
Società messe in ginocchio dalla crisi convertite in cooperative di lavoro con risparmi, liquidazioni e il sostegno ministeriale. Oltre a preservare migliaia di posti, la rigenerazione comporta per lo Stato un grosso risparmio in ammortizzatori sociali.Le aziende industriali continuano a morire in silenzio. Talvolta portandosi dietro drammi di imprenditori e delle loro famiglie, oltre che degli operai e impiegati rimasti senza lavoro e senza sostegni concreti per andare avanti. I segnali della ripresa sono ancora troppo timidi e non si avvertono in tutti i settori. Sono tragedie non solo di oggi: risalgono alla metà degli anni Ottanta. Sono talvolta casi dolorosi che lo Stato, le banche, il fisco, le istituzioni locali, i sindacati, le associazioni degli imprenditori non sempre riescono a risolvere. Sono finite spesso in tragedie: suicidi di imprenditori, commercianti, dirigenti d'azienda che hanno fatto ricorso agli strozzini. In questo scenario inquietante, anche per responsabilità della stessa pubblica amministrazione (che ritarda i pagamenti con le aziende creditrici fino a oltre 18 mesi, nonostante le raccomandazioni di Bruxelles), una boccata d'ossigeno l'hanno portata le cosiddette aziende rigenerate, che hanno trovato vitalità soprattutto nel mondo delle cooperative. Sul tema due i libri interessanti: Se chiudi ti compro di Paola De Micheli, Stefano Imbruglia e Antonio Misiani (Guerini) e Disoccupazione, imprenditorialità e crescita, a cura di Raffaele De Mucci e Rosamaria Bitetti (Rubbettino). Nei saggi si raccontano i tentativi riusciti dei salvataggi di imprese «polverizzate dalla crisi» nel periodo 2007-2014, quando il numero degli addetti delle aziende in Italia è calato di quasi 1,4 milioni di unità. Se calcoliamo che per ogni posto di lavoro perduto è stata coinvolta una famiglia (coniuge, figli, genitori) ,possiamo stimare che nel nostro paese almeno 4,2 milioni di persone hanno visto peggiorare la loro qualità della vita.Nello stesso periodo hanno chiuso i battenti 117.734 imprese (dati Istat). Un disastro quasi invisibile al grande pubblico, ma non alle comunità locali. Infatti, come abbiamo accennato prima, le comunità locali se ne accorgevano per prime anche per le innumerevoli tragedie individuali (il suicidio di imprenditori), cercando di intervenire con iniziative di solidarietà. In questo scenario doloroso si sono inserite iniziative di recupero di industrie, definite «aziende rigenerate». In altre parole, non solo cartucce, computer, elettrodomestici, vestiario, ma anche intere aziende possono essere tornare a vivere, «rigenerate» appunto. Si tratta quasi sempre di aziende che stanno per essere dismesse o ormai fuori mercato che, per iniziativa degli stessi lavoratori, cercano di farle sopravvivere, ristrutturandole radicalmente, per adattarle alle esigenze del mercato. E lo fanno investendo i propri risparmi, le liquidazioni personali e gli stipendi arretrati non percepiti, per dar vita a nuove società di tipo cooperativo. Quasi sempre i dipendenti acquisiscono la proprietà dell'azienda, con il consenso degli imprenditori, che non intendono più continuare l'attività. In questa conversione si è rivelato molto utile con gli anni il sostegno e l'esperienza della Cfi (Cooperazione finanza impresa), una società partecipata del ministero dello Sviluppo economico (ne detiene il 98,3% del capitale), che ha come soci 306 cooperative, Invitalia e i Fondi mutualistici delle grandi associazioni delle cooperative (Agci, Confcooperative e Legacoop). La Cfi ha finanziato finora 380 imprese. Solo nel periodo 2011-2017 sono state sostenute 58 imprese (1.472 dipendenti). Lo strumento fondamentale dell'intervento Cfi è stata la legge Marcora (dal nome di un ministro democristiano che ebbe un ruolo molto importante nel progettare strumenti di solidarietà e di sviluppo industriale negli anni Ottanta). La legge infatti è del 1986; venne poi varata, nel 2001, un'altra legge (la Marcora 2) per adeguare la legislazione alle rigide regole di Bruxelles. Infatti, verso la fine degli anni Novanta, la Commissione europea promosse una procedura di infrazione che provocò la sospensione della legge