2018-07-12
Davigo è il primo degli eletti e il Csm svolta verso destra
Al secondo posto la candidata di Magistratura indipendente, Loredana Miccichè. Correnti di sinistra con le ossa rotte: l'ex pm stacca di 1.000 voti Rita Sanlorenzo.Per l'assegno di divorzio torna il criterio del tenore di vita che era stato abolito con la sentenza Grilli. Ma è improbabile una ricaduta sul caso di Veronica Lario e Silvio Berlusconi.Il ministro Alfonso Bonafede ha annunciato che il governo sta per mettere mano ai limiti massimi nella durata dei processi. La nostra proposta per il garantismo: niente ricorso dei pm dopo il primo grado.Lo speciale contiene tre articoliC'è voglia di cambiamento anche nella magistratura. È il risultato che emerge chiaramente dall'elezione di Piercamillo Davigo al Csm. Con un pienone di voti che lo incorona primo tra gli eletti di sempre. All'ex pm di Mani pulite oggi giudice in Cassazione, che ieri è stato in udienza tutto il giorno come nulla fosse, sono andate 2522 preferenze: un'enormità rispetto agli 8010 magistrati che sono andati a votare tra domenica e lunedì. Stacca un biglietto per il Consiglio superiore della magistratura pure Loredana Miccichè di Magistratura indipendente, eletta anche lei (con 1760 voti), nello scrutinio riservato all'elezione di due magistrati di legittimità. Resta fuori per un pelo dai seggi assegnati a Palazzo dei Marescialli, Carmelo Celentano di Unicost, la corrente della magistratura che attualmente esprime il presidente del sindacato delle toghe, l'Anm. Ma ad uscire con le ossa rotte è soprattutto Area che pure aveva mandato allo scontro un candidato di peso come Rita Sanlorenzo.Tutti eletti, invece, i quattro componenti che correvano in rappresentanza dei pubblici ministeri dove ciascuna delle quattro correnti aveva indicato un suo esponente. Ora, rispetto a questo scrutinio si dovrà solo verificare come si sono piazzati i singoli candidati. Ma l'ordine di arrivo serve solo per una conta ad uso interno: quattro erano i posti in lizza e altrettanti gli aspiranti. A completare la rosa, lo scrutinio (ancora in corso al momento di andare in stampa) che verificherà chi, tra i 13 candidati per 10 seggi disponibili da assegnare in rappresentanza della magistratura giudicante, resterà fuori dal Csm. Ma fin d'ora appare chiaro che le toghe italiane, se non altro per l'alto valore simbolico dell'elezione di Miccichè e soprattutto Davigo, sembrano virare a destra.L'una infatti è espressione di Magistratura indipendente, l'altro è il capo di Autonomia e indipendenza: entrambi sono espressione delle due correnti con un cultura della giurisdizione più distante da quella centrista di Unicost e soprattutto di Area, il cartello delle toghe di sinistra che ha come cuore pulsante Magistratura democratica. La candidata di Area, Sanlorenzo, si è piazzata ultima fermandosi a 1528 preferenze, staccata di 1000 voti rispetto a Davigo: tra i due è andata in scena per settimane una battaglia all'ultimo sangue. Sanlorenzo sapeva bene quale era il valore dello scontro che era deflagrato dopo alcune dichiarazioni del leader di Autonomia e indipendenza, tra tutte quella relativa all'andazzo preso, in fatto di nomine al Csm dove attualmente la componente più rappresentata è proprio quella di sinistra: «I consiglieri fanno come gli pare: mi aspetto la nomina di un cavallo, come fece Caligola». Immediata la reazione della maggiorente di Area che ha tuonato contro la sovraesposizione mediatica di Davigo ritenuto non solo «un magistrato con una formazione di destra». Ma soprattutto una toga «che ha sempre fatto parte del sistema, altro che homo novus». Parole grosse: mutuando da un lessico più che prosaico, si può tranquillamente affermare che, in questi mesi, sono volati gli stracci. In maniera assai irrituale per una categoria che non ha mai conosciuto prima d'ora modalità più tipiche dell'agone politico. Sempre nel collegio Cassazione, ha sfiorato di un soffio l'elezione per soli 46 voti Carmelo Celentano di Unicost con 1714 preferenze che ha dovuto cedere il secondo posto a Miccichè. Insomma, sia Area che Unicost perdono questi due seggi rispetto alla consiliatura che si concluderà il prossimo 25 settembre. Un vero e proprio ribaltone. Anche se, per dirsi tale, dovrà essere confermato dall'esisto dello scrutinio che assegnerà gli ultimi seggi