2018-08-14
Destra e sinistra dem danno il Pd per finito
Il dibattito nel Partito democratico è sempre più lacerante. E se Carlo Calenda non cessa di lanciare bordate contro il vecchio apparato, corteggiando Forza Italia, Elisabetta Gualmini guarda ormai ai grillini. In mezzo, Maurizio Martina prova a consolidare una leadership debolissima.«Il Pd è a fine corsa: troppa arroganza». Parole drastiche, durissime, senza appello, che arrivano, direi come pietre, dall'ex ministro Carlo Calenda. In questa estate in cui a sinistra la politica sembra sospesa, nei giorni in cui il dibattito ufficiale è stato paralizzato artificialmente solo grazie al congelamento del congresso, nella tregua armata della guerra tra le correnti sono gli outsider a dire le verità scomode. E così, dopo che la vicepresidente dell'Emilia Romagna Elisabetta Gualmini parlando a questo giornale aveva lanciato la provocazione più estrema («Il Pd devo cambiare nome e simbolo, con una nuova Bolognina»), è l'ex ministro dello Sviluppo economico a scandire frasi irrevocabili in un'intervista concessa dalle vacanze all'Unione Sarda: «Purtroppo», dice Calenda, «abbiamo dato l'idea di considerare risolti i problemi che il Paese ancora aveva: questa si chiama arroganza». L'atto di accusa di Calenda da un lato conferma indirettamente quanto scritto sempre dalla Verità sull'ipotesi di un nuovo partito: chiama in causa, senza giri di parole, le responsabilità di Matteo Renzi e del vecchio gruppo dirigente: «Avevamo fatto solo alcuni progressi, un primo passo per recuperare le perdite della crisi. Invece», attacca Calenda, «abbiamo raccontato all'Italia che andava tutto bene e chi non lo capiva era un gufo». Poi Calenda consuma il suo ultimo strappo intervenendo, proprio come la Gualmini, sul tema dell'identità: «Il futuro non è il Partito democratico, ma un movimento più ampio che il Pd deve contribuire a costruire». È a questo punto che le strade del dibattito si biforcano in direzioni opposte, mettendo nero su bianco i prodromi di una scissione. Quella di Calenda va verso la «destra». Dice l'ex ministro: «Penso a una cosa nuova che levi di mezzo alcuni pezzi della sinistra che si sono comportati poco seriamente come una parte di Liberi e uguali. Qui bisogna rifondare» avverte Calenda, «raccontare l'associazionismo il mondo dei sindacati. Si può mettere insieme un soggetto ampio, io lo chiamo Fronte repubblicano, che non si deve esaurire in una semplice alleanza». Quando parla di «sindacati», però Calenda non ha in mente certo la Cgil ma la Uil di Marco Bentivogli (citato proprio da Claudio Antonelli su queste colonne a proposito del «partito dei competenti»), cofirmatario con lui di un manifesto sulla modernizzazione. E quando parla di «pezzi di Leu» che non si sarebbero comportati bene, si riferisce alla componente di Sinistra italiana. Calenda non fa mistero di considerare nefasta anche la sinistra interna di Michele Emiliano: «Andrebbe espulso per il modo indecente con cui ha sabotato il governo», disse durante una puntata di Inonda, «e flirtato con il Movimento 5 stelle».E qui è il nodo. Massimo D'Alema ripete da tempo: «La sinistra potrà tornare a dialogare solo quando il Pd avrà la forza di stabilire una cesura netta è inequivocabile con la stagione renziana». Anche la Gualmini parla di «rifondazione», ma ha in mente una prospettiva opposta a quella di Calenda, sia sul piano identitario che su quello politico: «C'è ancora gente», dice la vicepresidente dell'Emilia Romagna, «che mi chiede perché non abbiamo fatto il governo con il M5s». E aggiunge, sostenendo esplicitamente l'idea di un'alleanza con il Movimento di Luigi Di Maio: «È una realtà molto duttile e plastica», osserva, «che tende ad adattarsi anche alle situazioni in cui si trova». Quindi, spiega la Gualmini, la nuova alleanza potrebbe partire proprio dall'Emilia Romagna, dove il movimento di Grillo è nato in contrapposizione con il Pd, ricomponendo la diaspora dei padri e dei figli: «Non c'è dubbio che interagire con la parte del M5s più orientata a sinistra sarebbe stata una strategia interessante». L'ultima notazione è sul partito: «Io credo che se il Pd resta in stato di catalessi politica non abbia la possibilità di sopravvivere alla crisi». Rifondarlo, dunque, significa tornare a sinistra nel senso delle alleanze (con Liberi ed uguali), ma anche sul piano dell'identità: «Nel nuovo nome e nel nuovo simbolo serve un riferimento al socialismo». Troppo per immaginare che a scaldare l'autunno - quando il presidente della Camera, Roberto Fico, andrà ospite alla Festa dell'Unità - ci sarà anche una mossa di questo Pd verso il M5s? Forse no.Con due diverse interviste, Calenda e la Gualmini hanno prefigurato il dibattito che le due anime del partito vogliono posticipare il più possibile perché per loro diventa inevitabilmente lacerante. Maurizio Martina spera che il «fattore tempo» lo aiuti a fortificarsi nella segreteria. Ha cambiato look passando allo stile Dylan Dog, è andato a riunire il Pd in periferia (a Torbellamonaca e a Scampia). Ha denunciato la classe dirigente del Pd al Sud: «Siamo stati solo il partito del potere per il potere». Ma non è ancora riuscito a modificare la percezione del Pd nell'immaginario collettivo.Matteo Richetti gira l'Italia per fortificare la propria corrente e sogna il sostegno di Graziano Delrio per candidarsi leader al congresso. Lo stesso Delrio, però, era l'unico candidato considerato competitivo contro Nicola Zingaretti da Matteo Renzi. Ma dice e ripete che non vuole correre: «Per due motivi. Il primo politico, perché non posso non considerami responsabile della linea politica che ha portato alla sconfitta. Il secondo», conclude l'ex ministro, «perché ho promesso alla mia famiglia che le dedicherò più tempo». Ecco perché Renzi alla fine considera provvidenziale la proroga del congresso, la immagina come un tempo necessario per rigenerare la propria immagine compromessa e tornare a correre. Già, ma contro di chi? L'avversario inevitabile, secondo tutti gli osservatori renziani, è proprio Zingaretti, il governatore del Lazio. Anche lui chiede «un congresso vero». Ma anche a lui, forse, non dispiace di avere tempo per riorganizzarsi. Renzi in questi mesi si è cullato con l'idea di potersi accordare con il suo possibile sfidante. Ma appena il Pd esce dal congelatore e ricomincia a parlare di politica, le due anime tornano a dividersi, in uno scontro inevitabile, che farà saltare la tregua patteggiata tra colonnelli. Chiuso nel freezer, il Pd rischia il coma, fuori dal freezer rischia la fusione.
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