2025-03-07
Dietro i turbamenti di La Rochelle il rifiuto della decadenza dell’Europa
Pierre Drieu La Rochelle (Getty Images)
Rcs riporta in libreria alcuni scritti politici dell’intellettuale francese. Una selezione un po’ confusa che però riconosce la lucidità delle intuizioni di Drieu. Il cui autolesionismo fu l’estrema ribellione alla sottomissione.«La libertà è sfinita, l’uomo deve ritemprarsi nelle sue più oscure profondità. Sono io a dirlo - io, l’intellettuale, l’eterno libertario». Così dichiarava nel 1934 Pierre Drieu La Rochelle in uno scritto contenuto in Socialismo fascista, collezione di scritti politici che oggi arriva nelle librerie italiane all’interno di una singolare operazione di Rcs. Con il marchio Fuoriscena, il colosso editoriale ha deciso di riproporre - forse per adattarsi ai tempi - alcuni libri indicati come «grandi classici» del pensiero di destra. In realtà si tratta di una selezione piuttosto discutibile e un po’ confusa, che tuttavia ha per lo meno il merito di offrire alcune pagine di Drieu (selezionate qua e là dalle antologie di scritti politici) al grandissimo pubblico. Una buona e completa edizione di Socialismo fascista è da tempo disponibile presso le edizioni Ritter, che a tutt’oggi l’hanno in catalogo, ed è bene che i più motivati si rifacciano a quella. Il florilegio di Rcs fa quasi sorridere per il timore con cui viene presentato, quasi che si volesse prendere le distanze dal libro maledetto. Nell’introduzione, tuttavia, David Bidussa - schierato ma onesto - coglie alcuni punti essenziali del pensiero di Drieu: la sua avversione per le categorie di destra e sinistra, la sua critica da destra al capitalismo, il suo desiderio di superare il nazionalismo per creare un’Europa che sappia tenere testa all’egemonia americana. Certo, Bidussa ne vuol fare una specie di capobanda del rossobrunismo, è tutto teso a dimostrare da dove vengano certe tendenze ben presenti nella destra italiana d’oggi (e, intendiamoci, ha pure delle ragioni). Ma Drieu è qualcosa di radicalmente altro, di molto più profondo e decisamente meno incasellabile.Se c’è qualcosa di davvero importante che Pierre Drieu La Rochelle ci ha lasciato è l’impietoso resoconto della nostra decadenza. «Vi sono scrittori che impersonano nella loro esistenza e nelle opere un’epoca intera con tutte le sue contraddizioni», scrisse Alfredo Cattabiani. «Pierre Drieu La Rochelle è stato uno di questi enfants du siècle. E il fascino dei suoi romanzi è legato non solo alla loro efficacia letteraria, ma anche al fatto che lo scrittore francese è diventato il simbolo di una generazione, quella degli anni ruggenti, divisa fra una vita disordinata e la ricerca di un ordine personale e sociale. Personaggi e romanziere si sono identificati agli occhi dei lettori sino a perdere ogni distinzione. E così doveva avvenire perché tutta la sua narrativa è un lungo monologo autobiografico in cui fantasia e confessione si intrecciano inestricabilmente. Le sue opere letterarie più significative, come Drôle de voyage, Fuoco fatuo, Rêveuse bourgeoise, Gilles, sono tutte modulate su questo tema della decadenza. I personaggi ne sono partecipi e rivelano nelle loro vicende l’incapacità di avere rapporti costanti e normali con gli altri, donne, uomini e ambienti, in un’alternanza di desideri e delusioni, di decisioni e di rinnegamenti; spinti continuamente a fuggire, a evitare ogni legame per timore di dovere “scegliere”».Sì, Drieu La Rochelle ha visto la decadenza dell’Europa e dell’Occidente, anzi si può dire che l’abbia sperimentata sulla sua stessa carne. I personaggi dei suoi romanzi sono come paralizzati dall’angoscia, s’affannano ma in fondo non agiscono, fantasticano ma non sono capaci di risolutezza. Questa incapacità, una sorta di inabilità alla vita, egli seppe metterla in scena nel romanzo Piccoli borghesi, del 1937, un affresco familiare per cui attinse ampiamente alla propria biografia. Già nel 1925 con L’uomo pieno di donne aveva raccontato il dramma dello spaesamento, dell’isolamento dei singoli