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2018-09-01
Diciotti, gli atti arrivano a Palermo. Salvini in tutto rischia fino a 30 anni
- Due nuove accuse (cinque in totale) contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini. La replica: «Sono come medaglie». L'inchiesta, però, va avanti: torchiati dai giudici altri uomini del Viminale. E Gianni Alemanno denuncia il pm.
- Due navi, due misure: la tragedia dimenticata della Kater I Rades. Nel 1997, il blocco decretato dal governo Prodi fece oltre 100 morti (e nessuno indagò).
- «Cacciare 500.000 clandestini? Una sparata». Giancarlo Giorgetti ridimensiona la promessa del vicepremier. Ma un modo per agevolare i rimpatri volontari esiste.
Lo speciale contiene tre articoli.
Dal momento in cui la nave Diciotti ha attraccato al molo di Catania, le accuse al ministro dell'Interno Matteo Salvini si sono moltiplicate. Giorno dopo giorno. E nei cinque giorni di stop in porto, con le due che si sono aggiunte prima di mandare il fascicolo a Palermo per competenza territoriale, sono diventate ben cinque. Le ultime accuse in ordine di arrivo sono «sequestro di persona a scopo di coazione» e «omissione di atti di ufficio». Si sommano a quelle di «sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio».
Il ministro Salvini e il suo capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, secondo la Procura di Agrigento, avrebbero commesso, stando alla media, un reato al giorno. Nel fascicolo, oltre ai verbali con le testimonianze dei funzionari del Viminale e degli ufficiali della Guardia costiera ascoltati dai magistrati, c'è una memoria firmata dai pm che illustra gli aspetti tecnico-giuridici del caso. In totale 50 pagine. «Trenta anni di carcere come pena massima», è stato il commento a caldo, sui social, del leader del Carroccio: «Voi pensate che io abbia paura e mi fermi? Mai». Poi, tra la pioggia di like che su Facebook ha portato in poche ore il contatore sotto il post a oltre 35.000, ha aggiunto: «So che in Italia ci sono tanti giudici liberi, onesti e imparziali, per me “prima gli italiani" significa difendere sicurezza e confini, anche mettendosi in gioco personalmente. Di politici ladri, incapaci e codardi l'Italia ne ha avuti abbastanza. Contate su di me, io conto su di voi».
Quell'intento di «difendere sicurezza e confini», però, nell'ufficio del Procuratore Luigi Patronaggio è stato interpretato come un «sequestro di persona per costringere l'Ue a trattare». L'articolo del codice penale è il 289 ter. E punisce con la reclusione dai 25 ai 30 anni chi sequestra «una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata per costringere un terzo, sia questi uno Stato o un'organizzazione, a compiere un atto». E in questo caso il «terzo» sarebbe l'Unione europea. L'omissione d'atti d'ufficio, invece, è legata al fatto che il titolare del Viminale non ha indicato un porto di sbarco alla Diciotti dopo l'operazione di salvataggio.
«Oggi ho scoperto che ho altri due capi di imputazione, però per me sono medaglie», Salvini liquida così la notizia delle nuove contestazioni.
L'atto di iscrizione nel registro degli indagati risale a sabato sera, quando il procuratore Patronaggio e il pm Salvatore Vella sono volati a Roma per sentire i dirigenti del servizio Libertà civili del Viminale. Per circa tre ore sono stati torchiati il vicecapo dipartimento, Bruno Corda, e lo stesso Piantedosi (ascoltato come persona informata sui fatti e quindi senza la presenza di un legale, si è poi ritrovato indagato insieme al ministro). I due hanno ricostruito la catena di comando seguita per gestire l'emergenza della Diciotti.
Salvini e Piantedosi, quindi, sostiene la Procura, non avrebbero impartito alcuna istruzione. Il tutto, poi, si sarebbe svolto esclusivamente tramite comunicazioni telefoniche. Dopo la prima attività investigativa il procuratore Patronaggio ha trasferito gli atti a Palermo, dalla quale Procura poi verranno inviati al Tribunale dei ministri. Prima però sono stati eseguiti ulteriori accertamenti. Per identificare le persone offese, ad esempio, sono state acquisite le generalità di tutti i migranti rimasti per dieci giorni a bordo del pattugliatore Diciotti e trasferiti soprattutto a Rocca di Papa nel centro gestito da Auxilium, la coop che piace alla Cei e a papa Francesco.
