2022-08-30
Draghi ha i poteri sul caro bollette. Se non li usa, agisca il Parlamento
Mario Draghi (Imagoeconomica)
Il governo è responsabile di aver sottovalutato la situazione. Tassare gli extraprofitti non ha funzionato. L’esecutivo può proporre emendamenti all’Aiuti bis. Che le Camere possono però correggere e integrare.Più passano le ore, e meno appare sostenibile la posizione di Mario Draghi (o quella che a lui viene unanimemente attribuita) a proposito di un intervento urgente contro il caro bollette. Da più parti si dice che una primissima ricognizione sia stata affidata al sottosegretario Roberto Garofoli, ma che il governo non abbia né particolare fretta di intervenire né sia intenzionato a stanziamenti adeguati di risorse. Se così fosse, si tratterebbe di un atteggiamento poco difendibile per almeno cinque ragioni. 1 Il premier e il governo già sono responsabili di una pesante sottovalutazione di ciò che poteva accadere (e che infatti si sta regolarmente verificando). Dinanzi alle preoccupazioni di tanti cittadini sia per un eventuale razionamento energetico, con conseguenze gravissime per il nostro sistema produttivo, sia per l’impennata dei prezzi, è stato forse saggio che Draghi abbia ridotto tutto, in una famigerata e infelicissima battuta di qualche mese fa, all’alternativa «preferiamo la pace o il condizionatore acceso?». O ancora, quando a Pasqua il premier concesse la sua prima e unica intervista a un quotidiano, il Corriere della Sera, essendo morbidamente interrogato su eventuali preoccupazioni energetiche per l’inverno, si limitò a rispondere così: «Siamo ben posizionati [...]. Se anche dovessero essere prese misure di contenimento, queste sarebbero miti». E a seguire riferimenti minimalisti ai condizionatori e alla temperatura del riscaldamento domestico, come se non ci fosse un gigantesco problema legato al possibile collasso del nostro sistema produttivo. Tamquam non esset, come se non ci fosse. 2 Sarebbe davvero imperdonabile se questa inerzia o questa riluttanza a intervenire fossero anche il frutto di una sorta di «vendetta» politica verso i partiti che prima non lo hanno eletto al Quirinale e poi hanno determinato la fine del suo governo. Non è questa la legacy, l’eredità politica che ci si attende da un civil servant dal curriculum eccezionale. 3 Era scontato che la cosiddetta tassazione degli extraprofitti (qualunque cosa si pensi della misura in sé) non avrebbe funzionato. Dopo che, anni fa, dichiarando l’incostituzionalità della Robin tax, la Consulta non concesse i rimborsi alle aziende che avevano già pagato, era ovvio che stavolta le società quotate (anche a comprensibile tutela dei propri azionisti) non si sarebbero affrettare a versare la tassa, ma avrebbero prima esperito ogni azione legale (in sede tributaria e amministrativa) e poi avrebbero sperato in un’ulteriore pronuncia della Corte costituzionale. 4 Di conseguenza, era surreale la stima di 10 miliardi come gettito della tassa (per ora ne è entrato solo uno). Se fosse così, sarebbe clamoroso il «buco» lasciato dal governo dei «migliori» a chi verrà dopo. 5 Al momento dello scioglimento delle Camere, Sergio Mattarella fu chiarissimo nel ribadire che l’apertura della campagna elettorale non avrebbe comunque precluso al governo, nel quadro del disbrigo degli affari correnti, di intervenire su questa scottante materia. Ecco cosa disse il capo dello Stato: «(Il governo) dispone comunque di strumenti per intervenire sulle esigenze presenti e su quelle che si presenteranno nei mesi che intercorrono tra la decisione di oggi e l’insediamento del nuovo governo (…). Ho il dovere di sottolineare che il periodo che attraversiamo non consente pause negli interventi indispensabili per contrastare gli effetti della crisi economica e sociale e, in particolare, dell’aumento dell’inflazione che, causata soprattutto dal costo dell’energia e dei prodotti alimentari, comporta pesanti conseguenze per le famiglie e per le imprese. Interventi indispensabili, dunque, per fare fronte alle difficoltà economiche e alle loro ricadute sociali…». Come si vede, non ci sono scuse.Morale: il governo ha una strada maestra. Poiché è in corso l’iter parlamentare di conversione di un decreto-legge (il cosiddetto decreto Aiuti bis), l’esecutivo ha tutte le carte in regola per proporre in quella sede un emendamento che, alla luce delle nuove esigenze, preveda un intervento adeguato. E se non lo fa? Oppure: se non volesse farlo in modo adeguato? Qui scatta l’uovo di Colombo che proponiamo da queste colonne: lo faccia direttamente il Parlamento, che ne ha tutta la possibilità. Com’è noto (e come testimonia proprio il caso del decreto Aiuti bis), anche a Camere sciolte i decreti legge si possono convertire: vuol dire che il Parlamento ha il potere-dovere di esaminare i decreti legge già varati dal governo e trasformarli in legge. Ciò vuol dire che le Camere possono non solo recepire le proposte del governo a scatola chiusa, ma possono emendarle, correggerle, integrarle. Non c’è dunque da sospendere la campagna elettorale, ma solo da fare un rapido ed efficace lavoro parlamentare, secondo le regole costituzionali esistenti. Già domani, 31 agosto, alle 15, sono convocate le Commissioni riunite Bilancio e Finanze del Senato proprio per avviare l’esame del decreto Aiuti bis. Il provvedimento deve andare nell’Aula di Palazzo Madama il 6 settembre. Dunque, i gruppi hanno tutta la possibilità, se non ci sarà un emendamento presentato dal governo o se esso non sarà ritenuto adeguato, di presentarlo loro. E a quel punto mi pare difficile che il governo osi dare parere negativo: e peraltro, quand’anche lo facesse, il voto sia in Commissione sia in Aula potrebbe tranquillamente travolgere anche quell’eventuale resistenza. I cittadini attendono e guardano: gli alibi, per tutti, sono finiti.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)