2021-03-19
«Ho combattuto, mi hanno ferito e ho perso la casa». Il dramma umanitario degli armeni
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Sono passati quattro mesi dal cessate il fuoco, ma la situazione in Nagorno Karabakh rimane drammatica e il popolo armeno è prostrato. L'aggressione unilaterale iniziata il 27 settembre 2020 dall'Azerbaijan è durata più di 40 giorni provocando migliaia di morti e feriti, in una delle più sanguinose battaglie che il Caucaso abbia mai visto. Il cessate il fuoco benedetto da Mosca e siglato dal primo ministro armeno Nikol Pashinyan e dal presidente azero lham Aliyev, la notte del 9 novembre, ha rappresentato una sconfitta per gli armeni. Il prezzo della tregua sono i sette distretti contesi del Nagorno-Karabakh e la storica città di Shushi. Mosca, invece, con questo accordo, ha dato una dimostrazione di forza diplomatica, ottenendo di poter dispiegare i propri peacekeepers lungo le linee del fronte e garantire la tregua nel corridoio umanitario che collega il Nagorno-Karabakh all'Armenia. Ogni tentativo di cessate il fuoco fino a quel momento era andato fallito, la resa però ha diviso politicamente il Paese tra sostenitori e oppositori del premier Pashinyan. L'Armenia oggi, oltre alla crisi politica, è di fronte ad una grandissima crisi umanitaria. Help European Local People, organizzazione no profit, è sul territorio insieme ad Assoarmeni e con l'aiuto di Lilit Abgaryan, sono lì per cercare di aiutare la popolazione in difficoltà. Sono molte le storie di dolore di giovani soldati scampati alla guerra caucasica più sanguinosa degli ultimi vent'anni. Come quella di Davit, 30 anni, che ancora gravemente ferito si è visto costretto ad abbandonare la sua casa. «È doloroso lasciare la propria terra, la propria casa, tutto quello che hai ed essere costretto ad andare via». Insieme al fratello, Davit è riuscito a sopravvivere alla guerra pur riportando ferite molto gravi, ma la sorte non è stata altrettanto clemente con suo padre, morto di crepacuore dopo aver ricevuto la notizia del ferimento del figlio. «Quando mio papà ha saputo dell'accaduto, il suo cuore non ha retto. È stato colpito da un infarto ed è morto, aveva 83 anni ed era in buona salute».Le ferite di Davit sono frutto di una guerra che non è mai stata combattuta alla pari. Molte fonti hanno rivelato che l'esercito azero era in possesso di armi moderne fornite dalla Turchia. Davit è riuscito a confermare anche la presenza di soldati mercenari all'interno delle forze azere: «Sì, c'erano i mercenari, anche se all'inizio non lo avevamo capito. Ma poi osservandoli da vicino, dalla loro età, dal loro aspetto, abbiamo capito che non erano soldati regolari!.Il giovane soldato era preparato a questa guerra. «Per 30 anni si sono armate entrambe le parti, era prevedibile che un giorno quelle armi arrivassero a sparare, e alla fine hanno sparato». E sono in molti a pensare che senza l'aiuto della Turchia questa guerra non ci sarebbe stata. 1La guerra dell'aprile del 2016 ne è la prova lampante: in quell'occasione i nostri militari hanno costretto gli azeri a fermarsi dopo soli quattro giorni dall'inizio della loro aggressione. Avevano capito subito che non erano in grado di continuare». Davit è stato arruolato nell'esercito dell'Artsakh per dieci anni e nell'ultimo conflitto ne ha viste parecchie: «Sono stato testimone del bombardamento effettuato con i missili pesanti nella città di Hadrut. Da un Paese come l'Azerbaijan, che utilizza l'artiglieria contro la popolazione civile, persino contro un ospedale specializzato in maternità, ci si può aspettare di tutto». Oggi per potersi curare la gamba ha dovuto affittare una casa nel villaggio vicino all'ospedale, nella città di Gyumri, ma non può permettersi di pagare l'affitto perché non può lavorare e come se non bastasse, sua figlia ha una malattia rara. «Sono un po' frustrato, come tutti, ma sapevamo a cosa andavamo incontro. Io oggi sono salvo per miracolo e questo lo devo a Dio. Io ho sempre creduto in Lui e adesso ci sentiamo più obbligati nei suoi confronti».I volontari di Help European Local People si stanno occupando di Davit e di altre famiglie in difficoltà, come spiega Matteo Caponetti: «Sentiamo il dovere di far sentire la nostra presenza in questo territorio ferito e a questo popolo martire come abbiamo fatto e continuiamo a fare in Kosovo e Metohija, attraverso missioni e raccolte fondi».Il vero regista di questa guerra, come già denunciato su La Verità da Tsovinar Hambardzumyan, ambasciatrice armena in Italia, è da cercare in Turchia. Nessuno in Europa ha pensato di contrapporsi a questo conflitto, a parte la Francia, che però ha già altri interessi da contendersi con Istanbul. Oggi il tema dei prigionieri politici impegna Europa e comunità internazionale: l'accordo di pace tra le due forze prevedeva che i due contendenti si scambiassero i prigionieri e si restituissero reciprocamente i corpi di chi non è sopravvissuto. Nonostante questo, sono ancora moltissimi i dispersi armeni: 1600 famiglie sono in attesa di sapere che fine abbiano fatto i loro familiari, anche se le speranze di ritrovarli in vita si assottigliano ogni giorno di più. Molti dei dispersi sono prigionieri non solo militari ma anche civili, britisharmenian.org parla di più di 200 prigionieri detenuti illegalmente dall'Azerbaijan. In Italia lo scorso 2 marzo la commissione Affari Esteri della Camera ha approvato una risoluzione che impegna il governo a sollecitare la liberazione di tutti i prigionieri detenuti dalle forze azere. Adesso tocca all'Europa.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)