I migranti potranno quindi costituirsi parte civile in un eventuale processo contro il ministro. «Surreale», sbotta l'eurodeputato di Forza Italia Stefano Maullu. Gianni Alemanno, leader dei movimento nazionale sovranista, invece, ha preso carta e penna e ha presentato un esposto contro la Procura di Agrigento per «attentato contro i diritti politici e violenza o minaccia a un corpo politico». Ma anche per «usurpazione di funzioni pubbliche e rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio». Nell'esposto si sottolinea come l'indagine contro Salvini e Piantedosi appaia fondata su ipotesi di reato «paradossali e strumentali».
E si ipotizza che l'avere preannunciato le iniziative e le conseguenze giudiziarie in caso di mancata autorizzazione allo sbarco possa rivestire «i connotati propri dell'avvertimento esplicito e della minaccia velata a un componente di corpo politico dello stato atto a turbarne l'attività». Le iniziative del ministro, insomma, secondo Alemanno, potrebbero essere state condizionate dalle notizie sull'inchiesta diffuse a mezzo stampa.
«Io mi sono fatto il convincimento che il magistrato a tutti i costi volesse indagare Salvini e che a Salvini non dispiacesse di essere indagato. Il risultato di questa vicenda è che sono contenti sia Salvini che il magistrato», ha chiosato il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti. E a leggere le dichiarazioni di Salvini durante un comizio in provincia di Padova, infatti, pare che non veda l'ora di essere interrogato: «Se mi chiederanno: “Lei ha tenuto gli immigrati sulla barca perché voleva che l'Europa alzasse il sedere?" Risponderò sì e lo rifarei. Arrestatemi». Il paradosso: l'avvocato agrigentino Giuseppe Arnone, ex consigliere comunale con un passato nel Pci, che si definisce «berlingueriano», indignato per le accuse della Procura, ha inviato una lettera a Salvini manifestando la propria disponibilità ad assumere gratuitamente la difesa. E come direbbe Totò: «Poi dice che uno si butta a sinistra».
Fabio Amendolara
Due navi, due misure: la tragedia dimenticata della Kater I Rades
Da 27 a 47 anni di carcere. Questo, in linea teorica, rischia oggi il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini per i cinque reati che gli vengono contestati dalla Procura di Agrigento: il sequestro di persona e il sequestro a scopo di coazione, più l'arresto illegale, l'abuso d'ufficio e l'omissione d'atti d'ufficio. L'inchiesta penale sulla nave Diciotti e sul tentativo di impedire lo sbarco dei 177 immigrati recuperati in mare dalla Guardia costiera, che da una settimana coinvolge il ministro dell'Interno leghista individuandolo come mandante-autore dei reati, è però un caso unico nella storia giudiziaria italiana.
La Verità del 27 agosto ha già raccontato la storia (così memorabile e così presto dimenticata) degli oltre 11.000 albanesi, sbarcati dalla nave Vlora nel porto di Bari l'8 agosto 1991. Di fatto «arrestati» dal settimo governo di Giulio Andreotti, e poi «sequestrati» per una settimana d'inferno nel vecchio stadio della Vittoria, quei profughi a migliaia furono rimpatriati a Tirana, restituiti senza troppi riguardi al declinante regime comunista dal quale erano fuggiti. Nessun magistrato, in quel caso, avviò la minima inchiesta.
C'è però una storia ancora più tragica, eppure dimenticata esattamente come gli otto giorni del sequestro di massa nello stadio barese. Risale al marzo 1997, quando la pressione migratoria dall'Albania, in grave crisi politica ed economica, torna a esplodere. Il 25 di quel mese, il presidente del Consiglio Romano Prodi, con il ministro dell'Interno Giorgio Napolitano e quello della Difesa Beniamino Andreatta, decidono il blocco navale. Il governo, chissà perché, decide di battezzarla «Operazione bandiere bianche»: in realtà alla Marina viene affidato il compito di dissuadere le navi albanesi con «manovre cinematiche di interposizione».
