Sorpresa! Nessuno o quasi se ne è accorto, ma l'Italia ha comprato un reattore nucleare: ce lo ha chiesto l'Europa e il governo Gentiloni, un anno fa ha detto sì, senza battere ciglio. Nonostante lo smantellamento degli impianti chiusi dopo il referendum del 1987 proceda al rallentatore, il nostro Paese a breve entrerà a tutti gli effetti in possesso di un nuovo sito atomico con la ratifica di un accordo internazionale che languiva, inattuato, dal 2009. Ora la ratifica in questione è all'esame della Camera e prevede che il reattore in questione sia demolito, a costo zero per le casse dello Stato, ma a carico dei contribuenti. Grazie a un codicillo inserito lo scorso anno nella legge di stabilità, che stabilì che entro quest'anno venissero consegnate le chiavi al ministro dello Sviluppo, del reattore Ispra 1 del Centro di ricerca dell'Unione europea con sede a Varese. Affinché Sogin, la società del Tesoro finanziata con i soldi delle bollette degli italiani, proceda al decommissioning dell'impianto e prenda in carico i rifiuti radioattivi in esso prodotti negli anni, per trasferire tutto al deposito nazionale delle scorie nucleari. Che, come noto, ancora non esiste.
Ma allora perché acquistare altri rifiuti radioattivi? E soprattutto dove li metteremo (e a che prezzo) se il famoso deposito non sarà pronto per tempo?
Facciamo un passo indietro. Il 16 dicembre 2017, un sabato, mentre alla Camera era iniziato il rush finale per approvare la legge di Bilancio, il governo di allora - ormai agli sgoccioli - aveva infilato nel fascicolo degli emendamenti sei commi nuovi di pacca: tra le norme sulle autorità di bacino e quelle per incentivare la produzione dei bastoncini per la pulizia delle orecchie in materiale biodegradabile. E che dicevano queste misure dell'ultima ora, e nel silenzio generale, a Montecitorio dove la legge di Bilancio si trovava in seconda lettura? Che per onorare gli impegni con l'Europa bisognava assolutamente acquistare il vecchio reattore del Centro dell'Euratom con sede vicino al Lago Maggiore. Nel timore dell'apertura di un nuovo contenzioso con Bruxelles, stanca di aspettare che l'Italia mantenesse la parola data nel 2009: ossia mettere mano al portafoglio per disattivare l'impianto e provvedere al trattamento preliminare, il confezionamento, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi presenti nel sito.
Il costo stimato dell'operazione venne quantificato in 45 milioni di euro, direttamente caricati sulla bolletta tra gli oneri generali del sistema elettrico. L'emendamento in questione demandava poi al Mise il compito di provvedere entro un anno dall'entrata in vigore della legge di Stabilità agli adempimenti amministrativi relativi alle autorizzazioni e alle licenze necessarie ai lavori. Nelle more la Sogin, titolare della licenza del reattore, avrebbe corrisposto al Centro di ricerca della Commissione europea il costo sostenuto per la custodia passiva dei materiali: un rimborso da 5 milioni di euro. Anche questo a carico della componente A2 della bolletta elettrica. Ossia la componente tariffaria con cui ciascun contribuente italiano già paga, mensilmente, per lo smantellamento dell'eredità nucleare italiana. E per mantenere in sicurezza un cimitero di rifiuti radioattivi diffuso praticamente lungo tutta le penisola in attesa di portarli tutti in un sito centralizzato. Di cui si favoleggia senza costrutto da anni: gli ultimi 20 sono serviti a mettere a punto una mappa delle aree idonee che dal 2015 è però chiusa a chiave al ministero dello Sviluppo economico. L'Europa, peraltro, minaccia di spennarci su questa storia: a maggio di quest'anno la Commissione ha deferito l'Italia per la mancata trasmissione del programma nazionale di gestione del combustibile esaurito e dei rifiuti radioattivi che abbiamo in parte mandato provvisoriamente all'estero. O che sono ancora conservati nei nostri impianti dove, mancando il deposito unico, è stato necessario costruire per ragioni di sicurezza alcuni depositi temporanei.
