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2024-10-14
La denatalità azzoppa il settore baby. Giù il fatturato di passeggini e ciucci
C’è una particolare materia prima che sta mettendo in ginocchio un’intera filiera in Italia. Ed è un paradosso. Ma non si tratta di carenza di petrolio, nichel o gas. Non sono queste le materie prime che scarseggiano. Si tratta, invece, dei bambini, dei neonati. Che non si trovano scavando, ma nascono dall’unione di un uomo e di una donna, usanza considerata alla stregua di una reliquia nel fluido mondo di oggi.
La denatalità ha avuto inevitabili ricadute sull’economia. L’indotto legato alla puericoltura e all’infanzia, ormai dall’inizio degli anni 2000, è in sofferenza in tutto il Paese e le imprese del comparto hanno avuto due strade davanti per affrontare la tempesta: diversificare la produzione oppure chiudere. E il paradosso è questo: in questa Italia che non fa più figli e che, anzi, li mette da parte come se fossero solamente un fastidio, ci sono alcuni dei nomi più noti a livello mondiale nel settore della prima infanzia. Qui il genio italiano, per decenni, ha dettato legge in tutto il mondo. Oggi, invece, le aziende del settore arrancano perché la denatalità del nostro Paese, e di gran parte del mondo occidentale, sta creando una contrazione del mercato. Nel quale, ormai, non c’è più posto per tutti.
Uno dei colossi che sta pagando un dazio altissimo alle culle vuote è la Peg Perego, azienda simbolo del made in Italy nel settore dei prodotti per l’infanzia. Nata nel 1949 ad Arcore (in Provincia di Monza), dalla mente imprenditoriale di Giuseppe Perego, l’azienda è cresciuta fino a diventare un nome di riferimento a livello internazionale per la produzione di carrozzine, passeggini e giochi, accompagnando generazioni di bambini. Nel polo produttivo brianzolo, che ha visto al lavoro nei tempi d’oro decine di centinaia di dipendenti, oggi ci lavorano solo 263 persone. Un numero destinato a (quasi) dimezzarsi il prossimo anno, allo scadere di tutti gli ammortizzatori sociali, visto che l’azienda ha annunciato l’esubero del 40% della forza lavoro, ovvero 104 lavoratori. A motivare questa scelta, la concorrenza dei prodotti cinesi e il costante calo del fatturato (nel 2023 è crollato del 23%) dovuto principalmente al calo delle nascite. A marzo 2025 scadranno tutti gli ammortizzatori sociali e, temono i sindacati, non resterà altra strada che ricorrerei ai licenziamenti. «In fabbrica, nel 2024, i lavoratori stanno al massimo 20 ore la settimana», spiega la sindacalista Fiom, Adriana Geppert, che segue la partita. La Peg sta spingendo con le uscite volontarie dei dipendenti e sta acquisendo nuove lavorazioni in Cina per abbassare i conti. Ma potrebbe non bastare. La crisi è talmente forte che, anche ai tavoli regionali aperti sulla questione, le sigle sindacali hanno chiesto all’azienda di «puntare su prodotti per gli anziani e gli animali domestici», riconvertendo parte delle linee produttive. Nessuno fa più figli e le aziende di primo piano del settore baby si trovano costrette a valutare la produzione di carrozzine e gadget per anziani e chihuahua. In Brianza, dunque, quasi ottant’anni di gloriosa tradizione industriale rischia di finire a gambe all’aria per colpa dell’inverno demografico che ha colpito il nostro Paese.
Ma quello della Peg non è un caso isolato: c’è tutta una filiera di aziende che ha a che fare con l’infanzia (abbigliamento, giocattoli, attrezzature) che vive un momento di crisi. Artsana, il gruppo (ne fanno parte, tra gli altri, i marchi Chicco, Prénatal e Boopy) guidato dall’amministratore delegato Nicola Zotta (controllato per il 60% dal fondo InvestIndustrial di Andrea Bonomi attraverso la lussemburghese Baby care international development e per il 40% dalla famiglia Catelli, gli eredi del fondatore Pietro) presente in oltre 20 Paesi con circa 1.000 punti vendita e 6.000 addetti, ha chiuso il bilancio 2023 con le perdite che sono salite a 130 milioni di euro. A livello di vendite Artsana, nel baby care, ha realizzato 592 milioni (in calo del 15% rispetto al 2022). Migliori i ricavi di Prénatal, cresciuti da 726 a 765 milioni. Lo scorso anno il gruppo aveva annunciato 90 esuberi (su 184 dipendenti) nello stabilimento di Velaronuova, nel Bresciano. Tagli, allora, congelati per un anno in vista di uscite incentivate volontarie e cassa integrazione straordinaria. Anche in questo caso i vertici del gruppo avevano annunciato l’intenzione di diversificare la produzione per evitare la chiusura dello stabilimento dove nel 2016, dopo un processo di reshoring, avevano fatto ritorno alcuni segmenti produttivi che erano stati trasferiti in Cina una decina di anni prima.
Nella Bergamasca, tra i Comuni di Telgate e Grumello del Monte, c’era quella che la Camera di commercio di Milano nel 2007 chiamava la «capitale dei passeggini». Quel distretto, che solamente 17 anni fa contava una quindicina di imprese, oggi si è quasi del tutto azzerato. Chi non ha visto arrivare il treno della crisi dovuta alla denatalità ha dovuto chiudere i battenti. I reduci (tra i quali ci sono grossi nomi come Cam Il mondo del bambino e Foppapedretti) sono sopravvissuti perché hanno diversificato la produzione puntando sull’innovazione.
Chi sembra resistere alle intemperie del crollo delle nascite è, invece, Inglesina. L’azienda di Altavilla Vicentina, secondo l’ultimo bilancio disponibile che è quello del 2022, ha i conti in ordine (l’esercizio si è chiuso con un utile di 3 milioni e 874.000 euro di utile) anche grazie al boom di ricavi generati dalle vendite, passati da 52 a 64 milioni di euro, oltre il 50% dei quali generato all’estero. Inglesina (le cui carrozzine sono state utilizzate da vip come Madonna o Chiara Ferragni dei tempi d’oro) non soffre del calo demografico perché ha puntato sui mercati esteri, come la Francia, molto più promettenti per quanto riguarda il tasso di natalità. L’unico tasso che può davvero decidere vita o morte delle imprese del settore.
Pechino e altri speculatori si fregano le mani
Le cause del declino? Concorrenza (feroce) dell’estero e la marginalità di avere un figlio: ecco perché l’Italia non domina più la scena mondiale del business dell’infanzia. Altri Paesi hanno sfruttato le difficoltà del nostro Paese scatenate e amplificate dalla crisi demografica per inserirsi nel comunque sempre redditizio mercato mondiale del baby. E, come capita anche in altri comparti, chi sta mettendo a ferro e a fuoco il mercato sono i cinesi.
Che la concorrenza di Pechino sia basata esclusivamente sulla politica di un prezzo d’acquisto basso è, ovviamente, una certezza. Ma l’economicità (che non sempre, comunque, è sinonimo di scarsa durabilità dei prodotti) non è l’unico canale attivo dall’Oriente. Il Dragone ha scatenato, con investimenti, anche un colosso dei passeggini e gadget luxury del settore: Cybex, per esempio, è un’azienda tedesca fondata solamente nel 2005 da Martin Pos. Il vero balzo, però, lo ha compiuto a partire dal 2014, quando c’è stata la fusione con Goodbaby international holding limited, azienda internazionale nella produzione di prodotti per l’infanzia con 15.000 dipendenti in tutto il mondo e che serve milioni di famiglie nei mercati madre di Germania (insieme alla Francia), Stati Uniti e Cina, dove ha la sede principale a Shanghai.
Se la Cina ha invaso il mercato con prodotti made in Pechino o acquisendo aziende europee (dopo aver appreso il know-how grazie alla delocalizzazione dei decenni scorsi anche di imprese italiane: il parallelo con l’automotive non è affatto peregrino, la strategia è identica), a penetrare con forza nel nostro Paese sono stati i marchi francesi, soprattutto quelli del settore abbigliamento (Petit bateau, Jacadi, Sergent major) e dell’alimentazione (Hipp e Mustela su tutti). Un certo dinamismo gli esperti del settore lo riconoscono anche alle imprese dell’Est europeo, soprattutto quelle della Polonia, che hanno immesso sul mercato prodotti qualitativamente discreti e a prezzi competitivi.
Oltre alle dinamiche più marcatamente economiche, ci sono anche quelle sociali a determinare l’autunno della filiera baby italiana. Mentre spariscono aziende storiche, c’è un exploit di strutture ricettive per soli adulti. Se, nel 2019, gli hotel «children free» nel nostro Paese erano una cinquantina, in meno di cinque anni sono saliti a oltre 220. In Italia è nato un portale Web a loro dedicato: sono hotel o b&b in cui i minori di 14 anni sono «vietati» mentre non lo sono, di contro, i cani. Si tratta ancora di una nicchia, ma sempre più in espansione e molto appetibile: sono persone che non hanno figli e non ne vogliono e, secondo i dati sui consumi americani pubblicati dalla Federal reserve nel 2023, hanno redditi maggiori rispetto a chi ha uno o più figli. Compagnie aeree come la Japan airlines o la turca Corendon airlines hanno introdotto funzioni per visualizzare i posti occupati sugli aerei dai bambini piccoli per permettere a chi vuole di starne alla larga (pagando un sovrapprezzo).