Di fatto, il Canale d'Otranto viene blindato militarmente. Protesta la delegazione italiana dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che sostiene l'operazione sia «del tutto illegale», ma non è ancora affidata ai prestigiosi uffici di Laura Boldrini e quindi della sua denuncia si perde traccia. I i giornali italiani dell'epoca non si agitano più di tanto, parlano del blocco come fosse un'operazione politicamente irreprensibile. La Repubblica del 25 marzo 1997 scrive che alla Marina è stata affidata «un'opera di convincimento».
Come no. Da quel giorno, le fregate Sagittario e Aviere e le corvette Driade e Urania allungano il loro «fronte di manovra» ai limiti delle acque territoriali albanesi, con il compito d'intercettare qualsiasi imbarcazione carica d'immigrati e spingerla a rientrare in Albania. Per due giorni va bene. Viene bloccato un peschereccio con 150 persone a bordo, accostato dalla Sagittario a 20 miglia da Otranto. Con i megafoni, gli italiani intimano al comandante il rientro nelle sue acque territoriali, e il barcone fa dietrofront, ma la Sagittario lo segue quasi fin dentro al porto di Durazzo. Stesso trattamento per un mercantile.
Poi, il disastro. Il 28 marzo la corvetta Sibilla sperona una carretta del mare che cerca con più insistenza di aggirare il blocco, e involontariamente l'affonda: sono 81 i morti accertati della «Kater I Rades», e una trentina i dispersi mai recuperati, mentre si salvano in 34. Silvio Berlusconi, capo dell'opposizione, non chiede che la giustizia indaghi il governo, cui, pure, potrebbe addossare la responsabilità (quantomeno politica e morale) della strage: corre in Puglia e si commuove per le sofferenze dei poveri superstiti.
Inchieste? Processi? Sì, uno. Come imputati, però, non ha avuto alcun politico, bensì i due comandanti della nave italiana e di quella albanese. Come fossero gli unici responsabili del blocco. Nel maggio 2014 la Cassazione li ha condannati rispettivamente a due anni, e a tre anni e sei mesi di reclusione. E il premier, Prodi? E i suoi ministri? Non pervenuti. La corte però ha condannato il ministero della Difesa a risarcire i familiari delle vittime con 2 milioni di euro.
Maurizio Tortorella
«Cacciare 500.000 clandestini? Una sparata»
«Matteo Salvini, ha promesso il rimpatrio di 500.000 clandestini? L'ha sparata grossa». A dirlo è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che tuttavia ha aggiunto: «L'importante oggi è che non arrivino più».
Sparate o meno, il tema tiene banco. Immaginatevi, tanto per rendere l'idea, una metropoli come Genova e un cittadina come Empoli interamente abitate da stranieri. I 624.688 immigrati sbarcati sulle nostre coste dal 2014 al 2017 sarebbero sufficienti a creare dal nulla due città di quelle dimensioni. Una scelta, quella di farci invadere, decisamente demenziale se si considera che oltre il 30% dei reati più comuni (furti, rapine e stupri) sono commessi da stranieri che però rappresentano l'8% circa della popolazione residente.
Le statistiche sono pressoché analoghe se soffermiamo lo sguardo sulla popolazione carceraria dal momento che circa un terzo dei 58.000 detenuti - stipati in istituti con capienza regolamentare per complessivi 50.000 posti - sono stranieri.
La più alta e certificata propensione a delinquere non è chiaramente il risultato di una maggiore predisposizione genetica ad attuare comportamenti devianti quanto l'elementare incapacità di questi quasi 630.000 malcapitati ad integrarsi in un Paese che soffre e che ha oltre 6 milioni di disoccupati: circa la metà certificati dall'Itat come in cerca di lavoro cui se ne aggiungono altrettanti talmente disperati da non iscriversi ad un ufficio collocamento ma che qualora trovassero un impiego sarebbero ben lieti di lavorare. E tutto questo senza considerare i molti precari con orario ridotto che qualora ve ne fosse l'opportunità sarebbero ben lieti di lavorare di più.
I più fortunati fra gli immigrati finiscono peraltro per alimentare quello che Karl Marx chiamava esercito industriale di riserva. Manodopera a basso costo e senza tutele disposta a lavorare alla metà di quanto sarebbe disponibile ad essere impiegato un nostro concittadino. Comunque la si rigiri il costo dell'immigrazione lo paga o il contribuente o la vittima del reato o il disoccupato battuto dalla concorrenza di immigrati disperati e schiavi.