riservati ai togati in attesa che il Parlamento in seduta comune elegga gli otto membri laici.Quanto ai membri togati sono state in smentite alcune previsioni della vigilia. Nonostante i numeri obiettivamente in ascesa di Autonomia e indipendenza nelle elezioni per il rinnovo dell'Associazione nazionale magistrati ormai due anni fa, le polemiche delle ultime settimane avevano lasciato ipotizzare una penalizzazione delle correnti teoricamente vicine al governo gialloverde. Da ultima quella del sottosegretario alla Gustizia del Carroccio Jacopo Marrone, che pochi giorni fa si era lasciato sfuggire una esternazione contro le toghe rosse che aveva suscitato la reazione dell'Anm, di tutte le correnti, ma pure dell'attuale vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Giovanni Legnini. Toni altissimi anche da parte del Partito democratico che aveva chiesto al Guardasigilli, Alfonso Bonfede (del Movimento 5 stelle) di prendere le distanze da Morrone chiedendo le dimissioni del sottosegretario. Il tutto quando il clima ancora rovente per la decisione della Cassazione sul sequestro dei conti del Carroccio. Circostanza che aveva spinto Matteo Salvini a chiedere un incontro a Sergio Mattarella che dell'organo di autogoverno delle toghe è il presidente. Chissà se le polemiche hanno cambiato le intenzioni di voto dei magistrati chiamati alle urne o se le hanno solo rafforzate. Ilaria Proietti<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/davigo-e-il-primo-degli-eletti-e-il-csm-svolta-verso-destra-2585809492.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="non-conta-solo-il-reddito-la-cassazione-rivoluziona-tutte-le-regole-dellassegno-di-divorzio" data-post-id="2585809492" data-published-at="1757527155" data-use-pagination="False"> Non conta solo il reddito: la Cassazione rivoluziona tutte le regole dell’assegno di divorzio I matrimoni di interesse restano blindati, ma chi ha intenzione di divorziare dovrà dire addio anche all'idea di liberarsi del proprio ex con un assegno da pochi euro, sufficiente appena per garantirgli la sussistenza, soprattutto se quest'ultimo ha sacrificato tempo e carriera per il bene della famiglia. Dopo lo scossone arrivato un anno fa con la sentenza Grilli che aveva cancellato il principio del tenore di vita (alla base della legge sul divorzio) da garantire all'ex coniuge, ecco un nuovo verdetto della Suprema corte che lascia ampio margine ai giudici e alle capacità dei legali di valorizzare la propria parte. D'ora in poi, gli alimenti da garantire al coniuge più debole economicamente dovranno essere calcolati caso per caso e tenere conto non solo delle condizioni oggettive dei due singoli una volta divorziati, ma anche del contributo che ognuno dei due ha dato allo stile di vita vissuto in comune fino a quel momento. A stabilire i nuovi parametri sono state le Sezioni unite che hanno ritoccato il verdetto emesso il 10 maggio 2017 dalla Suprema corte (numero 11504 del 2017) che aveva rivoluzionato il diritto di famiglia, escludendo il «parametro del tenore di vita dei coniugi goduto in costanza di matrimonio» e introducendo con forza il «criterio dell'indipendenza o autosufficienza economica». Con quella sentenza, il matrimonio aveva smesso di essere una «sistemazione definitiva» per cacciatori di dote, ma rischiava di trasformarsi in un boomerang per chi pur non contribuendo economicamente al reddito familiare si era comunque impegnato a farlo crescere». Il verdetto riguardava il caso dell'ex ministro dell'Economia Vittorio Grilli e dell'ex moglie Lisa Caryl Lowenstein. I giudici avevano deciso che a lei, che non aveva mai lavorato, non dovesse essere garantito lo stile di vita precedente alla separazione, ma semplicemente un assegno tale da offrirle per un anno la possibilità di una dignitosa sussistenza dopo di che la donna si sarebbe dovuta trovare in lavoro in base al principio della autoresponsabilità. La decisione aveva fatto molto discutere e aveva influito anche su casi ben noti alle cronache, come il processo Berlusconi-Lario. Lo scorso novembre, infatti, l'ex moglie del Cavaliere si era vista cancellare il maxi-assegno da 1,4 milioni, dopo che la Corte d'Appello di Milano aveva applicato proprio il precedente Grilli-Lowenstein. Oggi la Corte ha sancito che la giusta via sta nel mezzo. «Il contributo fornito alla