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2025-10-13
Ufficio segreto e cassaforte vuota. Altri misteri nel caso «Squadretta»
Mario Venditti (Ansa)
Quando gli investigatori arrivano in piazza Marelli a Pavia trovano solo una cassaforte vuota. L’ufficio riservato del maggiore dei carabinieri in pensione Maurizio Pappalardo era stato svuotato. Stiamo parlando del militare sotto processo per corruzione e stalking, l’uomo che, per molti testimoni, era il punto di riferimento e la mente della Squadretta che affiancava l’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, pure lui sotto inchiesta per corruzione e peculato.
La storia che vi raccontiamo oggi si trova nelle carte del fascicolo Clean 2 e comincia con una segnalazione. Il 10 dicembre 2024, nel pieno dell’indagine, la Guardia di finanza scrive alla Procura: «Si è appreso che il costruttore Carmine Napolitano avrebbe incaricato un suo dipendente, Marco Pilla, di svuotare un ufficio, sito in piazza Marelli, in uso esclusivo a Pappalardo, facendone depositare il contenuto in un garage sito nella stessa piazza». La decisione di ripulire il locale sarebbe stata contestuale «alla notizia apparsa sugli organi di stampa relativa alla conclusione delle indagini nei confronti di Pappalardo e dei vertici dell’Asm di Pavia (la municipalizzata dei rifiuti, ndr)», ovvero l’inchiesta madre «Clean». L’annotazione è la prima traccia dell’ufficio «fantasma» ricavato, si è scoperto, in un locale commerciale del centro della città, formalmente di proprietà del gruppo immobiliare di Napolitano ma usato, secondo gli inquirenti, come appoggio privato dal maggiore in congedo, indagato in quel momento insieme con il maresciallo Antonio Scoppetta (poi condannato a 4 anni e 6 mesi per stalking e corruzione). E di tracce che portavano verso quell’ufficio ne erano saltate fuori diverse.
Un carabiniere, l’appuntato scelto Giovanni Pais, in servizio al Nucleo informativo, ha dichiarato: «Spesso (Pappalardo, ndr) si faceva portare in piazza Dante, ex Marelli, dove l’imprenditore Napolitano ha costruito un complesso immobiliare». Da quel momento il Nucleo mobile della Guardia di finanza comincia a scandagliare il contesto economico di Napolitano, 73 anni, costruttore lucano trapiantato in Lombardia, e del suo dipendente Pilla, assunto dalla Gsc srl unipersonale, una delle società riconducibili al gruppo dell’imprenditore. Il passo successivo è l’acquisizione dei tabulati telefonici. Il 13 gennaio 2025 la Guardia di finanza chiede alla Procura di analizzare le utenze di Pilla e Pappalardo, con un’attenzione particolare al periodo immediatamente successivo alla notizia della chiusura delle indagini Clean. L’oggetto della richiesta è chiarissimo: «Verificare la presenza in quella zona e in quei tempi della persona che avrebbe materialmente spostato documentazione o altro materiale di presumibile interesse investigativo».
Dall’esame dei dati, scrive il maggiore Pietro D’Angelo, comandante del Gruppo Pavia, «è stata appurata, come peraltro più che prevedibile, la presenza nella zona segnalata del nominato Pilla; presente in quei giorni ma anche in quelli precedenti e in quelli successivi, praticamente quotidianamente». Ma ecco il passaggio rilevante: «Parimenti sono stati acclarati diversi contatti telefonici del citato Pilla con le numerose utenze intestate al costruttore Napolitano». In effetti, i tabulati mostrano decine di telefonate tra i due nei giorni caldi di novembre. Il 27 gennaio il pubblico ministero Alberto Palermo convoca Pilla come persona informata sui fatti. E Pilla dichiara: «Il mio titolare è Carmine Napolitano. So che quest’ultimo è amico di Pappalardo. Lo so perché mi è capitato di vederli insieme sul lavoro e avevano un atteggiamento amichevole». Poi arriva al punto: «Controllando la chat Whatsapp intercorsa con Pappalardo, rilevo che in data 16 ottobre 2023 gli chiedevo la disponibilità per la giornata successiva di vederci per consegnargli le chiavi dell’ufficio vendite di piazza Marelli».
L’uomo descrive minuziosamente le tre stanze del locale: scrivanie, divanetti, armadi, un frigorifero nel corridoio e «una piccola cassaforte, dietro la scrivania a sinistra della porta finestra». Entra anche nei dettagli: «La cassaforte è chiusa, ma c’è una chiave che è appesa nell’armadio della prima stanza e c’è anche una combinazione. Non so che contenuto abbia». Infine, aggiunge: «Suppongo che il senso della consegna delle chiavi a Pappalardo fosse legato al fatto che Napolitano glielo voleva lasciare in uso, come appoggio». Le chiavi, conferma, non sono mai state restituite: «Ritengo che siano ancora nella disponibilità di Pappalardo». Poche ore dopo quel verbale, i pm firmano il decreto di perquisizione. Alle 11, la Guardia di finanza bussa alla porta dell’ufficio in piazza Marelli. Sono presenti sia Napolitano sia Pilla. E l’imprenditore dichiara: «Conosco Pappalardo. Da quando è andato in pensione, mi ha chiesto se, per cortesia, potessi mettergli a disposizione un locale qualora ne avesse avuto bisogno per suoi motivi personali e io gli ho risposto che poteva appoggiarsi al mio ufficio sito all’interno dell’ufficio vendite. E ho fatto consegnare copia delle chiavi da Pilla». Durante la perquisizione viene trovato il forziere. E i finanzieri annotano le fasi che hanno portato alla sua laboriosa (e inutile) apertura: «All’interno del locale indicato i militari verbalizzanti notavano la presenza di una cassaforte con apertura combinata chiave-combinazione manuale. Veniva, pertanto, richiesta l’apertura della stessa a Napolitano, che riferiva di non ricordare la combinazione e di non ricordare dove avesse depositato la chiave».
Napolitano chiama un suo dipendente che arriva con un flessibile e taglia il metallo. «La cassaforte risultava vuota». I motivi per cui sono stati svuotati ufficio e cassaforte non sono mai stati chiariti. Ma di certo gli inquirenti sapevano che Napolitano era un uomo di fiducia di Pappalardo. È stato il carabiniere Pietro Picone a confermarlo: «Lui (Pappalardo, ndr) una volta in auto mi disse che nella sua vita aveva solo cinque amici». Tra i quali avrebbe annoverato anche il luogotenente Silvio Sapone, perquisito dalla Procura di Brescia nell’indagine sull’archiviazione della posizione di Andrea Sempio per l’omicidio di Chiara Poggi, il titolare di un ristorante di Pavia poi deceduto, il proprietario di una Spa frequentata anche dal procuratore Venditti e un ulteriore nome che il carabiniere non ricordava. Il quinto amico era proprio Carmine Napolitano. «In una occasione, ora che ricordo, lo accompagnai al funerale del figlio dell’imprenditore, sempre in orario di servizio e con la vettura di servizio».
Ma il maggiore con l’amico non avrebbe condiviso solo i momenti bui. Secondo Picone, Pappalardo gli raccontò anche «di essere stato ospite più volte all’isola d’Elba». Il rapporto che lega Pappalardo a Napolitano, «citato nell’indagine Infinito della Dda di Milano nel capitolo inerente alla locale della ‘ndrangheta a Pavia», precisa la Guardia di finanza, «è sicuramente solido». E ricostruisce: il maggiore «festeggia il compleanno» con l’imprenditore «e in ogni occorrenza importante è al suo fianco». L’imprenditore avrebbe ricambiato le attenzioni. C’era alla festa per i 90 anni della madre di Pappalardo, che ospitava in una delle sue strutture Rsa. E gli ha fornito l’ufficio segreto con cassaforte. Uno dei misteri dell’inchiesta «Clean 2».