Ma cosa abbiamo comprato da Bruxelles? A quanto è dato sapere, a Varese sono stoccati - in varie postazioni - circa 680 kg di combustibile irraggiato non ritrattabile, in forma di pellet, spezzoni di barrette, elementi di combustibile sperimentali, liquidi prodotti in 60 anni dal Centro di ricerca europeo. Nel frattempo, sempre a Varese, sono in corso di costruzione diversi impianti di gestione dei rifiuti al fine di trattare, caratterizzare, condizionare, confezionare e immobilizzare correttamente i rifiuti esistenti e i rifiuti derivanti dalle operazioni di smantellamento.
Ogni anno il programma di dismissione dei quattro centri di ricerca europea costa una tombola all'Unione europea: gli Stati membri attraverso il bilancio comune finanziano la gestione dei reattori comunitari di Karlsruhe (Germania), Petten (Paesi Bassi), Geel (Belgio) e appunto Varese. Che però adesso è tutto nostro. Inaugurato il 13 aprile del 1959 dal presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, e benedetto durante la cerimonia dal cardinale Giovanni Battista Montini, poi eletto al soglio pontificio col nome di Paolo VI, è ormai spento da anni. Nel 2009 il governo italiano e la Comunità europea dell'energia atomica si accordarono per definire il passaggio di proprietà dell'impianto. Ma da allora nessun inquilino che si era succeduto a Palazzo Chigi, prima di Gentiloni, lo aveva mai formalizzato perché nel nostro Paese lo smantellamento dei siti nucleari è al palo: come detto non si sa dove portarli, ma è certo che la loro gestione costa cara. E il conto da pagare continua a salire.
Tutto è perdonato. Il procuratore capo di Arezzo, Roberto Rossi, potrà restare al suo posto per altri quattro anni. Nonostante il clamore mediatico che lo ha investito a partire dal 2015, quando si scoprì che il pm dell'inchiesta Etruria aveva pure una consulenza a Palazzo Chigi. Ne era venuta fuori una polemica politica asprissima che aveva investito in pieno il giglio magico del Pd a trazione renziana. Di cui il neoeletto vicepresidente del Consiglio della Magistratura, David Ermini è stato fino a poco tempo fa esponente di stretta osservanza, salvo poi chiedere di essere sospeso dal partito pochi giorni fa, dopo la sua elezione sullo scranno più alto di Palazzo dei Marescialli.
La pratica con cui il Csm mercoledì prorogherà il procuratore Rossi farà certo discutere. Perché Pier Luigi Boschi, papà di Maria Elena Boschi, resta indagato per bancarotta nel filone sul crac di Etruria (la Procura di Arezzo ha chiesto, per lui e per il resto del vecchio consiglio d'amministrazione della banca, l'archiviazione dell'accusa di falso in prospetto e ricorso abusivo al credito). Mentre si sono chiuse - con molta fatica - le polemiche che hanno contrassegnato l'elezione al vertice del Csm di un profilo spiccatamente politico come quello di Ermini.
Ma cosa dice la pratica che verrà portata all'approvazione del plenum nei prossimi giorni? Che il Consiglio giudiziario di Firenze - nella seduta del 12 luglio scorso - ha espresso all'unanimità un giudizio «pienamente favorevole alla conferma nell'incarico» di Rossi. Che ha chiesto di poter proseguire fino al 2022 alla guida dell'ufficio aretino. Sulla proroga non sono giunte critiche o doglianze neppure dal Consiglio dell'ordine degli avvocati. E, sempre stando alla pratica in esame al Csm, «nessun elemento ostativo alla conferma emerge dalla documentazione esistente presso il Consiglio superiore (programmi organizzativi e tabellari, vicende disciplinari, procedure pendenti o definite presso la prima commissione, attività di formazione, eventuali incarichi extragiudiziari), né dagli esiti delle ispezioni ministeriali». Neppure la vicenda che ha dato la stura alle polemiche che nel recente passato hanno fatto accendere i riflettori di Palazzo dei Marescialli. Polemiche che, ad un certo momento, sembravano dover costare il trasferimento al magistrato. Che invece è restato e resterà al suo posto: a luglio del 2016 infatti il Csm ha deciso, seppure a maggioranza (11 voti a favore, un contrario e 9 astenuti), che la consulenza al Dipartimento affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio era legittima, perché all'esito di una lunga e complessa istruttoria la Prima commissione non aveva ravvisato elementi suscettibili di mettere Rossi in condizione di non esercitare le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità.