Perché ormai siamo al punto in cui si fanno sempre meno bambini e quelli che ci sono danno pure fastidio.
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Le culle vuote hanno un impatto devastante (-23% di ricavi) sulla filiera dell’infanzia, nostro fiore all’occhiello. Il distretto nella Bergamasca è quasi morto e altrove fioccano gli esuberi. Chi sopravvive si butta sugli animali.La Cina si «pappa» le aziende del mondo bimbo. Hotel e compagnie aeree elaborano offerte per soli adulti.Lo speciale contiene due articoli.C’è una particolare materia prima che sta mettendo in ginocchio un’intera filiera in Italia. Ed è un paradosso. Ma non si tratta di carenza di petrolio, nichel o gas. Non sono queste le materie prime che scarseggiano. Si tratta, invece, dei bambini, dei neonati. Che non si trovano scavando, ma nascono dall’unione di un uomo e di una donna, usanza considerata alla stregua di una reliquia nel fluido mondo di oggi.La denatalità ha avuto inevitabili ricadute sull’economia. L’indotto legato alla puericoltura e all’infanzia, ormai dall’inizio degli anni 2000, è in sofferenza in tutto il Paese e le imprese del comparto hanno avuto due strade davanti per affrontare la tempesta: diversificare la produzione oppure chiudere. E il paradosso è questo: in questa Italia che non fa più figli e che, anzi, li mette da parte come se fossero solamente un fastidio, ci sono alcuni dei nomi più noti a livello mondiale nel settore della prima infanzia. Qui il genio italiano, per decenni, ha dettato legge in tutto il mondo. Oggi, invece, le aziende del settore arrancano perché la denatalità del nostro Paese, e di gran parte del mondo occidentale, sta creando una contrazione del mercato. Nel quale, ormai, non c’è più posto per tutti.Uno dei colossi che sta pagando un dazio altissimo alle culle vuote è la Peg Perego, azienda simbolo del made in Italy nel settore dei prodotti per l’infanzia. Nata nel 1949 ad Arcore (in Provincia di Monza), dalla mente imprenditoriale di Giuseppe Perego, l’azienda è cresciuta fino a diventare un nome di riferimento a livello internazionale per la produzione di carrozzine, passeggini e giochi, accompagnando generazioni di bambini. Nel polo produttivo brianzolo, che ha visto al lavoro nei tempi d’oro decine di centinaia di dipendenti, oggi ci lavorano solo 263 persone. Un numero destinato a (quasi) dimezzarsi il prossimo anno, allo scadere di tutti gli ammortizzatori sociali, visto che l’azienda ha annunciato l’esubero del 40% della forza lavoro, ovvero 104 lavoratori. A motivare questa scelta, la concorrenza dei prodotti cinesi e il costante calo del fatturato (nel 2023 è crollato del 23%) dovuto principalmente al calo delle nascite. A marzo 2025 scadranno tutti gli ammortizzatori sociali e, temono i sindacati, non resterà altra strada che ricorrerei ai licenziamenti. «In fabbrica, nel 2024, i lavoratori stanno al massimo 20 ore la settimana», spiega la sindacalista Fiom, Adriana Geppert, che segue la partita. La Peg sta spingendo con le uscite volontarie dei dipendenti e sta acquisendo nuove lavorazioni in Cina per abbassare i conti. Ma potrebbe non bastare. La crisi è talmente forte che, anche ai tavoli regionali aperti sulla questione, le sigle sindacali hanno chiesto all’azienda di «puntare su prodotti per gli anziani e gli animali domestici», riconvertendo parte delle linee produttive. Nessuno fa più figli e le aziende di primo piano del settore baby si trovano costrette a valutare la produzione di carrozzine e gadget per anziani e chihuahua. In Brianza, dunque, quasi ottant’anni di gloriosa tradizione industriale rischia di finire a gambe all’aria per colpa dell’inverno demografico che ha colpito il nostro Paese.Ma quello della Peg non è un caso isolato: c’è tutta una filiera di aziende che ha a che fare con l’infanzia (abbigliamento, giocattoli, attrezzature) che vive un momento di crisi. Artsana, il gruppo (ne fanno parte, tra gli altri, i marchi Chicco, Prénatal e Boopy) guidato dall’amministratore delegato Nicola Zotta (controllato per il 60% dal fondo InvestIndustrial di Andrea Bonomi attraverso la lussemburghese Baby care international development e per il 40% dalla famiglia Catelli, gli eredi del fondatore Pietro) presente in oltre 20 Paesi con circa 1.000 punti vendita e 6.000 addetti, ha chiuso il bilancio 2023 con le perdite che sono salite a 130 milioni di euro. A livello di vendite Artsana, nel baby care, ha realizzato 592 milioni (in calo del 15% rispetto al 2022). Migliori i ricavi di Prénatal, cresciuti da 726 a 765 milioni. Lo