Nessun incentivo infine al progresso tecnologico delle imprese soprattutto nel settore agricolo avendo a disposizione masse di disperati pronte ad offrire braccia e sudore ad ogni cifra.
Con l'arrivo di Matteo Salvini al Viminale l'emergenza immigrazione, nonostante le tante sterili polemiche, sembra di fatto risolta in appena tre mesi. Nell'agosto di quest'anno gli sbarchi giornalieri medi sono pari a 45 contro i 126 del 2017 ed i 687 del 2016 con l'allora premier Renzi affaccendato nella campagna referendaria.
Risolto il problema delle frontiere occorre, come si diceva in apertura, trovare una soluzione per favorire il rimpatrio di tutti questi stranieri dal momento che le statistiche del Viminale confermano che appena il 7% degli stessi ha diritto allo status di rifugiato.
Le espulsioni sono particolarmente complesse e laboriose. Stime più o meno accreditate riportano come un rimpatrio forzato possa addirittura costare all'erario circa 6.000 euro. Dal momento quindi che «il morto è nella bara ed è arrivato un nuovo sceriffo in città» perché non pensare alla pragmatica soluzione dei rimpatri agevolati e volontari?
Perché non dare incarico alle nostre forze dell'ordine di prendere contatto con il maggior numero possibile di questi disperati offrendo loro una soluzione di mercato? Circa 4.000 euro più biglietto aereo per tornare a casa in cambio di impronte digitali e divieto assoluto a rientrare in Italia se non legalmente? Oggi che le nostre frontiere sono al sicuro la soluzione potrebbe essere percorribile.
E perché non accreditare la cifra che residua per arrivare ai 6.000 euro di stima del costo di espulsione a un fondo da destinare all'aumento degli stipendi dei nostri poliziotti e carabinieri? Una soluzione pragmatica ed intelligente che risparmierebbe molte lungaggini e con un incorporato incentivo da parte delle nostre forze dell'ordine a darsi da fare. Fossi il ministro dell'Interno, ci penserei.
Fabio Dragoni
Due nuove accuse (cinque in totale) contro il ministro dell'Interno Matteo Salvini. La replica: «Sono come medaglie». L'inchiesta, però, va avanti: torchiati dai giudici altri uomini del Viminale. E Gianni Alemanno denuncia il pm.Due navi, due misure: la tragedia dimenticata della Kater I Rades. Nel 1997, il blocco decretato dal governo Prodi fece oltre 100 morti (e nessuno indagò). «Cacciare 500.000 clandestini? Una sparata». Giancarlo Giorgetti ridimensiona la promessa del vicepremier. Ma un modo per agevolare i rimpatri volontari esiste.Lo speciale contiene tre articoli.Dal momento in cui la nave Diciotti ha attraccato al molo di Catania, le accuse al ministro dell'Interno Matteo Salvini si sono moltiplicate. Giorno dopo giorno. E nei cinque giorni di stop in porto, con le due che si sono aggiunte prima di mandare il fascicolo a Palermo per competenza territoriale, sono diventate ben cinque. Le ultime accuse in ordine di arrivo sono «sequestro di persona a scopo di coazione» e «omissione di atti di ufficio». Si sommano a quelle di «sequestro di persona, arresto illegale e abuso d'ufficio». Il ministro Salvini e il suo capo di gabinetto, Matteo Piantedosi, secondo la Procura di Agrigento, avrebbero commesso, stando alla media, un reato al giorno. Nel fascicolo, oltre ai verbali con le testimonianze dei funzionari del Viminale e degli ufficiali della Guardia costiera ascoltati dai magistrati, c'è una memoria firmata dai pm che illustra gli aspetti tecnico-giuridici del caso. In totale 50 pagine. «Trenta anni di carcere come pena massima», è stato il commento a caldo, sui social, del leader del Carroccio: «Voi pensate che io abbia paura e mi fermi? Mai». Poi, tra la pioggia di like che su Facebook ha portato in poche ore il contatore sotto il post a oltre 35.000, ha aggiunto: «So che in Italia ci sono tanti giudici liberi, onesti e imparziali, per me “prima gli italiani" significa difendere sicurezza e confini, anche mettendosi in gioco personalmente. Di politici ladri, incapaci e codardi l'Italia ne ha avuti abbastanza. Contate su di me, io conto su di voi».Quell'intento di «difendere sicurezza e confini», però, nell'ufficio del Procuratore Luigi Patronaggio è stato interpretato come un «sequestro di persona per costringere l'Ue a trattare». L'articolo del codice penale è il 289 ter. E punisce con la reclusione dai 25 ai 30 anni chi sequestra «una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata per costringere un terzo, sia questi uno Stato o un'organizzazione, a compiere un atto». E in questo caso il «terzo» sarebbe l'Unione europea. L'omissione d'atti d'ufficio, invece, è legata al fatto che il titolare del Viminale non ha indicato un porto di sbarco alla Diciotti dopo l'operazione di salvataggio.