2024-07-08
Domenico Lombardi: «Adesso in Europa l’Italia pesa di più»
Domenico Lombardi (Imagoeconomica)
L’economista: «La Meloni ha saputo inserirsi nello spazio politico lasciato scoperto dal declino di Parigi e Berlino. Ricalibrare il Pnrr sembrava un tabù, e invece... Il Mes è inefficace, non ha senso insisterci».«La Francia ha dimenticato, in campagna elettorale, le priorità economiche. Tutto è stato centrato sulla demonizzazione della destra piuttosto che sul confronto su quei temi che hanno prevedibilmente portato al grande risultato della destra. Mi ricorda, per certi versi, quanto è accaduto in Italia con la vittoria centrodestra, anche se Rassemblement national non è ovviamente Fratelli d’Italia e Marine Le Pen non è Giorgia Meloni. Tutti a pronosticare sfaceli, invece, con questo governo lo spread è stato particolarmente contenuto mentre l’Italia si è conquistata un ruolo autorevole nel panorama internazionale in un momento assai delicato. Continuare a insistere sul Mes non ha senso dal momento che è un istituto di cui nessuno si serve da quasi un decennio». Domenico Lombardi, economista, con esperienza nelle istituzioni multilaterali e nei più autorevoli istituti di ricerca americani, ora professore alla Luiss dove dirige il Policy Observatory, traccia uno scenario su quello che attende l’Europa all’indomani del voto francese. Nella campagna elettorale francese non si è parlato di economia. Eppure Parigi è sotto procedura di infrazione europea per deficit eccessivo.«Non mi pare sia stata data la dovuta enfasi alle questioni economiche, nemmeno da parte dei commentatori. Piuttosto, l’intero dibattito si è concentrato sulla demonizzazione del partito di Le Pen e sulla costruzione di un cartello elettorale antagonistico senza nessuna coerenza programmatica. La criticità è che i due poli hanno cercato di prevalere facendo promesse elettorali centrate sulla dilatazione della spesa pubblica: una deriva potenzialmente pericolosa. Quest’anno la Francia dovrebbe avere un disavanzo in proporzione al Pil ben superiore a quello italiano. Nel frattempo, la Commissione Ue ha annunciato l’avvio della procedura di infrazione per deficit eccessivo. La Commissione ritiene che l’outlook fiscale della Francia presenti rischi elevati con un rapporto debito Pil che potrebbe arrivare al 139% nel prossimo decennio, un valore comparabile a quello attuale dell’Italia. Sempre per contestualizzare questo valore, occorre tener presente che, nel 2019, tale rapporto era pari al 97%; per l’Italia, invece, era già del 134. In un tale quadro, lo stesso Rassemblement national non ha spiegato in modo chiaro quale è la sua agenda economica. Ora il nuovo governo francese avrà di fronte la strada obbligata del risanamento fiscale che va negoziato con la Commissione». È la fine della forza trainante del motore franco-tedesco?«È in panne già da tempo e riflette l’incapacità di Parigi e Berlino di proiettarsi in una dimensione comunitaria. I due Paesi sono alle prese con gravi problemi domestici e, ripiegati su stessi, non riescono a guardare oltre i loro confini. Non è un caso che stanno emergendo con forza partiti fuori dall’establishment politico tradizionale. Mentre in Francia questo fenomeno ha già investito la politica al massimo livello, in Germania il conflitto politico appare ancora latente». La crisi franco tedesca è un’opportunità per l’Italia?«È un’opportunità che il governo di Giorgia Meloni ha già colto. Si è mosso ad ampio raggio: la dialettica con le istituzioni comunitarie e con i governi di Parigi e Berlino, la creazione di un percorso costruttivo su questioni nevralgiche per l’Unione, quali l’immigrazione e il Pnrr, e un lavoro intenso per posizionarsi in modo autorevole sullo scacchiere internazionale. Il governo italiano si è inserito nello spazio politico lasciato aperto dall’allentamento dell’asse franco-tedesco ricavando per sé margini di manovra importanti di cui abbiamo già visto i primi effetti». Quali effetti sul piano economico?«Penso al risultato raggiunto per il Pnrr. Il governo è riuscito a ricalibrarlo in alcune parti, un’operazione considerata prima impossibile, quasi un tabù. Non si era mai visto un presidente della Commissione Ue così spesso a Roma, come è avvenuto con il dialogo intenso che Meloni ha costruito con Von der Leyen. Il governo sta seguendo politiche fiscali prudenziali di rientro dalle spese esorbitanti dei governi precedenti. La sfida, oggi, è di mantenere questa impostazione nonostante le sempre molteplici sollecitazioni a deviare».Il rapporto con gli Stati Uniti?«Anche su questo fronte, l’Italia ha conquistato grazie alla fermezza delle sue politiche atlantiche, un ruolo di interlocutore affidabile per la Casa Bianca. Non ricordo che vi siano stati in passato così incontri bilaterali così frequenti tra il presidente del Consiglio e il presidente americano come durante questo governo». E con Pechino?«Anche se l’Italia non ha rinnovato il memorandum con la Cina, ha gestito in modo molto diplomatico i rapporti. Il posizionamento credibile nello scacchiere internazionale è la conseguenza della scelta di lealtà verso la Nato e i valori occidentali. Questo ha richiesto, di conseguenza, che Italia condannasse l’aggressione russa e mantenesse con Pechino un dialogo costruttivo. Mentre Francia e Germania hanno mostrato posizioni a tratti ondivaghe sulla questione ucraina, Palazzo Chigi ha seguito sin da subito la linea della fermezza e questo ha indubbiamente pagato sul piano dell’autorevolezza internazionale. La sfida è di contenere le ricadute sul piano commerciale utilizzando tutti i canali di dialogo con Pechino».Alcuni commentatori profetizzano un futuro di incertezza e instabilità in Francia.