Il pm si era difeso dimostrando che la consulenza era stata attivata nel 2013, quando a Palazzo Chigi c'era sì un maggiorente del Pd, di sicuri natali toscani, ma si trattava di Enrico Letta e non di Matteo Renzi (che comunque confermò l'incarico). Il Rottamatore avrebbe portato Maria Elena Boschi a Palazzo Chigi come ministro delle Riforme solo a febbraio 2014, ossia pochi mesi prima che suo padre, Pier Luigi Boschi, fosse promosso vicepresidente di Etruria. Il Csm da parte sua si era peritato di sostenere che non vi fossero elementi neppure per configurare un rapporto di conoscenza tra il pm aretino e il ministro Boschi. E che dovessero escludersi rapporti pregressi anche tra il procuratore e Pierluigi Boschi, nonostante le ispezioni della Banca d'Italia sulla Bpel da cui era scaturita l'indagine della Procura aretina, Né rispetto ad altre indagini. «Sul punto», si legge nella pratica che conferma Rossi alla Procura di Arezzo, «va anche rilevato che la competente Commissione ha osservato che dalla documentazione inviata dalla Procura generale di Firenze, risultano procedimenti penali archiviati a partire dal 2010 in cui figurano il dottor Rossi come pubblico ministero e il signor Boschi come indagato, ma tale circostanza non è rilevante ai fini dell'affermazione che vi sia un rapporto di conoscenza tra i due, ulteriore rispetto a quello concernente l'esercizio della funzione giurisdizionale, in grado di appannare l'immagine di imparzialità del magistrato». Che ora potrà dunque concludere il suo lavoro.
Al Pd è riuscito il colpo grosso: piazzare, grazie a una ritrovata sintonia con la magistratura, il turborenziano David Ermini al vertice del Consiglio superiore della magistratura, l'organo di autogoverno delle toghe. Che gli hanno accordato fiducia nonostante gli screzi del passato sulle riforme più significative, come quella delle intercettazioni, da lui perorate come responsabile della giustizia dem. O in occasione dello scandalo Consip, quando l'Ermini politico si chiedeva se «ci fossero mandanti per danneggiare Renzi». Ora pare tutto perdonato: eletto vicepresidente a Palazzo dei Marescialli grazie ai voti di Unicost (5 dei consiglieri laici a cui si è aggiunto quello di Riccardo Fuzio, membro di diritto del Csm quale Procuratore generale della Cassazione e anche lui della corrente centrista). E di quelli di Magistratura indipendente, il cui leader storico Cosimo Ferri, già sottosegretario del ministro democratico Andrea Orlando, siede oggi tra i banchi del Pd alla Camera ed era sino a pochi giorni fa compagno di scranno dello stesso neo vicepresidente del Csm (la sua candidatura venne confermata da Renzi in zona Cesarini, visti i pochi posti sicuri): per Ermini (che ha ovviamente votato per sé) altri cinque voti più quello del primo presidente della Suprema corte, Giovanni Mammone, altro membro che siede di diritto al plenum e anche lui di Mi. Per Alberto Maria Benedetti, laico in quota Movimento 5 stelle, non sono bastati i due voti di Autonomia e indipendenza di Piercamillo Davigo, i quattro delle toghe di sinistra di Area, quelli dei tre dei laici (compreso lo stesso Benedetti) indicati dai pentastellati e dei due consiglieri della Lega. Astenuti i due eletti di Forza Italia, i cui voti avrebbero potuto essere determinanti. Ma Palazzo dei Marescialli a quanto pare non è la Rai.
Ma chi è Ermini? Classe 1959, è renziano praticamente da prima che Renzi nascesse. Infatti già nel 1978 (Matteo è del '75) Ermini, neo maggiorenne, veniva folgorato dalla favella del suo babbo: «Io avevo allora 18 anni e muovevo i primi passi nella Dc. Quando nella mia zona si discusse della possibilità di fare il governo con i comunisti la nostra base era contraria. In un'assemblea si alzò a parlare Tiziano (all'epoca ventisettenne, ndr) e si dichiarò invece a favore. Mi colpì il suo coraggio». Erano i giorni del compromesso storico ed Ermini, originario di Figline Valdarno, al confine con Rignano, aveva scoperto il fascino della sacra famiglia. Per la Dc fu consigliere comunale dal 1980 al 1985. Nel 2001 tentò da centrista di candidarsi a sindaco con il sostegno del centrodestra. «Venne da noi di Alleanza nazionale», ricorda l'ex consigliere provinciale Guido Sensi, «a chiederci di sostenerlo. A quell'incontro c'era anche l'allora consigliere regionale Achille Totaro». Ma il piano naufragò e il centrodestra candidò un altro nome.