conduzione della vita familiare costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi i coniugi, libere e responsabili, che possono incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell'unione matrimoniale» e in base alla singola storia di ogni coppia va individuato quanto il partner più forte debba garantire all'ex. Nel documento, lungo 38 pagine, si specifica che deve essere utilizzato un «criterio composito che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future di ogni individuo e all'età dell'avente diritto». Restano dunque fortemente penalizzati i matrimoni di puro interesse, quelli sciolti dopo pochi mesi nella convinzione di portare a casa il malloppo, ma torneranno ad essere importanti gli emolumenti da versare all'ex coniuge nel non infrequente caso (soprattutto tra le donne) che uno dei due partner abbia deciso di rinunciare al proprio lavoro per badare ai figli e permettere al marito di fare carriera. A sollecitare l'introduzione dei nuovi parametri erano state, nei mesi scorsi, proprio le associazioni femministe, scese in campo con un appello alle Sezioni unite per chiedere la reintroduzione del principio dello stile di vita e sottolineando come l'Italia, ben lontana dall'essere un Paese paritario, conti ancora oggi «molti casi di donne che sacrificano la professione alla cura della famiglia, dei figli, spesso anche alla carriera del marito». Il principio introdotto dalla nuova sentenza è che «all'assegno di divorzio deve attribuirsi una funzione assistenziale e, in pari misura, compensativa e perequativa», fondata «sui principi costituzionali di pari dignità e di solidarietà che permeano l'unione matrimoniale anche dopo lo scioglimento del vincolo». Come andrà a finire in casa Berlusconi dopo la svolta dello scorso autunno quando Veronica si era anche vista chiedere la restituzione di 45 milioni di euro? La sentenza (che in Italia fa giurisprudenza e non legge), ovviamente, non avrà alcun effetto immediato sul caso specifico. Ma tenendo conto che Lario aveva presentato ricorso, lo scorso febbraio, basando le proprie rimostranze proprio sul fatto che lei «su richiesta di Silvio Berlusconi, aveva rinunciato in giovane età alla carriera di attrice per dedicarsi interamente alla casa, alla famiglia e all'allevamento dei tre figli Barbara, Eleonora e Luigi» e che questo inevitabilmente aveva avvantaggiato chi aveva potuto dedicarsi «più liberamente e intensamente alle molteplici attività imprenditoriali e costruirsi un'immagine di capo di una famiglia felice, largamente sfruttata nella propria vita politica», le sorprese potrebbero non essere finite. Alessia Pedrielli <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/davigo-e-il-primo-degli-eletti-e-il-csm-svolta-verso-destra-2585809492.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="arriva-la-riforma-della-prescrizione-ma-allora-lasciamo-in-pace-gli-assolti" data-post-id="2585809492" data-published-at="1757527155" data-use-pagination="False"> Arriva la riforma della prescrizione. Ma allora lasciamo in pace gli assolti Due bandiere, una blu e una gialla. Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, le ha sventolate ieri nella prima audizione in Senato. Prima ha fatto sua una delle più tradizionali battaglie della Lega: «Riformare la legittima difesa, eliminando tutte le zone d'ombra che oggi rendono difficile e complicato dimostrare che si è agito solo per difendersi». Poi ha rilanciato una delle più antiche proposte del Movimento 5 stelle: «La riforma della prescrizione è una priorità irrinunciabile per accrescere il grado di fiducia dei cittadini nella giustizia». Equanime rispetto alle due anime del governo, il Guardasigilli grillino ha spiegato che la riforma della legittima difesa «riguarda anche la sicurezza: perché il cittadino costretto a difendersi deve sentire che lo Stato è al suo fianco». Ma ha anche preannunciato che allo studio del governo c'è «una riforma seria ed equilibrata della prescrizione», e che sta pensando di bloccarla «dopo la sentenza di primo grado». Bonafede ha lasciato capire che il suo impegno principale riguarderà proprio la prescrizione. Del resto, sospinta negli ultimi mesi dalla corrente dei magistrati più vicina a Piercamillo Davigo, l'abolizione dei limiti massimi di tempo per arrivare a una sentenza su un determinato reato è sempre