mostrando un dongiovanni che - scrisse Pol Vandromme - «si butta nell’erotismo per uscire da sé stesso, per avvicinarsi agli altri». Peccato che questo avvicinamento, alla fine, si riveli impossibile. Come risulta da Diario di un delicato, uscito nel 1944, un anno prima che Drieu s’ammazzasse attaccandosi alla canna del gas. Quel romanzo, sostiene Milo De Angelis, che lo ha tradotto in italiano, «delinea una solitudine senza scampo. È una lunga, intensa, lacerata riflessione sulla vita che non si lascia prendere, che non si vuole prendere, dopo essere apparsa in un estremo di pienezza sotto le spoglie di Jeanne: sempre lì, a un millimetro, eppure irraggiungibile, tanto più irraggiungibile quanto più sembra sfiorare il protagonista, richiamarlo a sé con la sua voce di donna affascinante e normale. Sì, normale: Jeanne per tutto il libro è un’invocazione ad entrare nel ritmo elementare della vita, delle sue forze feconde, materne, paterne, quotidiane, benignamente borghesi. Ma il protagonista (che è Drieu in tutto e per tutto) oppone il suo rifiuto». Ancora Cattabiani ricordava che qualcuno ha definito Drieu «il fratello di F.S. Fitzgerald, il poeta della decadenza, della disintegrazione di una civiltà. E la definizione è, in parte, esatta. Drieu, infatti, è fra gli scrittori francesi che hanno avvertito più tragicamente e intensamente la crisi dell’uomo occidentale». A questa decadenza, tuttavia, il francese non è stato disponibile a rassegnarsi, sentiva il bisogno di ribellarsi. Solo che il suo bisogno «di una rivolta, invece di esprimersi, come sarebbe stato proprio per uno scrittore, in una ricerca e in un approfondimento interiore, lo spinse verso l’azione pubblica, nell’evasione dell’impegno politico attivo che si concluse, come si sa, nella sua adesione al fascismo e nel tragico suicidio». La militanza di Drieu è un tentativo di rimedio alla decadenza altrimenti inevitabile dell’Europa, che è antropologica prima che politica. Il capitalismo, spiega, si è evoluto spontaneamente «vero il suo contrario: non era più una forza spontanea, liberale, anarchica, ma una forma che cedeva, che poteva contare ormai solo sull’organizzazione, sulla costrizione». Il socialismo sovietico, d’altra parte, non è una alternativa valida (anche se contro gli Usa Drieu penderà in seguito per l’Urss). Il fatto è che Drieu sa dove conduce la decadenza: alla sottomissione. «Quando gli uomini si sentono più deboli e più disarmati, reclamano un capo», dice. «Questo fatto poco onorevole dovrebbe far riflettere i migliori sul carattere disastroso di un atteggiamento che consiste nell’abbandonarsi, come semplici uomini, a un altro uomo. Infatti, quasi sempre si tratta di un vero e proprio abbandono. Non riuscendo più ad autogovernarsi, ci si libera di questa funzione virile delegandola a qualcun altro». Il terrore di Drieu si rivolge verso la massa acefala: «Le masse sono sempre pronte ad abbandonarsi fra le braccia di idoli viventi. Solo le élite, più o meno aristocratiche, sono capaci di mantenere un atteggiamento di diffidenza nei confronti di questi idoli, che conoscono troppo bene per considerarli esseri superiori. Gli intellettuali si rivelano spesso femminei e isterici come le masse. Per questa ragione noi vedremo lungo tutto il secolo XIX aumentare sempre più freneticamente l’apologia romantica dei grandi uomini». In queste condizioni, «il culto del capo diventa qualcosa di statico e di catastrofico». E sono derive, queste, che conosciamo fin troppo bene. Nel fascismo e nel bolscevismo, Drieu vuole vedere qualcosa di molto diverso: una costruzione del capo «tutta intrisa d’attivismo», l’elezione di un individuo capace di «prendere in mano uno slancio collettivo, stringerlo in pugno e lanciarlo in avanti». Non era l’oppressione che egli cerca, ma una sorta di partecipazione comunitaria e libera. Cercava un antidoto alla decadenza, e lo cercava su questa terra. Non trovandolo, scelse la morte. Volle essere un fuoco fatuo, ma ancora oggi arde.
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