Nel 2004 entrò in Provincia con il Partito popolare. Il presidente era il ventinovenne Matteo Renzi, esponente del suo stesso partito. E anche qui Ermini incrociò Sensi: «Lo chiamavamo “telefonino" perché entrava e usciva dall'aula e dalle commissioni sempre con il cellulare in mano. Parlava solo del suo lavoro d'avvocato».
Era associato allo studio di famiglia, quello del padre Angiolino, che si iscrisse all'ordine nel 1956, a 31 anni. David ci è riuscito a 34 anni, quando non era proprio più di primo pelo, sembra dopo il fratello Giovanni, più giovane di 5 anni. «Ma lui prima ha fatto politica e il giornalista» ricorda Federico Bagattini, storico difensore della famiglia Renzi. «Fece la pratica nello studio del penalista fiorentino Rodolfo Lena, di cui io ero il primo collaboratore. Me lo affidarono e lo svezzai professionalmente». Da allora si sono occupati di diverse difese in tandem, come quella di un architetto incolpato per il distacco di un ramo in un parco pubblico fiorentino che uccise una bambina. Da Internet apprendiamo che Ermini difese anche il proprietario di un canile di Rignano sull'Arno («Amici del cane e del gatto») e che gli fece patteggiare una pena da 200 euro. Da tempo Ermini aveva diradato l'impegno forense per fare politica, anche se formalmente non è più iscritto all'albo dei patrocinanti in Cassazione solo dal 14 settembre scorso. Ma non ha mai smesso di occuparsi di giustizia.
Come quando fece il relatore della proposta di legge sulla legittima difesa valida solo «in tempo di notte» o di intercettazioni. «La riforma che abbiamo bloccato era proprio la sua. Ora lo fanno pure presidente. Il Sistema è vivo e lotta contro di noi», ha ricordato ieri il vicepremier Luigi Di Maio.
Ma Ermini ha anche twittato all'impazzata sulla vicenda Consip: «Vogliamo sapere tutto e capire come mai un capitano dei carabinieri si avvale della facoltà di non rispondere» scrisse, lasciando basiti i colleghi. «Civiltà del diritto questa sconosciuta», replicò un mattacchione.
In un altro tweet si espose ancor di più: «Escono notizie di una gravità pazzesca. Prima si prende di mira Renzi poi si lavora su indagini? Vogliamo la verità. Ci sono mandanti?».
Il 24 settembre, dopo essere stato eletto membro laico del Csm, Ermini ha dato le dimissioni da parlamentare per incompatibilità ma, viste le premesse, non sarà comunque sereno per la sua nomina a vicepresidente Henry John Woodcock, il cui processo disciplinare proprio per l'inchiesta Consip riprenderà a Palazzo dei Marescialli il prossimo 5 novembre.
Fatto sta che alla fine della giornata di ieri il capo dello Stato, Sergio Mattarella, era di umore pessimo per lo strappo istituzionale registrato con le dichiarazioni acuminate del vicepremier Di Maio e con le mancate congratulazioni del presidente della Camera Roberto Fico. Ma soprattutto per le parole del ministro pentastellato alla Giustizia, Alfonso Bonafede: «Non posso non prendere atto che i magistrati del Csm hanno deciso di affidare la vicepresidenza del loro organo di autonomia a un esponente di primo piano del Partito democratico, unico politico eletto in questa legislatura tra i laici del Csm. In questi anni, da deputato mi sono sempre battuto affinché, a prescindere dallo schieramento politico, il Parlamento individuasse membri laici non esposti politicamente. Una battaglia essenziale, a mio avviso, per salvaguardare l'autonomia della magistratura dalla politica. Evidentemente sta più a cuore al ministro della Giustizia che alla maggioranza dei magistrati. Prendo atto che all'interno del Csm c'è una parte maggioritaria di magistrati che ha deciso di fare politica». L'intero Partito democratico ha alzato gli scudi a difesa del suo campione. Anche perché in tempi di magra, questa è una clamorosa vittoria per il Giglio magico.