scorso anno il gruppo aveva annunciato 90 esuberi (su 184 dipendenti) nello stabilimento di Velaronuova, nel Bresciano. Tagli, allora, congelati per un anno in vista di uscite incentivate volontarie e cassa integrazione straordinaria. Anche in questo caso i vertici del gruppo avevano annunciato l’intenzione di diversificare la produzione per evitare la chiusura dello stabilimento dove nel 2016, dopo un processo di reshoring, avevano fatto ritorno alcuni segmenti produttivi che erano stati trasferiti in Cina una decina di anni prima.Nella Bergamasca, tra i Comuni di Telgate e Grumello del Monte, c’era quella che la Camera di commercio di Milano nel 2007 chiamava la «capitale dei passeggini». Quel distretto, che solamente 17 anni fa contava una quindicina di imprese, oggi si è quasi del tutto azzerato. Chi non ha visto arrivare il treno della crisi dovuta alla denatalità ha dovuto chiudere i battenti. I reduci (tra i quali ci sono grossi nomi come Cam Il mondo del bambino e Foppapedretti) sono sopravvissuti perché hanno diversificato la produzione puntando sull’innovazione.Chi sembra resistere alle intemperie del crollo delle nascite è, invece, Inglesina. L’azienda di Altavilla Vicentina, secondo l’ultimo bilancio disponibile che è quello del 2022, ha i conti in ordine (l’esercizio si è chiuso con un utile di 3 milioni e 874.000 euro di utile) anche grazie al boom di ricavi generati dalle vendite, passati da 52 a 64 milioni di euro, oltre il 50% dei quali generato all’estero. Inglesina (le cui carrozzine sono state utilizzate da vip come Madonna o Chiara Ferragni dei tempi d’oro) non soffre del calo demografico perché ha puntato sui mercati esteri, come la Francia, molto più promettenti per quanto riguarda il tasso di natalità. 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Che la concorrenza di Pechino sia basata esclusivamente sulla politica di un prezzo d’acquisto basso è, ovviamente, una certezza. Ma l’economicità (che non sempre, comunque, è sinonimo di scarsa durabilità dei prodotti) non è l’unico canale attivo dall’Oriente. Il Dragone ha scatenato, con investimenti, anche un colosso dei passeggini e gadget luxury del settore: Cybex, per esempio, è un’azienda tedesca fondata solamente nel 2005 da Martin Pos. Il vero balzo, però, lo ha compiuto a partire dal 2014, quando c’è stata la fusione con Goodbaby international holding limited, azienda internazionale nella produzione di prodotti per l’infanzia con 15.000 dipendenti in tutto il mondo e che serve milioni di famiglie nei mercati madre di Germania (insieme alla Francia), Stati Uniti e Cina, dove ha la sede principale a Shanghai. Se la Cina ha invaso il mercato con prodotti made in Pechino o acquisendo aziende europee (dopo aver appreso il know-how grazie alla delocalizzazione dei decenni scorsi anche di imprese italiane: il parallelo con l’automotive non è affatto peregrino, la strategia è identica), a penetrare con forza nel nostro Paese sono stati i marchi francesi, soprattutto quelli del settore abbigliamento (Petit bateau, Jacadi, Sergent major) e dell’alimentazione (Hipp e Mustela su tutti). Un certo dinamismo gli esperti del settore lo riconoscono anche alle imprese dell’Est europeo, soprattutto quelle della Polonia, che hanno immesso sul mercato prodotti qualitativamente discreti e a prezzi competitivi. Oltre alle dinamiche più marcatamente economiche, ci sono anche quelle sociali a determinare l’autunno della filiera baby italiana. Mentre spariscono aziende storiche, c’è un exploit di strutture ricettive per soli adulti. Se, nel 2019, gli hotel «children free» nel nostro Paese erano una cinquantina, in meno di cinque anni sono saliti a oltre 220. In Italia è nato un portale Web a loro dedicato: sono hotel o b&b in cui i minori di 14 anni sono «vietati» mentre non lo sono, di contro, i cani. Si tratta ancora di una nicchia, ma sempre più in espansione e molto appetibile: sono persone che non hanno figli e non ne vogliono e, secondo i dati sui consumi americani pubblicati dalla Federal reserve nel 2023, hanno redditi maggiori rispetto a chi ha uno o più figli. Compagnie aeree come la Japan airlines o la turca Corendon airlines hanno introdotto funzioni per visualizzare i posti occupati sugli aerei dai bambini piccoli per permettere a chi vuole di starne alla larga (pagando un sovrapprezzo). Perché ormai siamo al punto in cui si fanno sempre meno bambini e quelli che ci sono danno pure fastidio.
Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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