I legali di Venditti: inchiesta su Sempio a Brescia
La nuova inchiesta sul caso di Garlasco, quella che vede come unico indagato Andrea Sempio, non può restare a Pavia. Deve andare a Brescia. A sostenerlo è Domenico Aiello, l’avvocato dell’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, indagato proprio dai magistrati bresciani per corruzione in atti giudiziari in relazione all’archiviazione lampo che nel 2017 aveva chiuso la posizione dello storico amico di Marco Poggi, fratello di Chiara. Aiello non usa giri di parole: «L’indagine su Sempio è il contenitore nell’ambito del quale è stata rinvenuta la prova di un’ipotesi corruttiva. Quindi è evidente che non si può selezionare una parte dell’indagine da mandare e una da non mandare. È tutto connesso». Il legale lo ha detto in un punto stampa convocato ieri in vista dell’udienza di martedì davanti al tribunale del Riesame, che dovrà decidere sul sequestro e la perquisizione eseguiti il 26 settembre scorso a carico dell’ex magistrato pavese. All’udienza sarà presente anche lo stesso Venditti. «È stato aggredito un uomo con una potenza di fuoco inimmaginabile», ha detto Aiello, che ha aggiunto: «La sua immagine è compromessa, hanno distrutto un uomo». Poi ha alzato il tiro: «L’indagine contro un magistrato è un’indagine della giustizia contro la giustizia e può avere effetti deflagranti anche quando il magistrato risulta innocente. Prima di iscrivere un magistrato, si aspetta la certezza della prova. Siamo in un momento veramente triste, perché già l’indagine sull’omicidio di Chiara Poggi ha destabilizzato il sistema giudiziario; ora si innesta questa nuova aggressione al sistema giustizia, perché si dice che il magistrato è corrotto». Parole pesanti, quelle dell’avvocato, che chiama in causa la tenuta stessa delle istituzioni giudiziarie. Ma Aiello non si ferma qui: «È una eresia giuridica l’equazione per cui, se Venditti è corrotto, allora Stasi (Alberto, ndr) è innocente e Sempio colpevole. Dobbiamo tornare a considerare le regole del processo e dell’indagine penale». C’è, poi, il capitolo più tecnico, quello che riguarda la mancata consegna delle password dei dispositivi sequestrati all’ex procuratore aggiunto. Aiello ha spiegato: «Il dottor Venditti, come possono testimoniare i sei ufficiali di polizia giudiziaria intervenuti, aveva già scritto le password su un foglio di carta e lo stava consegnando al maggiore alla fine delle operazioni. Prima che glielo desse, ho chiesto quali fossero i criteri di estrazione dei dati della documentazione e mi è stato risposto: “Non li abbiamo, non abbiamo parole chiave, diamo uno sguardo generale”». Il legale ha aggiunto: «Questo non è possibile in Italia oggi. È un metodo da combattere. Dimostra che si è iscritto qualcuno nel registro degli indagati senza avere indizi o prove certe. Allora io, in quel momento, ho detto che non ero d’accordo». Nel frattempo il generale Luciano Garofano, consulente di Sempio, è stato convocato dagli inquirenti bresciani per chiarire la provenienza della relazione sul Dna depositata dai consulenti di Stasi e finita, prima che questa fosse stata messa a disposizione delle parti, nella sua consulenza (poi non depositata) realizzata per la difesa di Sempio.
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Dalle carte del fascicolo su «Clean 2» emerge che il maggiore dei carabinieri Pappalardo, oggi sotto processo per corruzione e stalking, si serviva di un locale «fantasma». Ripulito non appena l’indagine divenne pubblica.Il difensore Aiello: «Se l’ex pm è corrotto, allora Stasi è innocente? Eresia giuridica».Lo speciale contiene due articoli.Quando gli investigatori arrivano in piazza Marelli a Pavia trovano solo una cassaforte vuota. L’ufficio riservato del maggiore dei carabinieri in pensione Maurizio Pappalardo era stato svuotato. Stiamo parlando del militare sotto processo per corruzione e stalking, l’uomo che, per molti testimoni, era il punto di riferimento e la mente della Squadretta che affiancava l’ex procuratore aggiunto di Pavia, Mario Venditti, pure lui sotto inchiesta per corruzione e peculato.La storia che vi raccontiamo oggi si trova nelle carte del fascicolo Clean 2 e comincia con una segnalazione. Il 10 dicembre 2024, nel pieno dell’indagine, la Guardia di finanza scrive alla Procura: «Si è appreso che il costruttore Carmine Napolitano avrebbe incaricato un suo dipendente, Marco Pilla, di svuotare un ufficio, sito in piazza Marelli, in uso esclusivo a Pappalardo, facendone depositare il contenuto in un garage sito nella stessa