2019-07-02
«Divisi da motivi economici e politici i cattolici ormai non contano nulla»
Il direttore di Studi cattolici e delle edizioni Ares, Cesare Cavalleri: «Nessun politico d'area si è mai veramente interessato di cultura e la Dc ha sempre preferito occuparsi di banche. Oggi esiste un eccesso di notizie, serve un filtro».La finestra del suo studio ha una vista sul parco delle basiliche a Milano che oggi però si chiama Parco papa Giovanni Paolo II. «Il santo Papa polacco», mi dice Cesare Cavalleri, «è stato il Papa che ho sentito più vicino a Studi cattolici, lo intervistammo ancora cardinale e poi siamo sempre rimasti in contatto».Davanti a me ho un signore di 83 anni nato a Treviglio, ma da cinquant'anni a Milano, che nonostante qualche acciacco dimostra di essere molto sul pezzo, come si dice. Dal 1966 è direttore della rivista Studi cattolici e delle edizioni Ares, due punti di riferimento per la cultura cattolica e non solo. Basta guardare le fotografie nel suo studio e le sue frequentazioni per capirlo: c'è Dino Buzzati, c'è Giovanni Paolo II, c'è Salvatore Quasimodo e c'è Ornella Vanoni. Giornalista, critico letterario e televisivo, oggi festeggia il numero 700 della rivista che dirige da più di 50 anni.Direttore, come è cambiata la cultura cattolica in questi decenni?«La cultura cattolica non esiste, è in continuo cambiamento. L'anagrafe non importa: possono esserci rivoluzioni in due mesi e poi restare tutto statico per decenni».Dalla Prima alla cosiddetta Quarta repubblica di oggi, quale è stato il rapporto tra politici e cultura?«Nessun politico se ne è mai veramente interessato, l'unico che mi pare ci abbia provato è stato Arnaldo Forlani da segretario Dc. All'epoca aveva fatto un gruppo di presenza culturale, c'erano Mario Pomilio, Ermanno Olmi, Gino Montesanto, Remo Brindisi, davvero alcuni bei nomi, eccetto il mio, perché avevano chiamato anche me (ride). Però finita quella stagione, preceduta dal convegno di Lucca, in cui sembrava che anche la Dc cominciasse a occuparsi della cultura, è finito tutto». Alla Dc è sempre stato rimproverato questo disinteresse«Ha sempre preferito occuparsi di banche anziché di cultura, con i suoi buoni motivi, perché la cultura di per sé è dell'opposizione. Inoltre venivamo da una stagione totalitaria in cui c'erano i minculpop, il fascismo, e la cultura in questi casi pioveva, diciamo così, dall'alto, quindi anche per paura di evocare una cultura di Stato si è disertato il campo. Così per non sbagliare non si è mai fatto nulla e ci troviamo nella situazione attuale».Quale?«Quella in cui si paga un prezzo molto salato per quella scelta. Però la cultura non muore, rinasce ogni qualvolta un uomo o una piccola o grande comunità si impegna per edificarsi. È lì che oggi si fa cultura».State per dare alle stampe il numero 700 di Studi cattolici, oggi che rivista è?«In sostanza restiamo fedeli all'impostazione originaria, quando nel 1965 si passò dalla bimestralità alla mensilità e si trasferì la sede da Roma a Milano. Contestualmente la rivista passò da un carattere più confessionale e teologico ad uno più rivolto alla cultura generale come è attualmente. Ci muove l'idea che in ogni numero il lettore trovi qualcosa che lo attira alla lettura».Cosa è il giornalismo nel 2019?«A mio parere è scomparso, nel senso che una volta il giornalista cercava le notizie adesso, invece, passa la gran parte del suo tempo davanti a un computer, legge un'agenzia e scrive quello che gli viene in mente. Mi pare di poter dire che in un mondo sempre più dinamico il giornalismo è diventato paradossalmente statico. E non mi sembra un gran guadagno per la professione».E dalla prospettiva del lettore?«Il problema oggi non è la notizia, ma l'eccesso di notizie, ecco perché occorre un filtro, un setaccio, come anche Studi cattolici vorrebbe fare. In questo mare magnum di news che ci annegano, tutto ormai avviene in tempo reale, perciò credo sarà sempre più necessario un qualche criterio per gerarchizzare le notizie o, per dirla gesuiticamente, per fare un discernimento».Quindi, carta stampata o web?