2025-02-08
Dietro la facciata degli aiuti ai poveri un sistema di soldi e potere pro dem
Manifestanti protestano a sostegno dell'Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid) fuori dal Campidoglio (Ansa)
L’assalto all’agenzia «umanitaria» Usaid è dipinto come un attentato alla beneficenza. Invece, l’organizzazione è un veicolo complesso, usato per mantenere salda la supremazia Usa. Per Donald Trump, solo a favore della sinistra.Come sempre nella vita, meglio andare oltre alle dichiarazioni di facciata. La nuova amministrazione Usa ha deciso di commissariare Usaid, acronimo che sta per United States Agency for International Development. Un colosso che muove ogni anno decine di miliardi. Democratici e oppositori di Donald Trump fanno passare l’operazione come lo smantellamento di una filiera che porta alla beneficenza per i poveri. Un miliardario che affama gli ultimi. Elon Musk d’altra parte in questi giorni ha puntato il dito contro i presunti aiuti che sarebbero finiti a media pro dem, tipo Politico. Notizia quasi subito smentita.Ma la caciara in atto fa sicuramente comodo a tutti. Sia a chi teme che il vaso di pandora venga scoperchiato, sia - lato Trump - a chi si accinge a riformare un meccanismo che nei fatti serve a gestire il potere americano in giro per il mondo. Usaid non è un Ong che fa semplice beneficenza. Ma è una struttura complessa che dialoga con le altre istituzioni Usa, comprese quelle militari. In un documento datato settembre 2008 e diffuso tramite Wikileaks, la Difesa Usa spiega le necessità di una guerra non convenzionale. Spiega l’importanza di operare in un lungo e in largo per il globo usando soft power, gestione delle informazioni e utilizzo strategico dei fondi per favorire, ovviamente, le aziende a stelle e strisce, ma soprattutto per influenzare i governi locali o i cambi di casacca. In questo documento da 248 pagine Usaid viene citata più volte. Un passaggio merita la traduzione. «L’applicazione diretta delle sovvenzioni Usaid a specifici gruppi umani può modificare comportamenti negativi o cementare affiliazioni positive. Le attività dirette per promuovere l’espansione delle esportazioni per le multinazionali americane possono avere effetti simili (anche se indiretti)», si legge. «Ai più alti livelli di interazione diplomatica e finanziaria, la capacità del governo statunitense di influenzare le istituzioni finanziarie internazionali - con effetti corrispondenti sui tassi di cambio, sui tassi d’interesse, sui crediti ai tassi di cambio e alle forniture di denaro - può cementare le coalizioni multinazionali o dissuadere i governi degli Stati nazionali avversari dal sostenere determinati attori». Letto così può sembrare nulla di eccezionale. In realtà ciò che viene teorizzato nel 2008 trova terreno fertile soprattutto nell’amministrazione Obama. Altri documenti afferenti al circuito Wikileaks dimostrano che una ingente massa di denaro è stato spesa tramite Usaid senza trasparenza. O meglio, secretando la filiera. Con il commissariamento dell’agenzia tramite Marco Rubio si vuole andare a ricostruire la filiera di spese e capire, ad esempio, che ruolo le Ong legate a George Soros hanno avuto nell’ambito della cooperazione con Usaid. In Paesi come l’Albania o altri Stati in giro per il mondo. Finanziare controparti per mantenere non tanto il potere d’influenza americano intatto, ma per mantenere saldo il potere solo di una parte politica. Ciò che Trump sta cercando di fare non è soltanto aprire i cassetti per vedere che cosa vi è dentro, ma ricostruire l’intero armadio. Ecco perché tremano in tanti. Non solo negli Usa, ma anche in Europa e sicuramente in Italia. Tremano tutti coloro che di quegli aiuti hanno beneficiato. Non in termini di denaro, ma di sostegno politico. Evidentemente l’obiettivo adesso è entrare fino al centro della macchina americana. Mandare in soffitta una volta per tutte la filiera di potere che è emersa con i Clinton e ha trovato un forte consolidamento grazie a Barack Obama. Le fibrillazione così aumentano perché Usaid è solo uno dei mostri sacri che la nuova amministrazione che sta dietro a Trump vuole rivoltare. L’altro mostro sacro si chiama Fbi, per il quale The Donald ha scelto Kash Patel (il cui compito sarà proprio portarne a casa la riforma totale). «Il dipartimento di Giustizia, l’Fbi e i procuratori statali e locali dem non hanno fatto il loro lavoro. Sono incompetenti e corrotti», aveva affermato Trump poco dopo aver subito l’attentato durante la campagna elettorale. «I dem dovrebbero vergognarsi di sé stessi per aver permesso che ciò accadesse nel nostro Paese. La Cia deve intervenire ora, prima che sia troppo tardi. Gli Usa stanno crollando», aveva proseguito. «Se l’Fbi non fosse stata impegnata a fare irruzione nella casa del presidente Trump o a sorvegliare illegalmente i cattolici conservatori e si fosse, invece, concentrata sulla minaccia jihadista, probabilmente avrebbe potuto prevenire l’attacco di New Orleans», ha aggiunto in esclusiva alla Verità (intervistato da Stefano Graziosi) Sebastian Gorka, che Trump ha nominato come prossimo direttore dell’Antiterrorismo. Così se l’attentato è stata la miccia, i rapporti con l’Fbi sono storicamente a zero. Basti ricordare la complessa vicenda collegata al Russiagate e a Joseph Misfud, il docente scomparso nel nulla. Trump accusa ormai apertamente l’Fbi di aver perpetrato la filiera di potere in patria e all’estero e promette cambi drastici. Dobbiamo aspettarci che i cambi avranno ricadute anche all’estero, ovunque siano stati costruiti terminali. In questi ambiti è più difficile capire chi tremerà in Europa e in Italia. Sono informazioni troppo sensibili da poter carpire. Certo, l’attuale è un momento di interessanti coincidenze. Chissà perché è stato proprio l’avvocato Luigi Li Gotti a denunciare il governo per favoreggiamento nei confronti di Almasri. Lo stesso avvocato divenuto famoso per aver maneggiato numerosi pentiti di mafia. Tra cui uno molto famoso che di nome fa Tommaso Buscetta, che per anni ha avuto intensi rapporti con l’Fbi. Dove cambiano i titolari, ma i fascicoli passano di mano.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
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