piazza». La decisione di ripulire il locale sarebbe stata contestuale «alla notizia apparsa sugli organi di stampa relativa alla conclusione delle indagini nei confronti di Pappalardo e dei vertici dell’Asm di Pavia (la municipalizzata dei rifiuti, ndr)», ovvero l’inchiesta madre «Clean». L’annotazione è la prima traccia dell’ufficio «fantasma» ricavato, si è scoperto, in un locale commerciale del centro della città, formalmente di proprietà del gruppo immobiliare di Napolitano ma usato, secondo gli inquirenti, come appoggio privato dal maggiore in congedo, indagato in quel momento insieme con il maresciallo Antonio Scoppetta (poi condannato a 4 anni e 6 mesi per stalking e corruzione). E di tracce che portavano verso quell’ufficio ne erano saltate fuori diverse.Un carabiniere, l’appuntato scelto Giovanni Pais, in servizio al Nucleo informativo, ha dichiarato: «Spesso (Pappalardo, ndr) si faceva portare in piazza Dante, ex Marelli, dove l’imprenditore Napolitano ha costruito un complesso immobiliare». Da quel momento il Nucleo mobile della Guardia di finanza comincia a scandagliare il contesto economico di Napolitano, 73 anni, costruttore lucano trapiantato in Lombardia, e del suo dipendente Pilla, assunto dalla Gsc srl unipersonale, una delle società riconducibili al gruppo dell’imprenditore. Il passo successivo è l’acquisizione dei tabulati telefonici. Il 13 gennaio 2025 la Guardia di finanza chiede alla Procura di analizzare le utenze di Pilla e Pappalardo, con un’attenzione particolare al periodo immediatamente successivo alla notizia della chiusura delle indagini Clean. L’oggetto della richiesta è chiarissimo: «Verificare la presenza in quella zona e in quei tempi della persona che avrebbe materialmente spostato documentazione o altro materiale di presumibile interesse investigativo».Dall’esame dei dati, scrive il maggiore Pietro D’Angelo, comandante del Gruppo Pavia, «è stata appurata, come peraltro più che prevedibile, la presenza nella zona segnalata del nominato Pilla; presente in quei giorni ma anche in quelli precedenti e in quelli successivi, praticamente quotidianamente». Ma ecco il passaggio rilevante: «Parimenti sono stati acclarati diversi contatti telefonici del citato Pilla con le numerose utenze intestate al costruttore Napolitano». In effetti, i tabulati mostrano decine di telefonate tra i due nei giorni caldi di novembre. Il 27 gennaio il pubblico ministero Alberto Palermo convoca Pilla come persona informata sui fatti. E Pilla dichiara: «Il mio titolare è Carmine Napolitano. So che quest’ultimo è amico di Pappalardo. Lo so perché mi è capitato di vederli insieme sul lavoro e avevano un atteggiamento amichevole». Poi arriva al punto: «Controllando la chat Whatsapp intercorsa con Pappalardo, rilevo che in data 16 ottobre 2023 gli chiedevo la disponibilità per la giornata successiva di vederci per consegnargli le chiavi dell’ufficio vendite di piazza Marelli».L’uomo descrive minuziosamente le tre stanze del locale: scrivanie, divanetti, armadi, un frigorifero nel corridoio e «una piccola cassaforte, dietro la scrivania a sinistra della porta finestra». Entra anche nei dettagli: «La cassaforte è chiusa, ma c’è una chiave che è appesa nell’armadio della prima stanza e c’è anche una combinazione. Non so che contenuto abbia». Infine, aggiunge: «Suppongo che il senso della consegna delle chiavi a Pappalardo fosse legato al fatto che Napolitano glielo voleva lasciare in uso, come appoggio». Le chiavi, conferma, non sono mai state restituite: «Ritengo che siano ancora nella disponibilità di Pappalardo». Poche ore dopo quel verbale, i pm firmano il decreto di perquisizione. Alle 11, la Guardia di finanza bussa alla porta dell’ufficio in piazza Marelli. Sono presenti sia Napolitano sia Pilla. E l’imprenditore dichiara: «Conosco Pappalardo. Da quando è andato in pensione, mi ha chiesto se, per cortesia, potessi mettergli a disposizione un locale qualora ne avesse avuto bisogno per suoi motivi personali e io gli ho risposto che poteva appoggiarsi al mio ufficio sito all’interno dell’ufficio vendite. E ho fatto consegnare copia delle chiavi da Pilla». Durante la perquisizione viene trovato il forziere. E i finanzieri annotano le fasi che hanno portato alla sua laboriosa (e inutile) apertura: «All’interno del locale indicato i militari verbalizzanti notavano la presenza di una cassaforte con apertura combinata chiave-combinazione manuale. Veniva, pertanto, richiesta l’apertura della stessa a Napolitano, che riferiva di non ricordare la combinazione e di non ricordare