Marcora, con la paralisi di ogni attività. L'accusa di Bruxelles all'Italia era che quella legge favoriva gli aiuti di Stato, con effetti distorsivi sul mercato. Con il nuovo provvedimento, del 2001, si corresse la normativa, estendendola anche alle imprese sequestrate alla criminalità organizzata. Con le leggi Marcora si può dire che le risorse investite dalla Cfi sono state quasi 86 milioni di euro (85.746.562) con la legge del 1986, e oltre 130 milioni (130.125.027) con la legge del 2001, per complessivi 17.432 occupati. L'investimento medio per addetto è stato di 12.384 euro.Gli investimenti per aree geografiche però riservano qualche sorpresa. Infatti, mentre nel periodo 2003-2009 gli interventi privilegiavano il Mezzogiorno (49% Sud, 24% Nord e 27% Centro), nel 2010- 2018 l'asse di maggiore interesse si è spostato verso Nord (Sud 27%, Centro 31% e Nord 42%). Una contraddizione, visto che le organizzazioni delle cooperative dichiarano sempre di voler perseguire gli obiettivi dello sviluppo del sud. Ci dice Camillo De Berardinis, amministratore delegato della Cfi (è stato per oltre un quindicennio al vertice di Conad ): «Abbiamo cercato sempre di dimostrare che l'assistenzialismo non è certamente la risposta alle sfide di un mondo che cambia. Occorre invece promuovere progetti economicamente competitivi e innovativi, connotati da un profilo finanziario sostenibile e socialmente rilevante. È su questa caratteristica che fa delle cooperative un modello di impresa su cui oggi si deve scommettere».Ma le imprese «rigenerate» possono trovare uno strumento importante di sostegno (finanziario, grazie alle diverse leggi oggi esistenti in proposito, non solo dello Stato, ma anche europee e delle Regioni), per la pianificazione e il controllo di gestione con lo strumento cooperativo? «Penso», dice De Berardinis, «che la conversione di imprese in cooperative di lavoro abbia migliorato la qualità della produzione, potenziando nello stesso tempo l'economia del territorio. A ciò si accompagna un consistente ritorno economico per lo Stato, in relazione ai minor uso degli ammortizzatori sociali e al versamento di imposte e oneri previdenziali percepiti dalle nuove imprese e dai lavoratori occupati». Ma non tutti la pensano come l'ad di Cfi. Un agente della società di consulenza finanziaria (Mps), Andrea Barone, non ha scrupoli al riguardo: «Non tutti possono promuovere cooperative. Non c'è sempre la propensione per questo tipo di società. Ci deve essere una cultura della partecipazione, che esiste prevalentemente solo in certe Regioni (Emilia Romagna e Toscana, soprattutto). E poi si deve anche essere nel cerchio magico della politica perché si devono anche saper utilizzare gli strumenti finanziari, che sono tanti. Non solo le leggi Marcora, ma anche la legge 123/217 Resto al Sud, le leggi regionali e così via. E poi le banche non sempre si fidano delle cooperative, anche perché i presidenti di queste imprese si rifiutano di garantire i fidi con i propri beni personali . Senza considerare i cospicui vantaggi fiscali delle coop che mettono in difficoltà le altre imprese, che diventano, anche per questa ragione, meno competitive». «Certo», ci dice De Berardinis, «non pensiamo che gli interventi della nostra finanziaria, anche se mirati, possano costituire la soluzione del problema della disoccupazione. Quello che ci attendiamo è la crescita economica, non drogata. E per favorirla possono contribuire anche strumenti come quelli messi in campo dal mondo delle cooperative». Dobbiamo sempre ricordarci che l'Italia ha speso, tra il 2008 e il 2014, qualcosa come 154,3 miliardi di euro in ammortizzatori sociali per sostenere i lavoratori espulsi dai processi produttivi. Forse, dovrebbero tenerne presente i sostenitori del reddito di cittadinanza. Una cifra gigantesca, che ha contribuito a ingrossare il nostro già smisurato debito pubblico. Una risorsa di grandi dimensioni che va utilizzata meglio e finalizzata non a un nuovo modello di assistenzialismo, ma alla crescita economica, cui seguirà sicuramente l'incremento dell'occupazione.
Sébastien Lecornu (Ansa)
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