«Oggi ho scoperto che ho altri due capi di imputazione, però per me sono medaglie», Salvini liquida così la notizia delle nuove contestazioni.L'atto di iscrizione nel registro degli indagati risale a sabato sera, quando il procuratore Patronaggio e il pm Salvatore Vella sono volati a Roma per sentire i dirigenti del servizio Libertà civili del Viminale. Per circa tre ore sono stati torchiati il vicecapo dipartimento, Bruno Corda, e lo stesso Piantedosi (ascoltato come persona informata sui fatti e quindi senza la presenza di un legale, si è poi ritrovato indagato insieme al ministro). I due hanno ricostruito la catena di comando seguita per gestire l'emergenza della Diciotti. Salvini e Piantedosi, quindi, sostiene la Procura, non avrebbero impartito alcuna istruzione. Il tutto, poi, si sarebbe svolto esclusivamente tramite comunicazioni telefoniche. Dopo la prima attività investigativa il procuratore Patronaggio ha trasferito gli atti a Palermo, dalla quale Procura poi verranno inviati al Tribunale dei ministri. Prima però sono stati eseguiti ulteriori accertamenti. Per identificare le persone offese, ad esempio, sono state acquisite le generalità di tutti i migranti rimasti per dieci giorni a bordo del pattugliatore Diciotti e trasferiti soprattutto a Rocca di Papa nel centro gestito da Auxilium, la coop che piace alla Cei e a papa Francesco. I migranti potranno quindi costituirsi parte civile in un eventuale processo contro il ministro. «Surreale», sbotta l'eurodeputato di Forza Italia Stefano Maullu. Gianni Alemanno, leader dei movimento nazionale sovranista, invece, ha preso carta e penna e ha presentato un esposto contro la Procura di Agrigento per «attentato contro i diritti politici e violenza o minaccia a un corpo politico». Ma anche per «usurpazione di funzioni pubbliche e rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio». Nell'esposto si sottolinea come l'indagine contro Salvini e Piantedosi appaia fondata su ipotesi di reato «paradossali e strumentali». E si ipotizza che l'avere preannunciato le iniziative e le conseguenze giudiziarie in caso di mancata autorizzazione allo sbarco possa rivestire «i connotati propri dell'avvertimento esplicito e della minaccia velata a un componente di corpo politico dello stato atto a turbarne l'attività». Le iniziative del ministro, insomma, secondo Alemanno, potrebbero essere state condizionate dalle notizie sull'inchiesta diffuse a mezzo stampa.«Io mi sono fatto il convincimento che il magistrato a tutti i costi volesse indagare Salvini e che a Salvini non dispiacesse di essere indagato. Il risultato di questa vicenda è che sono contenti sia Salvini che il magistrato», ha chiosato il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Giancarlo Giorgetti. E a leggere le dichiarazioni di Salvini durante un comizio in provincia di Padova, infatti, pare che non veda l'ora di essere interrogato: «Se mi chiederanno: “Lei ha tenuto gli immigrati sulla barca perché voleva che l'Europa alzasse il sedere?" Risponderò sì e lo rifarei. Arrestatemi». Il paradosso: l'avvocato agrigentino Giuseppe Arnone, ex consigliere comunale con un passato nel Pci, che si definisce «berlingueriano», indignato per le accuse della Procura, ha inviato una lettera a Salvini manifestando la propria disponibilità ad assumere gratuitamente la difesa. E come direbbe Totò: «Poi dice che uno si butta a sinistra».Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/diciotti-gli-atti-arrivano-a-palermo-salvini-in-tutto-rischia-fino-a-30-anni-2600807863.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="due-navi-due-misure-la-tragedia-dimenticata-della-kater-i-rades" data-post-id="2600807863" data-published-at="1765135690" data-use-pagination="False"> Due navi, due misure: la tragedia dimenticata della Kater I Rades Da 27 a 47 anni di carcere. Questo, in linea teorica, rischia oggi il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini per i cinque reati che gli vengono contestati dalla Procura di Agrigento: il sequestro di persona e il sequestro a scopo di coazione, più l'arresto illegale, l'abuso d'ufficio e l'omissione d'atti d'ufficio. L'inchiesta penale sulla nave Diciotti e sul tentativo di impedire lo sbarco dei 177 immigrati recuperati in mare dalla Guardia costiera, che da una settimana coinvolge il ministro dell'Interno leghista individuandolo come mandante-autore dei reati, è però un caso unico nella storia giudiziaria italiana. La Verità del 27 agosto ha già raccontato la storia (così memorabile e così presto dimenticata) degli oltre 11.000 albanesi, sbarcati dalla nave Vlora nel porto di Bari l'8 agosto 1991. Di fatto «arrestati» dal settimo governo di Giulio Andreotti, e poi «sequestrati» per una settimana d'inferno nel vecchio stadio della Vittoria, quei profughi a migliaia furono rimpatriati a Tirana, restituiti senza troppi riguardi al declinante regime comunista dal quale erano fuggiti. Nessun magistrato, in quel caso, avviò la minima inchiesta. C'è però una storia ancora più tragica, eppure dimenticata esattamente come gli otto giorni del sequestro di massa nello stadio barese. Risale al marzo 1997, quando la pressione migratoria dall'Albania, in grave crisi politica ed economica, torna a esplodere. Il 25 di quel mese, il presidente del Consiglio Romano Prodi, con il ministro dell'Interno Giorgio Napolitano e quello della Difesa Beniamino Andreatta, decidono il blocco navale. Il governo, chissà perché, decide di battezzarla «Operazione bandiere bianche»: in realtà alla Marina viene affidato il compito di dissuadere le navi albanesi con «manovre cinematiche di interposizione». Di fatto, il Canale d'Otranto viene blindato militarmente. Protesta la delegazione italiana dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, che sostiene l'operazione sia «del tutto illegale», ma non è ancora affidata ai prestigiosi uffici di Laura Boldrini e quindi della sua denuncia si perde traccia. I i giornali italiani dell'epoca non si agitano più di tanto, parlano del blocco come fosse un'operazione politicamente irreprensibile. La Repubblica del 25 marzo 1997 scrive che alla Marina è stata affidata «un'opera di convincimento». Come no. Da quel giorno, le fregate Sagittario e Aviere e le corvette Driade e Urania allungano il loro «fronte di manovra» ai limiti delle acque territoriali albanesi, con il compito d'intercettare qualsiasi imbarcazione carica d'immigrati e spingerla a rientrare in Albania. Per due giorni va bene. Viene bloccato un peschereccio con 150 persone a bordo, accostato dalla Sagittario a 20 miglia da Otranto. Con i megafoni, gli italiani intimano al comandante il rientro nelle sue acque territoriali, e il barcone fa dietrofront, ma la Sagittario lo segue quasi fin dentro al porto di Durazzo. Stesso trattamento per un mercantile. Poi, il disastro. Il 28 marzo la corvetta Sibilla sperona una carretta del mare che cerca con più insistenza di aggirare il blocco, e involontariamente l'affonda: sono 81 i morti accertati della «Kater I Rades», e una trentina i dispersi mai recuperati, mentre si salvano in 34. Silvio Berlusconi, capo dell'opposizione, non chiede che la giustizia indaghi il governo, cui, pure, potrebbe addossare la responsabilità (quantomeno politica e morale) della strage: corre in Puglia e si commuove per le sofferenze dei poveri superstiti. Inchieste? Processi? Sì, uno. Come imputati, però, non ha avuto alcun politico, bensì i due comandanti della nave italiana e di quella albanese. Come fossero gli unici responsabili del blocco. Nel maggio 2014 la Cassazione li ha condannati rispettivamente a due anni, e a tre anni e sei mesi di reclusione. E il premier, Prodi? E i suoi ministri? Non pervenuti. La corte però ha condannato il ministero della Difesa a risarcire i familiari delle vittime con 2 milioni di euro. 