2019-06-16
Dal maestro Visconti a Shakespeare. La carriera di un artista eclettico
Cineasta e scenografo, Franco Zeffirelli passava dalla prosa alla lirica e lavorò con star internazionali.I grandi artisti dovrebbero rimanere sempre giovani. Il tempo che passa deforma la loro figura. E Franco Zeffirelli, che ci ha lasciato ieri all'età di 96 anni, non sopportava l'aggressione del tempo. L'ha combattuta, poi tollerata, mai accettata. Rimpiangeva la forza, la bellezza, la sfrontatezza, l'aggressività della gioventù. Zeffirelli è stato un grande italiano. Un grande regista. Un grande artista. Un intellettuale scomodo. Nel dopoguerra la cultura e le arti si sono allineate alla sinistra, massimalista o meno. Zeffirelli no. In ristretta compagnia si è tenuto alla larga dal vento dominante. Si era formato, nel teatro come nella cinematografia, abbeverandosi al talento visivo immenso di Luchino Visconti. Con lui aveva mosso i primi passi sul palcoscenico e, insieme al coetaneo Francesco Rosi, dietro la macchina da presa. Visconti, l'aristocratico Thomas Mann della celluloide italiana, gli inculca il rigore nel lavoro, la devozione all'espressione artistica, il volare alto. Una lezione mai dimenticata né rinnegata. È sul set di Senso (1954) di Visconti, tratto da un racconto di Camillo Boito, che medita sulla complessità dell'opera cinematografica, misto di eleganza formale e intense passioni umane, dove tutto si mescola: letteratura, musica, pittura, ideologia. Rileggendo la carriera di Franco Zeffirelli si resta stupiti nel constatare come l'opera di esordio nella cinematografia sia un filmetto giovanile, Camping (1957), allegro e spensierato, interpretato da Nino Manfredi, Paolo Ferrari e Marisa Allasio. Quest'ultima - avvenente «maggiorata» - è la protagonista di Poveri ma belli (1957) di Dino Risi, nitida radiografia dell'Italia del boom economico. Il neorealismo, inaugurato e chiuso da Visconti in un decennio (dal 1943 di Ossessione al 1954 di Senso) ormai ha esaurito la sua spinta. È stato lo specchio nel quale si sono riflesse le paure degli italiani, impantanati nel dopoguerra con le ossa ancora dolenti e il morale sotto i tacchi. Ora quello specchio, attraverso la commedia leggera o meno, artistica o meno, sta riflettendo le speranze degli italiani, la loro voglia di vivere, il desiderio di mostrarsi, appunto, belli pur se poveri. E Zeffirelli a questo filone si ispira, anche se gli va stretto, avendo lavorato con successo nella messa in scena di sontuose e raffinate opere liriche. A quasi dieci anni di distanza da Camping, torna sul set con una commedia. Stavolta però siamo nel lusso: un adattamento da Shakespeare, La bisbetica domata (1967), recitato in inglese e interpretato da due divi dell'epoca, i litigiosi ma onnipresenti nei rotocalchi Liz Taylor e Richard Burton. L'anno dopo Zeffirelli replica con un'altra messa in scena shakespeariana, Romeo e Giulietta (1968). Ormai il regista fiorentino si muove a proprio agio nel mondo internazionale del cinema e della lirica. Gli manca l'ultimo tassello per fissare in maniera definitiva la propria ricerca: la religione. Fa le prove con la vita di San Francesco, in Fratello sole, sorella luna (1972), prima di gettarsi nel Gesù di Nazareth (1977) televisivo. È una prova di grandissima difficoltà: cimentarsi con un soggetto universalmente noto, con spirito di divulgazione, rifuggendo l'apologetica dei kolossal hollywoodiani. Zeffirelli ormai è un artista consacrato nel mondo, anche se la critica (la nazionale, ma anche consistenti strati della straniera) perlopiù storce il naso. Passano in second'ordine opere più che degne quali Il campione (1979), Il giovane Toscanini (1988), Amleto (1990) con Mel Gibson. Migliore sorte viene riservata al dittico tratto da Charlotte Brontë: Storia di una capinera (1993) e Jane Eyre (1996). Pessima è invece l'accoglienza per Un tè con Mussolini (1999) e Callas Forever (2002). L'anticonformismo, classicheggiante e aristocratico di Zeffirelli, il dichiararsi in ogni occasione cattolico, hanno contribuito a creare nei confronti della sua opera una palpabile diffidenza. Il tempo porrà rimedio a questo grave ed imperdonabile errore di valutazione.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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