stata nel cuore del Movimento 5 stelle. E infatti anche ieri il ministro ha voluto ricordare alcuni dati «sull'abnorme quantitativo di procedimenti falcidiati da questa scure»: nel 2017, ha detto Bonafede, «i procedimenti penali prescritti sono stati 125.551, cioè il 9,4% del totale, in aumento rispetto all'8,7% del 2016». Ovviamente, l'uscita preoccupa non poco gli avvocati: «Il ministro usa solo i dati che gli interessano», dice alla Verità Beniamino Migliucci, presidente dell'Unione delle camere penali, «ma dovrebbe ricordarne altri: quelli che dicono che dal 2005 le prescrizioni sono in calo, e soprattutto quelli che indicano che nel 60-70% dei casi le prescrizioni intervengono durante le indagini preliminari, quando il processo è nelle mani dei pubblici ministeri». In effetti, un'abolizione secca della prescrizione probabilmente violerebbe il principio costituzionale della ragionevole durata del processo e di certo scaricherebbe tutte le inefficienze e le lungaggini del sistema sull'imputato, troppo spesso innocente (le assoluzioni definitive e con formula piena sono 90.000 all'anno). Per intenderci, non è che poi la prescrizione sia proprio una tagliola nascosta dietro l'angolo: nel caso di una bancarotta fraudolenta, ad esempio, scatta dopo 18 anni e nove mesi; per una corruzione dopo 20; e arriva dopo 25 anni per una rapina a mano armata. Lo stesso Raffaele Cantone, che prima di diventare presidente dell'Autorità anticorruzione è stato per un quarto di secolo pm antimafia, ha dichiarato che «la prescrizione è un istituto di garanzia per il sistema: che senso ha senso condannare oggi una corruzione commessa vent'anni fa?». Non hanno tutti i torti nemmeno quanti sostengono che abolire la prescrizione avrebbe il paradossale effetto di allungare ancora di più i processi penali, perché pubblici ministeri e giudici, non più assillati dalla paura di vedere finire in nulla il loro lavoro, lavorerebbero meno di quanto già non facciano. Eppure, una riforma della prescrizione è politicamente assai probabile. Nei gruppi parlamentari della Lega c'è un'ala poco garantista, cui non dispiacerebbe affatto votare per un provvedimento di quel genere. Tra l'altro, cancellare la prescrizione sarebbe (una volta tanto) una riforma a costo zero, facile da far capire all'opinione pubblica, e potentemente demagogica. Insomma, tutto lascia pensare che, nel caso in cui il ministro Bonafede riuscisse davvero a incardinare in Parlamento una legge sulla prescrizione, questa potrebbe avere vita facile e un'approvazione veloce. Per questo, la Verità coglie l'occasione per lanciare una contro-proposta al ministro Guardasigilli. Visto che Bonafede attribuisce tanta importanza alla sentenza di primo grado, e vorrebbe che i calcoli della prescrizione si bloccassero a quel punto, perché non pensare a uno «scambio», proprio su quel fondamentale scalino giudiziario? Sì al blocco della prescrizione, insomma, ma sì anche a una vecchia proposta liberale: e cioè nessun processo d'appello per chi viene assolto in primo grado. Nel febbraio 2006 ci aveva provato intensamente Gaetano Pecorella, penalista milanese e ottimo docente di diritto penale, nonché parlamentare di Forza Italia e già presidente della commissione Giustizia alla Camera. La legge Pecorella, modificando alcuni articoli del Codice di procedura, rendeva inappellabili le assoluzioni di primo grado, tranne nel caso in cui venisse individuata una «nuova prova decisiva» a carico dell'imputato. Era un'innovazione giusta, profondamente garantista e intelligente, che traeva senso e forza anche dal diritto anglosassone. Dodici anni fa, però, la legge Pecorella fu criticata, contestata, demonizzata. Il motivo? Il solito: si riteneva potesse aiutare Silvio Berlusconi in alcune delle sue grane giudiziarie. Anche per quelle violente pressioni politiche (purtroppo accade più spesso di quanto non si creda), a partire dal 2007 la Corte costituzionale ha più volte ridimensionato la legge Pecorella, fino ad annullarla. Così La Verità lancia questa proposta: caro ministro Bonafede, visto oggi che non esiste neanche in teoria la possibilità di un uso «ad personam» dell'inappellabilità delle assoluzioni in primo grado, perché non riprende quell'idea? Aspettiamo una cortese risposta. Maurizio Tortorella
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