2022-08-13
Diffusi solo metà documenti del Trump-gate
Resa pubblica la lista degli oggetti sequestrati (molti top secret) nella villa dell’ex presidente e il mandato di perquisizione. Ma manca l’affidavit con le motivazioni che hanno spinto l’Fbi ad agire. Atto sproporzionato e a «orologeria» in vista delle elezioni di midterm?L’attenzione è alta. Eppure la pubblicazione del mandato di perquisizione e della lista degli oggetti sequestrati nella villa di Donald Trump rischia di fornire delle informazioni piuttosto limitate. Secondo Fox News (che ha visionato ieri entrambi i documenti in anteprima), i federali avrebbero portato via una ventina di scatole contenenti anche del materiale classificato: non risulterebbero disponibili ulteriori dettagli. Il mandato sarebbe, invece, stato firmato il 5 agosto, con la perquisizione che sarebbe dovuta avvenire «entro il 19 agosto», per requisire «tutti i documenti fisici e le registrazioni che costituiscono prove, contrabbando, frutti di reato o altri oggetti posseduti illegalmente». Nel momento in cui La Verità è andata in stampa, entrambi i documenti non erano ancora stati ufficialmente resi pubblici. Ma andiamo con ordine. Giovedì, il procuratore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, aveva tenuto una breve conferenza stampa, rompendo il silenzio che aveva fatto seguito alla perquisizione della casa di Trump. Nell’occasione, Garland si era assunto la responsabilità di aver approvato il raid, aveva difeso il Dipartimento di Giustizia dalle critiche che gli erano piovute addosso e, soprattutto, aveva annunciato di aver inoltrato una mozione al tribunale competente, per dissigillare il mandato di perquisizione e rendere pubblica la lista degli oggetti sequestrati in casa dell’ex presidente. Lo stesso Trump, poco dopo, aveva fatto sapere di essere d’accordo con la pubblicazione di questi documenti, tornando a sostenere che il raid fosse motivato politicamente. Il problema è che tra le carte che Garland ha chiesto di desegretare, manca l’affidavit: il documento, cioè, che spiega le motivazioni effettive per cui il Bureau ha chiesto al giudice di poter condurre la perquisizione. Nel frattempo, il Washington Post aveva riferito che, nella perquisizione di lunedì, i federali sarebbero andati alla ricerca di documenti classificati relativi ad armi nucleari. Una notizia, questa, che è stata tuttavia bollata ieri dall’ex presidente come una «bufala». In tutto questo, Cbs News,citando fonti interne alla squadra legale di Trump, ha rivelato che, prima di eseguire la perquisizione lunedì, gli agenti avrebbero chiesto di spegnere le telecamere di sorveglianza della villa: una richiesta che sarebbe stata tuttavia respinta dal team dell’ex presidente. Se confermato, questo dettaglio potrebbe riemergere prossimamente, visto che Trump ha detto di temere che, durante il raid, i federali possano aver «piazzato prove» in casa sua. La situazione complessiva risulta ancora poco chiara. Una domanda che emerge è: perché, dopo giorni di controverso silenzio, Garland ha alla fine deciso di parlare? C’è chi dice che abbia voluto mettere Trump alle strette, mentre Cnn aveva riportato di malumori per la sua reticenza tra svariati funzionari del Dipartimento di Giustizia. Non va poi trascurato che, prima della conferenza stampa, erano usciti due articoli giornalistici di peso. Il primo, pubblicato dal New York Times, aveva rivelato che Trump avrebbe ricevuto un ordine di consegna di alcuni documenti la scorsa primavera. Una rivelazione, rispetto a cui si sono fatte strada due versioni contrastanti: da una parte, c’è chi dice che l’ex presidente fosse stato pienamente collaborativo; dall’altra chi sostiene che avrebbe in realtà opposto delle resistenze ai limiti dell’ostruzione. Il secondo articolo, pubblicato da Newsweek, aveva invece riferito che il procuratore generale non sarebbe stato coinvolto nell’approvazione del raid di lunedì. Alla luce di tutto questo, si registrano varie ipotesi sul perché Garland abbia deciso di parlare all’improvviso. Era sicuro delle sue ragioni e voleva mettere Trump con le spalle al muro? Ha subito pressioni dall’alto? Voleva smentire l’articolo di Newsweek, che lo dipingeva come fosse stato scavalcato? Lo hanno convinto i suoi stessi funzionari, preoccupati di una eventuale crisi d’immagine del Dipartimento di Giustizia?Un altro aspetto da chiarire è se la perquisizione sia stata o meno un atto sproporzionato. Quando La Verità è andata in stampa ieri, non si conoscevano ancora le motivazioni ufficiali del raid. Pare comunque assai probabile che tutto sia riconducibile a una violazione del Presidential records act: la legge che regola la conservazione dei documenti ufficiali. Ora, come notato dal professor Jonathan Turley, solitamente le trasgressioni di questa norma vengono trattate per via amministrativa e non penale. Tanto più che, ricordiamolo, nessun ex presidente è mai stato perquisito né indagato nella storia americana. Mettiamo invece il caso che la delicatezza e l’importanza dei documenti in ballo rendesse necessario e urgente un atto eclatante come il blitz di lunedì. Se così fosse, non si capisce per quale ragione si sia atteso così tanto tempo prima di agire. È da gennaio che va avanti il tira e molla tra Trump e gli Archivi nazionali per quanto riguarda la questione dei documenti sottratti. Tutto questo, mentre l’ultima comunicazione ufficiale tra le autorità federali e il team dell’ex presidente risale a giugno. Perché, dunque, aspettare agosto, in piena campagna elettorale, per effettuare questo blitz? È pur vero che, secondo il Wall Street Journal, il raid sarebbe scaturito dalla soffiata di una talpa interna alla dimora di Trump (forse un agente del secret service). Non è però chiaro quando questa soffiata sarebbe avvenuta. Inoltre, se si parla di documenti assai rilevanti per la sicurezza nazionale, è possibile che gli Archivi nazionali siano venuti a sapere della faccenda da un informatore interno chissà quanto tempo dopo la loro presunta sottrazione? Tra l’altro, è interessante notare un fatto: chi deferì al Dipartimento di Giustizia il caso Trump lo scorso febbraio fu l’allora direttore degli Archivi nazionali, David Ferriero. Esattamente colui che, nel 2015, si rifiutò di adottare la medesima procedura rispetto allo spinoso caso delle email di Hillary Clinton. Sarà sicuramente una coincidenza, ma Ferriero era stato nominato a capo degli Archivi da Barack Obama nel 2009. Si pone, infine, un ultimo aspetto ineludibile. Indipendentemente dall’eventuale gravità del comportamento dell’ex presidente repubblicano, lo spettro del conflitto di interessi aleggia in modo inquietante. Non solo Garland si vide bloccare l’ingresso alla Corte suprema dallo stesso Trump nel 2017, ma è stato nominato procuratore generale da Joe Biden: quel Biden che fu avversario elettorale proprio di Trump nel 2020 e che potrebbe tornare ad esserlo nel 2024.
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