«Io propendo per la carta, soprattutto per l'approfondimento che può fornire un mensile, ma anche il quotidiano in edicola ha un futuro che non gli verrà tolto». Lei ha vissuto diversi pontificati, da Pio XII a Francesco, cosa è cambiato nella chiesa?«Molto. Pio XII è, in un certo senso, l'ultimo papa, così come si interpretava tradizionalmente il pontificato. Me lo ricordo nell'anno santo del 1950 che passava sulla sedia gestatoria ieratico e benedicente, rappresentando un certo modo di essere Chiesa. Un modo direi appagante perché quando diceva qualcosa, magari in un unico radio messaggio a Natale, lasciava una traccia molto profonda. Giovanni XXIII è il Papa del Concilio, un papa che ha riscaldato il cuore. Con Paolo VI registriamo un passaggio importante, in cui il dialogo diventa un nuovo modo di essere; all'epoca dell'enciclica Ecclesiam suam (1964) su Studi cattolici intitolammo “Il dialogo tormento apostolico". Questo dialogo è importante, ma deve essere posto sulla base di interlocutori identitari, altrimenti rischia di diventare solo una giustapposizione di opinioni. Giovanni Paolo II, come le ho già detto, è stato il Papa che ho sentito più vicino». Perché?«A me sembra, sia detto rispettosamente, che sia stato il pontefice che più di tutti ha capito il ruolo dei laici nella Chiesa. Tutti gli altri non lo hanno fatto in quel modo, compreso l'amatissimo Benedetto XVI, grandissimo professore, che già nella scelta del nome ha però un'idea di Chiesa vista dalla prospettiva del monaco studioso, ma i laici non sono questo. Papa Francesco, che pur presta attenzione ai laici, ha una concezione a mio avviso un po' pauperistica del laicato».Tra gli autori delle edizioni Ares di questi decenni chi ha lasciato un segno indelebile?«Innanzitutto san Josemaría Escrivá che è il nostro autore principale best seller e per me, che sono membro dell'Opus dei, sebbene Studi cattolici e Ares siano una cosa a parte, è una gioia particolare. E poi devo citare Eugenio Corti con il suo romanzo Il Cavallo rosso che ho pubblicato per la prima volta nel 1983 e che continuiamo a ripubblicare: siamo alla trentaseiesima edizione. Proprio oggi usciranno per la nostra casa editrice le lettere inedite che Corti scrisse alla futura moglie Vanda».Cosa ne pensa del populismo?«È una delle tante etichette cretine a cui ognuno finisce per dare il significato che desidera. Etichette facilmente delebili».E questi nuovi movimenti politici che raccolgono tanti consensi?«Rischiano di essere tutti cose che invecchiano presto. Memento Renzi: l'ex segretario del Pd prese un 40% alle elezioni europee e oggi è scomparso dal palcoscenico. Dico all'altro Matteo: fai attenzione».L'Europa unita è in difficoltà?«La colpa è di chi non ha voluto la costituzione europea e bisogna rivolgersi ai francesi per questo. Non si è voluta una base programmatica e ideologica forte che garantisse davvero una identità comune ai Paesi, con il combinato disposto di aver voluto allargare l'unione a una pletora di paesi diversissimi fra loro». Nessun futuro per questa Europa?«O si ha il coraggio di tornare indietro e davvero rimettere mano a una costituzione, oppure andiamo nelle frattaglie in cui siamo immersi oggi». Contano ancora qualcosa i cattolici nella vita pubblica?«Nella situazione attuale non contano praticamente nulla. Hanno provato a fare il partito dei cattolici, hanno provato a entrare nei partiti laici e addirittura di matrice marxista, ma di fatto sono stati emarginati. Il punto è che sui principi fondamentali, su cui dovrebbe esserci comune consenso tra le posizioni, di fatto non c'è perché prevalgono motivazioni di carattere squisitamente politico ed economico».
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