dove avesse depositato la chiave».Napolitano chiama un suo dipendente che arriva con un flessibile e taglia il metallo. «La cassaforte risultava vuota». I motivi per cui sono stati svuotati ufficio e cassaforte non sono mai stati chiariti. Ma di certo gli inquirenti sapevano che Napolitano era un uomo di fiducia di Pappalardo. È stato il carabiniere Pietro Picone a confermarlo: «Lui (Pappalardo, ndr) una volta in auto mi disse che nella sua vita aveva solo cinque amici». Tra i quali avrebbe annoverato anche il luogotenente Silvio Sapone, perquisito dalla Procura di Brescia nell’indagine sull’archiviazione della posizione di Andrea Sempio per l’omicidio di Chiara Poggi, il titolare di un ristorante di Pavia poi deceduto, il proprietario di una Spa frequentata anche dal procuratore Venditti e un ulteriore nome che il carabiniere non ricordava. Il quinto amico era proprio Carmine Napolitano. «In una occasione, ora che ricordo, lo accompagnai al funerale del figlio dell’imprenditore, sempre in orario di servizio e con la vettura di servizio».Ma il maggiore con l’amico non avrebbe condiviso solo i momenti bui. Secondo Picone, Pappalardo gli raccontò anche «di essere stato ospite più volte all’isola d’Elba». Il rapporto che lega Pappalardo a Napolitano, «citato nell’indagine Infinito della Dda di Milano nel capitolo inerente alla locale della ‘ndrangheta a Pavia», precisa la Guardia di finanza, «è sicuramente solido». E ricostruisce: il maggiore «festeggia il compleanno» con l’imprenditore «e in ogni occorrenza importante è al suo fianco». L’imprenditore avrebbe ricambiato le attenzioni. C’era alla festa per i 90 anni della madre di Pappalardo, che ospitava in una delle sue strutture Rsa. E gli ha fornito l’ufficio segreto con cassaforte. 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Aiello non usa giri di parole: «L’indagine su Sempio è il contenitore nell’ambito del quale è stata rinvenuta la prova di un’ipotesi corruttiva. Quindi è evidente che non si può selezionare una parte dell’indagine da mandare e una da non mandare. È tutto connesso». Il legale lo ha detto in un punto stampa convocato ieri in vista dell’udienza di martedì davanti al tribunale del Riesame, che dovrà decidere sul sequestro e la perquisizione eseguiti il 26 settembre scorso a carico dell’ex magistrato pavese. All’udienza sarà presente anche lo stesso Venditti. «È stato aggredito un uomo con una potenza di fuoco inimmaginabile», ha detto Aiello, che ha aggiunto: «La sua immagine è compromessa, hanno distrutto un uomo». Poi ha alzato il tiro: «L’indagine contro un magistrato è un’indagine della giustizia contro la giustizia e può avere effetti deflagranti anche quando il magistrato risulta innocente. Prima di iscrivere un magistrato, si aspetta la certezza della prova. Siamo in un momento veramente triste, perché già l’indagine sull’omicidio di Chiara Poggi ha destabilizzato il sistema giudiziario; ora si innesta questa nuova aggressione al sistema giustizia, perché si dice che il magistrato è corrotto». Parole pesanti, quelle dell’avvocato, che chiama in causa la tenuta stessa delle istituzioni giudiziarie. Ma Aiello non si ferma qui: «È una eresia giuridica l’equazione per cui, se Venditti è corrotto, allora Stasi (Alberto, ndr) è innocente e Sempio colpevole. Dobbiamo tornare a considerare le regole del processo e dell’indagine penale». C’è, poi, il capitolo più tecnico, quello che riguarda la mancata consegna delle password dei dispositivi sequestrati all’ex procuratore aggiunto. Aiello ha spiegato: «Il dottor Venditti, come possono testimoniare i sei ufficiali di polizia giudiziaria intervenuti, aveva già scritto le password su un foglio di carta e lo stava consegnando al maggiore alla fine delle operazioni. Prima che glielo desse, ho chiesto quali fossero i criteri di estrazione dei dati della documentazione e mi è stato risposto: “Non li abbiamo, non abbiamo parole chiave, diamo uno sguardo generale”». Il legale ha aggiunto: «Questo non è possibile in Italia oggi. È un metodo da combattere. Dimostra che si è iscritto qualcuno nel registro degli indagati senza avere indizi o prove certe. Allora io, in quel momento, ho detto che non ero d’accordo». Nel frattempo il generale Luciano Garofano, consulente di Sempio, è stato convocato dagli inquirenti bresciani per chiarire la provenienza della relazione sul Dna depositata dai consulenti di Stasi e finita, prima che questa fosse stata messa a disposizione delle parti, nella sua consulenza (poi non depositata) realizzata per la difesa di Sempio.