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I 624.688 immigrati sbarcati sulle nostre coste dal 2014 al 2017 sarebbero sufficienti a creare dal nulla due città di quelle dimensioni. Una scelta, quella di farci invadere, decisamente demenziale se si considera che oltre il 30% dei reati più comuni (furti, rapine e stupri) sono commessi da stranieri che però rappresentano l'8% circa della popolazione residente. Le statistiche sono pressoché analoghe se soffermiamo lo sguardo sulla popolazione carceraria dal momento che circa un terzo dei 58.000 detenuti - stipati in istituti con capienza regolamentare per complessivi 50.000 posti - sono stranieri. La più alta e certificata propensione a delinquere non è chiaramente il risultato di una maggiore predisposizione genetica ad attuare comportamenti devianti quanto l'elementare incapacità di questi quasi 630.000 malcapitati ad integrarsi in un Paese che soffre e che ha oltre 6 milioni di disoccupati: circa la metà certificati dall'Itat come in cerca di lavoro cui se ne aggiungono altrettanti talmente disperati da non iscriversi ad un ufficio collocamento ma che qualora trovassero un impiego sarebbero ben lieti di lavorare. E tutto questo senza considerare i molti precari con orario ridotto che qualora ve ne fosse l'opportunità sarebbero ben lieti di lavorare di più. I più fortunati fra gli immigrati finiscono peraltro per alimentare quello che Karl Marx chiamava esercito industriale di riserva. Manodopera a basso costo e senza tutele disposta a lavorare alla metà di quanto sarebbe disponibile ad essere impiegato un nostro concittadino. Comunque la si rigiri il costo dell'immigrazione lo paga o il contribuente o la vittima del reato o il disoccupato battuto dalla concorrenza di immigrati disperati e schiavi. Nessun incentivo infine al progresso tecnologico delle imprese soprattutto nel settore agricolo avendo a disposizione masse di disperati pronte ad offrire braccia e sudore ad ogni cifra. Con l'arrivo di Matteo Salvini al Viminale l'emergenza immigrazione, nonostante le tante sterili polemiche, sembra di fatto risolta in appena tre mesi. Nell'agosto di quest'anno gli sbarchi giornalieri medi sono pari a 45 contro i 126 del 2017 ed i 687 del 2016 con l'allora premier Renzi affaccendato nella campagna referendaria. Risolto il problema delle frontiere occorre, come si diceva in apertura, trovare una soluzione per favorire il rimpatrio di tutti questi stranieri dal momento che le statistiche del Viminale confermano che appena il 7% degli stessi ha diritto allo status di rifugiato. Le espulsioni sono particolarmente complesse e laboriose. Stime più o meno accreditate riportano come un rimpatrio forzato possa addirittura costare all'erario circa 6.000 euro. Dal momento quindi che «il morto è nella bara ed è arrivato un nuovo sceriffo in città» perché non pensare alla pragmatica soluzione dei rimpatri agevolati e volontari? Perché non dare incarico alle nostre forze dell'ordine di prendere contatto con il maggior numero possibile di questi disperati offrendo loro una soluzione di mercato? Circa 4.000 euro più biglietto aereo per tornare a casa in cambio di impronte digitali e divieto assoluto a rientrare in Italia se non legalmente? Oggi che le nostre frontiere sono al sicuro la soluzione potrebbe essere percorribile. E perché non accreditare la cifra che residua per arrivare ai 6.000 euro di stima del costo di espulsione a un fondo da destinare all'aumento degli stipendi dei nostri poliziotti e carabinieri? Una soluzione pragmatica ed intelligente che risparmierebbe molte lungaggini e con un incorporato incentivo da parte delle nostre forze dell'ordine a darsi da fare. Fossi il ministro dell'Interno, ci penserei. Fabio Dragoni
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Riduci
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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