2023-09-13
Dino Meneghin: «Ho cominciato a giocare per caso. Che rimpianto aver rifiutato l’Nba»
Parla il monumento del nostro basket, sul quale sta per uscire un documentario: «A 13 anni praticavo il lancio del peso, fui notato perché ero già alto 180 cm. Dan Peterson? Un finto burbero. Il mio erede? Nicolò Melli».Grinta e rielaborazione razionale, talento e etica del lavoro, lombardo veneta come le sue origini, corporatura da titano e cuore di meringa, un’affabilità cordiale fuori dal parquet del basket. Ma quando era sotto canestro, guai ai vinti, pareva Brenno al saccheggio di Roma. Dino Meneghin, 73 anni, ricorda tutto della sua stellare carriera sulla direttrice Varese - Milano, le due squadre che gli hanno dato (e a cui ha dato) gloria eterna: dal rapporto con Dan Peterson alla chiamata nel draft Nba, dai 12 scudetti e le 7 Coppe Campioni, agli Europei. «Arrivato a 30 anni, credevo di giocare ancora per qualche anno, invece mi sono ritirato a 44», ridacchia, unico italiano a essere inserito nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame. Il documentario Dino Meneghin - Storia di una leggenda, realizzato da Samuele Rossi e prodotto da Solaria Film, verrà proposto in anteprima venerdì 15 settembre al Teatro Litta di Milano, per poi andare in onda su Rai3 il 13 ottobre alle 16. Le è piaciuto il documentario?«Ripercorre la mia carriera, non completa, fino al 1987, con la conquista della Coppa Campioni a Milano. È interessante soprattutto per chi non conosce quell’epoca della pallacanestro o l’ha scordata».Un basket diverso da oggi.«Dalla composizione delle squadre, che negli anni Settanta annoveravano solo uno straniero per team e uno a supporto per le coppe, alla morfologia dei palazzetti. Oltre al tipo di gioco: oggi il basket è sincopato, si punta molto sui tiri da 3, è scandito da un pick and roll costante. Negli anni Settanta e Ottanta il gioco somigliava a quello di un’orchestra sinfonica».L’allargamento agli stranieri ha penalizzato i vivai?«La legge Bosman li ha indeboliti, molte società non hanno considerato conveniente mantenerli. Certo, l’arrivo di stranieri talentuosi, magari ex Nba, ha alzato il livello di spettacolo e fornito stimoli ai nostri atleti. Ma ricordiamoci che per costruire un campione come Datome occorrono anni e tanti investimenti». A proposito di Datome: piaciuta l'Italia ai Mondiali?«Siamo una squadra forte, a volte pecchiamo di ingenuità, le partite della Nazionale sono come le montagne russe. Non disponendo di lunghi di ruolo, puntiamo sui tiri da fuori: se entrano, ce la giochiamo con chiunque, se incappiamo in una giornata no, diventa dura».Coach Pozzecco la convince? «Suscita entusiasmo, è preparatissimo, è l'uomo giusto. Ma deve contenere la sua esuberanza per non essere etichettato dagli arbitri come allenatore falloso». C'è qualcuno in Italia che somiglia a Meneghin? «Mi piace Nicolò Melli. Si sacrifica, difende bene su tutti, è un cestista completo, pur giocando in un ruolo diverso dal mio. Io ero molto più pivot, più centro». La sua carriera iniziò quasi per caso. «A 13 anni andai con amici ad assistere a una partita della Ignis Varese con la scuola. Portai con me un campanaccio da fattoria per fare un po’ di casino tra i tifosi. Ero già alto circa 180 cm. L’allenatore Nico Messina mi notò e mi disse di presentarmi in campo il giorno dopo».Lei era già appassionato? «Praticavo lancio del peso e del disco alla società Gallaratese col mitico professor Bresciani. Ho scoperto in quel frangente la mia vocazione alla pallacanestro». E a 19 anni arrivò il primo scudetto. Nel 1970 la inserirono pure nei draft dell’Nba, per i tempi qualcosa di inarrivabile per un italiano.«Fu Atlanta Hawks a scegliermi, ma io l’ho saputo molto tempo dopo, sul momento nessuno mi aveva detto niente. E stavo bene a Varese». Non fu l’unico contatto con l’Nba. «Nel 1974 i New York Knicks mi invitarono a unirmi a loro per la Summer League, io mi ero rotto il menisco e non accettai. Ho il rimpianto di non averci provato». Negli anni Ottanta approdò a Milano.«Una società organizzatissima, con pochi, scafati dirigenti che sapevano cosa fare per costruire una squadra vincente. Partii con la diffidenza del pubblico: mi vedevano come un rivale venuto da Varese. Credevo di giocare ancora qualche anno e poi smettere. Invece ho smesso nel 1994».Che tipo era Dan Peterson?«Profondo conoscitore del basket. Burbero all’apparenza. Se lo conoscevi bene, ne saggiavi l’anima del burlone. Una sera, durante una cena di squadra, improvvisai un siparietto dicendo al cameriere di non servirgli da bere perché lui era un ex bevitore. Dan in realtà era astemio da sempre, ma resse il gioco (ride, nda)».Quell’Olimpia era leggendaria.«Ci sentiamo ancora tutti al telefono. Sono molto legato a Roberto Premier, mio compagno di stanza, veneto come me, una personalità affine».Ne ha affrontati di avversari tosti. Si diceva che lei piuttosto che mollare, avrebbe tirato la stampella contro l’avversario.«Tre nomi su tutti: Volodymyr Tkacenko, russo di 220 cm per 111 kg, marcarlo era un’impresa. Il croato Kresimir Cosic, dalla tecnica sopraffina. Arvidas Sabonis, gigante lituano. Il mio ruolo mi costringeva ad affrontare gli avversari più grossi e tecnici». Il ricordo più bello? «Il primo scudetto a 19 anni con la Ignis Varese, poi la Coppa Campioni conquistata contro l’Armata Rossa. Gli Europei del 1983 a Nantes e, non lo scorderò mai, aver giocato contro mio figlio: io avevo oltre 40 anni, lui 16». A proposito di suo figlio Andrea, a sua volta cestista (Dino oggi è nonno, nda), ha dichiarato che le sarebbe piaciuto seguirlo meglio.«Confermo, ma all’epoca ero molto concentrato sulle partite, le trasferte, gli allenamenti. Bisognerebbe avere a disposizione due vite, una da vivere con istinto, la seconda per rimediare agli errori della prima». Che cos’altro avrebbe da rimediare? «Coglierei l’opportunità dell’Nba. E giocherei meglio una partitaccia: finale di Coppa Campioni a Grenoble, 1983, persa da noi dell’Olimpia Milano contro Cantù. Giocai malissimo». Lei non è mai stato una testa calda fuori dal campo.«Sempre condotto una vita tranquilla. Lunghe passeggiate, qualche salto in discoteca. Mi piaceva strimpellare la chitarra, mi insegnò qualcosa mio fratello, polistrumentista. Comprai una 12 corde». Che brani suonava? «Lucio Battisti, lo adoravo ed erano melodie abbastanza semplici». Oggi come vive?«Con mia moglie Caterina sono un topo nel formaggio: ci completiamo, è una donna di gran carattere, con lei sto bene. Mia nonna mi diceva: l’essenziale è conservare la salute, un po’ di soldi e il tempo giusto per spenderli».
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