Dal maestro Visconti a Shakespeare. La carriera di un artista eclettico

I grandi artisti dovrebbero rimanere sempre giovani. Il tempo che passa deforma la loro figura. E Franco Zeffirelli, che ci ha lasciato ieri all'età di 96 anni, non sopportava l'aggressione del tempo. L'ha combattuta, poi tollerata, mai accettata. Rimpiangeva la forza, la bellezza, la sfrontatezza, l'aggressività della gioventù. Zeffirelli è stato un grande italiano. Un grande regista. Un grande artista. Un intellettuale scomodo.
Nel dopoguerra la cultura e le arti si sono allineate alla sinistra, massimalista o meno. Zeffirelli no. In ristretta compagnia si è tenuto alla larga dal vento dominante. Si era formato, nel teatro come nella cinematografia, abbeverandosi al talento visivo immenso di Luchino Visconti. Con lui aveva mosso i primi passi sul palcoscenico e, insieme al coetaneo Francesco Rosi, dietro la macchina da presa. Visconti, l'aristocratico Thomas Mann della celluloide italiana, gli inculca il rigore nel lavoro, la devozione all'espressione artistica, il volare alto. Una lezione mai dimenticata né rinnegata.
È sul set di Senso (1954) di Visconti, tratto da un racconto di Camillo Boito, che medita sulla complessità dell'opera cinematografica, misto di eleganza formale e intense passioni umane, dove tutto si mescola: letteratura, musica, pittura, ideologia. Rileggendo la carriera di Franco Zeffirelli si resta stupiti nel constatare come l'opera di esordio nella cinematografia sia un filmetto giovanile, Camping (1957), allegro e spensierato, interpretato da Nino Manfredi, Paolo Ferrari e Marisa Allasio. Quest'ultima - avvenente «maggiorata» - è la protagonista di Poveri ma belli (1957) di Dino Risi, nitida radiografia dell'Italia del boom economico.
Il neorealismo, inaugurato e chiuso da Visconti in un decennio (dal 1943 di Ossessione al 1954 di Senso) ormai ha esaurito la sua spinta. È stato lo specchio nel quale si sono riflesse le paure degli italiani, impantanati nel dopoguerra con le ossa ancora dolenti e il morale sotto i tacchi. Ora quello specchio, attraverso la commedia leggera o meno, artistica o meno, sta riflettendo le speranze degli italiani, la loro voglia di vivere, il desiderio di mostrarsi, appunto, belli pur se poveri.
E Zeffirelli a questo filone si ispira, anche se gli va stretto, avendo lavorato con successo nella messa in scena di sontuose e raffinate opere liriche. A quasi dieci anni di distanza da Camping, torna sul set con una commedia. Stavolta però siamo nel lusso: un adattamento da Shakespeare, La bisbetica domata (1967), recitato in inglese e interpretato da due divi dell'epoca, i litigiosi ma onnipresenti nei rotocalchi Liz Taylor e Richard Burton. L'anno dopo Zeffirelli replica con un'altra messa in scena shakespeariana, Romeo e Giulietta (1968). Ormai il regista fiorentino si muove a proprio agio nel mondo internazionale del cinema e della lirica. Gli manca l'ultimo tassello per fissare in maniera definitiva la propria ricerca: la religione.
Fa le prove con la vita di San Francesco, in Fratello sole, sorella luna (1972), prima di gettarsi nel Gesù di Nazareth (1977) televisivo. È una prova di grandissima difficoltà: cimentarsi con un soggetto universalmente noto, con spirito di divulgazione, rifuggendo l'apologetica dei kolossal hollywoodiani.
Zeffirelli ormai è un artista consacrato nel mondo, anche se la critica (la nazionale, ma anche consistenti strati della straniera) perlopiù storce il naso. Passano in second'ordine opere più che degne quali Il campione (1979), Il giovane Toscanini (1988), Amleto (1990) con Mel Gibson. Migliore sorte viene riservata al dittico tratto da Charlotte Brontë: Storia di una capinera (1993) e Jane Eyre (1996). Pessima è invece l'accoglienza per Un tè con Mussolini (1999) e Callas Forever (2002).
L'anticonformismo, classicheggiante e aristocratico di Zeffirelli, il dichiararsi in ogni occasione cattolico, hanno contribuito a creare nei confronti della sua opera una palpabile diffidenza. Il tempo porrà rimedio a questo grave ed imperdonabile errore di valutazione.