«È quanto avevano stimato anche per l’Italia dopo la vittoria di Fratelli d’Italia, eppure lo spread di cui molti avevano pronosticato l’esplosione si è mantenuto su livelli particolarmente contenuti. Se nelle ultime settimane è risalito, è piuttosto per effetto del contagio francese. La politica fiscale del governo Meloni è stata promossa dai mercati che gli riconoscono la gestione degli effetti di manovre irresponsabili come il Superbonus. L’Italia non è più l’epicentro dell’instabilità dell’Europa. Tuttavia, potrebbe risentire dell’incertezza dello scenario francese. Il governo di Parigi ora deve concentrarsi sull’economia e sul conflitto sociale sinora ignorato. Il punto di domanda piuttosto è come mai l’elettorato ha ingrossato le fila del Rassemblement national. L’insoddisfazione, il malessere economico e sociale sono venuti a galla, in modo prepotente, e reclamano una risposta. Il percorso ora non sarà facile. L’impostazione di politica economica, se non sarà prudenziale rischia di avere un impatto sul mercato europeo anche perché non si potrà avvalere del sostegno della Bce. La sua presidente, Christine Lagarde, lo ha detto chiaramente nei giorni scorsi». Torniamo alle nuove istituzioni europee. La Commissione sarà in grado di cambiare il Green deal?«La macchina della transizione ecologica è partita e i primi danni sono stati fatti. La Commissione uscente ha interpretato il Green deal in modo ideologico, con un approccio che si sta rivelando dannoso per l’industria europea senza alcuna garanzia di salvaguardia del nostro pianeta. Anche i più fermi sostenitori riconoscono che il Green deal sta deindustrializzando l’Europa, consegnandoci alla Cina distante da noi in materia di salvaguardia ambientale. In agricoltura, per esempio, le aziende europee sono messe fuori mercato dai regolamenti green redatti a Bruxelles con poca o nessuna consultazione con le categorie interessate. Il paradosso è che finiscono col favorire competitor stranieri di Paesi poco attenti alle politiche ecologiche. Sono stati fissati obiettivi ambiziosi ma senza valutarne le implicazioni. Penso al traguardo della completa elettrificazione messo nero su bianco senza considerare che l’Europa non dispone di quelle materie prime critiche indispensabili per attuarla e deve chiederle a Cina e Russia in un contesto geopolitico che non lo permette. Intanto la Cina espande progressivamente il controllo delle materie prime critiche sia direttamente che attraverso Paesi terzi in cui si trovano importanti giacimenti, sia nella estrazione che nella raffinazione. Per non parlare poi degli acquisti sui mercati internazionali per alimentare il proprio stoccaggio a fini speculativi».Per l’Italia è stata avviata la procedura d’infrazione. Saremo costretti a nuove stagioni di sacrifici?«L’Italia ha un deficit superiore al 3% del Pil e quindi un’azione della Commissione era inevitabile. Ma ci sono aspetti, a mio avviso, che non hanno trovato sufficientemente peso nelle argomentazioni della Commissione. Mi riferisco al cambio di passo attuato nella politica economica da questo governo che ha smontato provvedimenti fiscali come il reddito di cittadinanza a chi è abile al lavoro e il Superbonus. Sono fattori che le istituzioni Ue dovrebbero valutare appieno, fermo restando che l’Italia ha un deficit eccessivo che va in ogni caso ridimensionato. Quanto all’entità delle manovre di rientro del deficit, molto dipende dai negoziati con la Commissione. Il nuovo Patto di stabilità consente una maggiore flessibilità e prevede un percorso di aggiustamento lungo fino a sette anni. Il tema del risanamento della finanza pubblica non riguarda solo l’Italia. Anche la Francia e numerosi altri Paesi sono alle prese con bilanci non floridi. Se Bruxelles deciderà di perseguire la linea del rigore e dell’austerità c’è il rischio di aggravare l’economia europea che già sconta una prolungata stagnazione anche per effetto delle politiche monetarie restrittive della Bce. Politiche eccessivamente rigoriste, proprio quando vi è la necessità di maggiori investimenti per finanziare la transizione ecologica e digitale e la nostra difesa, andrebbero attentamente valutate. Le regole del Patto di stabilità vanno meglio contestualizzate. D’altro lato, l’Italia è impegnata nella stabilizzazione dell’enorme mole di debito pubblico e questo impegno non può cambiare in nessuna circostanza». Il Mes può considerarsi archiviato?«È uno strumento che ha dimostrato la sua inefficacia. È dal 2016 che non fornisce nuovi prestiti, e non vi è stata domanda neanche nella fase acuta della crisi pandemica. Peraltro, sia il governo Conte che ha sottoscritto l’impegno italiano a ratificare la nota riforma, sia quello Draghi che l’ha rinnovato, non sono mai andati oltre. Occorre chiedersi il perché».
La leggendaria bacchetta svela le ragioni che l’hanno portato a fondare una vera e propria Accademia per direttori d’orchestra, che dal 2015 gira il mondo per non disperdere quel patrimonio di conoscenze sul repertorio operistico che ha ereditato dai giganti della scuola italiana.
Ll’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti (Ansa). Nel riquadro la copertina del numero di «Panorama» da oggi in edicola