2023-10-08
Diego Rossetti: «Così abbiamo fatto di una scarpa uno status symbol»
Luca e Diego Rossetti (Ansa)
Il figlio del fondatore del noto calzaturificio: «Quanta fatica all’inizio, la fortuna arrivò grazie ai sarti di Napoli e Roma».Un certo mondo cammina Rossetti, è il titolo del volume (datato 2006, prefazione di Natalia Aspesi e fotografie di Giovanni Gastel), che racconta la storia del celebre calzaturificio Fratelli Rossetti (fondato nel 1953 da Renzo Rossetti assieme al fratello Renato) che rappresenta uno dei maggiori poli produttivi delle calzature Made in Italy, marchio simbolo della scarpa italiana. «In realtà», racconta alla Verità Diego Rossetti, uno dei figli con Luca e Dario del capostipite, «questo titolo era un modo di dire un po’ snob ma non siamo mai stati così altezzosi come potrebbe far pensare questa frase. Ci piace anzi pensare che le nostre scarpe le possano mettere più persone possibili. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di fare un prodotto di qualità». Lo confermano questi primi settant’anni di storia vissuti con autentica professionalità e competenza, festeggiati con il nuovo negozio nella più prestigiosa location milanese, in Galleria. Come iniziò l’avventura di suo padre? «Partì da Sanguinetto, un paesino del Veneto, poverissimo per raggiungere il fratello maggiore a Parabiago. Per un caso fortuito e di amicizia si ritrovò nel mondo delle scarpe, un mondo che gli piacque subito ma le sue difficoltà economiche erano grandissime. Mi raccontava quanto gli inizi fossero stati fonte di preoccupazione e di frustrazione di chi è convinto di avere una bella idea ma di non avere i mezzi per realizzarla. Poi mio zio gli diede qualche soldo per partire».Inizio non facile ma poi tutto andò per il meglio? «Non proprio. C’è stata pure la depressione di fare un prodotto che alla gente non interessava. Le scarpe erano considerate un oggetto che per forza ti dovevi mettere per non andare in giro a piedi nudi, in più parliamo solo di scarpe da uomo ai tempi, e solo nere. Il panorama cambiò grazie ai sarti napoletani e romani che sfilavano a San Remo. Mio padre aveva conosciuto Piattelli, sarto romano, e c’era bisogno delle scarpe per le sfilate, ma scarpe che non fossero banali e così tra gli input dei sarti e la creatività paterna sono nate le prime scarpe da uomo non nere e non allacciate con le stringhe».In pratica ha precorso i tempi. «Mio padre raccontava che durante una presentazione di collezioni di primavera-estate i sarti avevano fatto sfilare i capi con la camicia senza cravatta ma soprattutto senza canottiera che per l’epoca era una vera rivoluzione. Mio padre disse che a quel punto si potevano togliere le calze e inventò la prima scarpa classica ma foderata di tela da mettere senza calze».Le famose Brera da dove nascono? «Le scarpe con il fiocchetto hanno una storia a parte. Eravamo amici di Franco Savorelli, il primo pr italiano. Notò ai piedi di un nobile una scarpa con due pendolini e la fece vedere a mio padre che subito pensò ai fiocchetti. Come tutte le novità non ebbe immediatamente successo, anzi. Ricordo che raccontava d’aver fatto vedere questa scarpa a Nereo Rocco e alla squadra del Milan che la bocciò immediatamente. Dopo diverse presentazioni anche la Brera iniziò ad avere successo». Le scarpe, una vera passione di famiglia «Sono entrato in azienda nonostante avessi altre passioni, volevo continuare gli studi dopo il liceo. Invece mio padre, che era solo, aveva bisogno di me. In più ero l’unico che parlava inglese. Avrei voluto fare filosofia ma fu un no, studia da solo e leggi libri, mi disse». Eppure, grande impegno il suo e tante idee «Era il 1979 quando abbiamo aperto il negozio a New York, la mia prima grossa operazione. All’inizio mio padre era contrario ma poi mi appoggiò. Il budget che avevo a disposizione non era sufficiente per aprire sulla Quinta Strada dove c’erano tutti i negozi. Trovo un negozio in Madison Avenue vicino alla 57esima e anche se non era la posizione giusta, decido. Nello stesso momento c’era a New York Luciano Benetton che cercava un negozio. Quindi lo prendiamo insieme, metà Fratelli Rossetti metà Benetton e siamo stati la prima boutique italiana ad aprire in Madison Avenue. Il rovescio della medaglia è che è stato un bagno di sangue. Gli americani non erano abituati a comperare nei negozi ma nei department store, in più per lavorare mettevano solo scarpe nere e quando le toglievano si infilavano le sneaker già allora. Andavo con il vestito blu elegante e le scarpe di camoscio marrone per dimostrare che si poteva cambiare, ma non mi consideravano. È stato tutto molto difficile».Quando si è sbloccata la situazione? «In America è stato molto difficile il business però mi ha permesso di portare qui un sacco di idee. Tutto quello che riguarda il customer service qui non esisteva. Fidelizzare il cliente non era nostra prassi. In più, i venditori avevano uno stipendio basso e una percentuale alta sulle vendite, esattamente il contrario di quello che avveniva da noi. Poi, il catalogo stagionale con tutte le foto di collezione, subito contrario mio padre ma poi capì che era una buona idea e siamo stati i primi a fare i cataloghi stampati anche in centomila copie».Oltre l’America? «In Europa a Parigi e Londra. Oggi siamo a trenta negozi in tutto il mondo. E nuove aperture a Dubai e Doha che contrassegnano lo sviluppo del brand in Medio Oriente e in Asia. L’espansione include anche gli aeroporti di Malpensa e Linate, Firenze e Roma».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)
Il valico di Rafah (Getty Images)