2024-07-30
Decreti bocciati: la Consulta deborda ancora
La Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il dl sulle fondazioni lirico-sinfoniche, entrando nel merito della fondatezza dei requisiti di «necessità e urgenza». Una valutazione che spetterebbe al Parlamento che rappresenta il popolo, non ai giudici.Come riferito da La Verità e da altri organi d’informazione, la Corte costituzionale, con la sentenza numero 146/2024, depositata il 25 luglio scorso ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 3, del decreto legge numero 51/2023, convertito con modificazioni nella legge numero 87/2023, con il quale era stato stabilito che, a decorrere dal 1 giugno 2023, i sovrintendenti alle fondazioni lirico-sinfoniche cessassero dalla carica al compimento del settantesimo anno di età. L’interesse di tale pronuncia, al di là della sua ricaduta sulle posizioni di noti personaggi, quali Carlo Fuertes, ex amministratore delegato della Rai ed attuale sovrintendente al Maggio musicale fiorentino, e Stephane Lissner, sovrintendente al teatro San Carlo di Napoli, risiede soprattutto nel fatto che la Corte ha rinvenuto la ragione della ritenuta illegittimità costituzionale della norma in questione essenzialmente nella originaria mancanza del presupposto costituito dalle straordinarie condizioni di «necessità e d’urgenza» che, ai sensi dell’articolo 77 della Costituzione, legittimano il governo all’emanazione di decreti-legge. Questi, com’è noto, hanno efficacia immediata ma debbono essere presentati al Parlamento per la conversione in legge, la quale deve avvenire entro i successivi sessanta giorni, a pena, altrimenti, della loro perdita di efficacia fin dall’inizio. A sostegno della propria decisione, la Corte si è richiamata al principio, già da essa più volte affermato, secondo cui rientrerebbe tra i suoi poteri quello di valutare l’esistenza o meno del suddetto presupposto, indipendentemente dall’avvenuta conversione in legge del decreto legge da parte del Parlamento, e di dichiarare, quindi, in caso di sua ritenuta assenza, l’illegittimità costituzionale tanto del decreto legge quanto della stessa legge di conversione. In particolare, è stata richiamata la sentenza numero 29 del 1995, secondo la quale: «la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge, costituisce un requisito di validità costituzionale dell’adozione del predetto atto, di modo che l’eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell’ambito delle possibilità applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione […]. Pertanto, non esiste alcuna preclusione affinché la Corte costituzionale proceda all’esame del decreto-legge e/o della legge di conversione sotto il profilo del rispetto dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza dei presupposti di necessità e urgenza, dal momento che il correlativo esame delle Camere in sede di conversione comporta una valutazione del tutto diversa e, precisamente, di tipo prettamente politico sia con riguardo al contenuto della decisione, sia con riguardo agli effetti della stessa». Tali affermazioni, però, se percepite nell’aldilà, farebbero rivoltare nella tomba quelli, tra i padri costituenti, che si batterono per l’istituzione della Corte costituzionale, fronteggiando le critiche di quanti temevano che essa si rivelasse uno strumento di indebita limitazione della sovranità popolare. Tra questi si annoveravano, oltre ad alcuni personaggi di spicco dell’Italia prefascista, quali Vittorio Emanuele Orlando e Francesco Saverio Nitti, anche Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, segretari, rispettivamente, del partito comunista e del partito socialista, per il primo dei quali il nuovo organismo sarebbe stato una pericolosa «bizzarria» suscettibile di ostacolare l’ «espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica e sociale del paese», mentre, per il secondo, esso sarebbe stato contrario ai principi della democrazia, dal momento che i suoi componenti, per quanto autorevoli e qualificati, non sarebbero stati comunque eletti dal popolo e non avrebbero, quindi, dovuto avere il «diritto di giudicare gli atti del Parlamento». Ma, in realtà, con riferimento proprio a quest’ultima affermazione, quello che la Corte costituzionale si è indebitamente arrogato è né più e né meno che il diritto di sovrapporre il proprio giudizio a quello del Parlamento, la cui valutazione «politica» dovrebbe limitarsi, come si è visto, al contenuto ed agli effetti del decreto legge, mentre, chissà perché, dovrebbe spettare alla sola Corte quella attinente al requisito della «necessità ed urgenza», quasi che anche quest’ultimo, per la estrema varietà e opinabilità dei criteri sulla base dei quali può essere, di volta in volta, riconosciuto, non sia soggetto a valutazioni da riguardarsi anch’esse come strettamente «politiche». Appare chiaro, infatti, che se i Padri costituenti, nel prevedere la possibilità, per il governo, di emanare decreti legge, hanno poi rimesso al solo Parlamento il potere discrezionale di convertirli o non convertirli in legge entro il prescritto termine di sessanta giorni, ciò altro non può significare se non che al Parlamento è stata rimessa, in esclusiva, la valutazione non solo della sussistenza o meno del requisito in questione, ma anche della rilevanza o meno della sua eventuale assenza, a fronte della considerazione dell’ interesse pubblico che, con l’intervento normativo, il governo ha inteso perseguire. Ciò significa che, qualora intervenga la conversione, quell’interesse è stato legittimamente considerato prioritario dall’organo a ciò specificamente deputato, che è appunto il Parlamento, nella sua qualità di diretto rappresentante di quel «popolo» al quale, in base all’articolo 1 della Costituzione, appartiene la sovranità. Non si vede, quindi, a quale titolo il giudice delle leggi possa estromettere dall’ordinamento giuridico una norma che, all’esito di un processo di assoluta regolarità formale, ne sia venuta a far parte, quando il suo preteso vizio di origine, non incidente sul suo contenuto, sia stato escluso o ritenuto irrilevante nell’unica sede, e cioè quella della conversione in legge da parte del Parlamento, in cui la presenza e la rilevanza avrebbero potuto essere oggetto di valutazione. Ritenere il contrario equivale ad ignorare del tutto il chiaro disposto dell’art. 28 della legge numero 87 del 1953, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale», secondo cui è vietato a quest’ultima «ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Ed appare alquanto difficile sostenere che non si eserciti un tale indebito sindacato quando si pone nel nulla (come nel caso in questione ed in quelli analoghi che l’hanno preceduto) il risultato del legittimo uso di quel potere.Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione