con capitale pubblico. A scartamento ridotto come le SFSS, le Complementari entrarono in esercizio solo nel 1921. Le tratte coperte furono Chilivani – Tirso (1921), Villamassargia – Carbonia (1926), Decimomannu – Iglesias (1926).
La zona Sud-occidentale invece, rimasta per anni isolata dalla rete ferroviaria, fu coperta negli stessi anni da un’altra rete in concessione, che avrebbe servito negli anni successivi una delle aree segnate dal più intenso sviluppo industriale: il Sulcis delle miniere di carbone. La Società delle Ferrovie Meridionali Sarde (FMS) fu fondata a Busto Arsizio l’11 dicembre 1914 ma si dovettero attendere quasi 10 anni per l’inizio dei lavori a causa dello scoppio della Grande Guerra. L’esigenza primaria dell’ultima rete ferroviaria sarda in ordine cronologico era duplice: fornire un importante supporto logistico all’industria estrattiva in quegli anni in rapida crescita per il trasporto del carbone verso le navi e garantire allo stesso tempo mobilità adeguata ad una popolazione crescente a causa della domanda di forza lavoro nelle miniere del Sulcis Iglesiente. Anche le FMS erano a scartamento ridotto ed i lavori furono appaltati all’impresa Durando&Tomassini, che in soli tre anni dal 1923 al 1926 portò a termine più di 100 km. di linea costruendo 5 gallerie, 34 opere tra ponti e viadotti, 18 stazioni e 55 case cantoniere. Le tratte erano Siliqua-S.Giovanni Suergiu (connessione con FCS) e Calasetta-Iglesias-San Giovanni Suergiu. Nella tratta finale verso Calasetta erano localizzate le stazioni di scarico del carbone come quella di S.Antioco-Ponti, attrezzata con gru portuali per il carico del materiale sulle navi. Il materiale rotabile comprendeva carri passeggeri e merci, trainate inizialmente da locomotive a vapore Breda gruppo 100. Questi convogli servirono le FMS per circa un decennio in cui il traffico sia passeggeri che merci aumentò costantemente, nonostante la velocità di esercizio ridotta a poco più di 40 km/h. Nel 1936 la società acquistò le prime littorine Aln 200, che dimezzarono i tempi di percorrenza grazie ad una velocità omologata di 85 km/h. Quelli delle sanzioni seguite alla guerra d’Etiopia furono gli anni d’oro delle FMS, che arrivarono a garantire fino a 60 convogli giornalieri e a superare il milione di tonnellate/anno di carbone trasportate dai carri merci.
Poi fu la guerra, che portò la prima crisi per la società. A causa della carenza di carburante, le littorine furono accantonate e si tornò alla trazione a vapore. Il trasporto del carbone subì una contrazione di oltre il 60% a causa della mancanza di naviglio mercantile. Poi dal cielo arrivarono i bombardamenti alleati sui porti e sulla linea a meno di 20 anni dall’inizio dell’esercizio, che causarono gravi danni alle strutture e al materiale rotabile. Si salvarono tuttavia le littorine, che durante la guerra erano rimaste nascoste sotto un fogliame mimetico. Nel dopoguerra iniziò la ristrutturazione delle linee, con un piano elaborato nel 1947, che sancì la prima e ultima fase di ripresa delle FMS, grazie anche ai livelli di estrazione del carbone che arrivarono nuovamente a sfiorare il milione di tonnellate. Fu un fattore esterno, alla metà degli anni Cinquanta, a generare una crisi della società dalla quale non si sarebbe più ripresa. Il miracolo economico e i progressi tecnici favorirono la diffusione dei prodotti petroliferi, con conseguente crollo del mercato del carbone. Dal 1960 le FMS furono sottoposte a commissariamento da parte dello Stato, che provò a modernizzare la linea con l’acquisto di 6 nuove automotrici ADe (diesel-elettriche). Ma la carenza ormai cronica di passeggeri fu aggravata anche dalla realizzazione di una linea ferroviaria in concorrenza con le arrancanti FMS. Nel 1956 le Ferrovie dello Stato inaugurarono la linea Villamassargia-Carbonia, che agevolava di molto il transito passeggeri verso Cagliari e serviva l’importante sito minerario di Serbariu, che fino ad allora si era affidato alle FMS. Ormai semideserte ed erose dalla diffusione sempre maggiore del traffico automobilistico privato, le storiche ferrovie del carbone giunsero al binario morto, terminando definitivamente l’esercizio nel 1974.
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