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L’allarme sul nuovo capitolo - quello che riguarda le bottiglie da spumante o da vini da invecchiare e l’olio extravergine d’oliva (che teme come la peste la luce del sole) - è stato lanciato dal presidente del Coreve, il consorzio italiano per il riciclo del vetro che detiene il record europeo, con l’81% di vetro «circolare», pari a 2,1 milioni di tonnellate nel 2024 (ben sei punti sopra le quote massime richieste da Bruxelles). Che dice: vogliono cancellare le bottiglie scure per il Prosecco. Spiega il presidente Gianni Scotti che tutto nasce dall’idea di Germania e Danimarca d’imporre in Ue solo le bottiglie da birra. S’attaccano al fatto che i lettori ottici, quando devono selezionare una bottiglia scura, la scambiano per ceramica e non la mandano alla fusione, abbassando il tetto delle quantità riciclate. «Abbiamo dimostrato», spiega Scotti, che le nostre macchine arrivano a scartare meno dell’1% del vetro. Speriamo di convincere l’Europa che le indicazioni che vengono da loro sono obsolete». E anche Assovetro, il cui presidente è Marco Ravasi e che usa il rottame di vetro, si dice preoccupata per la piega che sta prendendo Bruxelless. La speranza è l’ultima dea, ma la concorrenza interna all’Ue può molto di più. Gli attacchi al vino da parte dei Paesi del Nord, che lamentano il fatto che sulla birra c’è una (minima) accisa e sul vino no, si ripetono a ondate. Prima l’Irlanda ha imposto le etichette con scritto «il vino fa male», violando i trattati, ma Ursula von der Leyen ha dato loro ragione; poi la Commissione ha approvato il Beca (documento anti cancro che deve passare dall’Eurocamera) per ipertassare il vino, restringerne la vendita e abolirne la promozione; ora si passa dal vetro. Tutto a danno dei Paesi mediterranei, ignorando che in premessa, nel regolamento sugli imballaggi, c’è scritto: «Imballaggi appropriati sono indispensabili per proteggere i prodotti».
Senza bottiglie scure non si può fare la rifermentazione in bottiglia. Solo Cristal in Champagne usa bottiglie bianche, ma tenute al buio. Lo stesso vale per il metodo classico italiano (sempre di rifermentazione in bottiglia si parla), ma anche per gli spumanti fatti in autoclave (il Prosecco appunto). Per avere un’idea, s’imbottigliano 300 milioni di Champagne, gli italiani tappano un miliardo di bottiglie, gli spagnoli 250 milioni. Va bene solo ai tedeschi che fanno tante bollicine ma così leggere che, comunque, non passerebbero l’anno e dunque non hanno bisogno di protezione dal sole, né di contenere le pressioni di rifermentazione. Il caso dei vetri confermerà invece agli inglesi che la Brexit è stata una mano santa. Sono i più forti consumatori di spumanti al mondo, ma sono anche coloro i quali li hanno resi possibile e ora ne producono di ottimi (ad esempio Bolney).
Il metodo di rifermentazione fu codificato da due marchigiani: Andrea Bacci (De naturalis vinorum historia del 1599) e Francesco Scacchi (1622, De Salubri potu dissertatio) mettono a punto la tecnica, tant’è che si potrebbe parale di un metodo Scacchi. Dom Pierre Pérignon arriva sessant’anni dopo. Ma i due italiani hanno un limite: le bottiglie di vetro soffiato scoppiano. In rifermentazione si arriva fino a 6 atmosfere di pressione. Però nel 1652 sir Kelem Digby cambiò tutto. Giorgio I aveva impedito di tagliare alberi per alimentare i forni vetrai, cosi Digby usò il carbone. Questo gli consentì di alzare le fusioni e mescolare carbonio alla pasta vitrea: nacque l’iper-resistente «English Bottle». Gli inglesi, primi clienti dei vini francesi, fecero con il vetro la fortuna dello Champagne. E questo spiega perché le bottiglie sono pesanti e scure (fino a 9 etti per il metodo classico, 700 grammi quelle da Prosecco, mezzo chilo quelle da vino, anche se l’italiana Verallia ha prodotto la Borgne Aire di soli tre etti). Ma l’Europa non lo sa o fa finta. Perché attraverso le bottiglie (produrre un chilo di vetro vergine vale 500 grammi di CO2, ma nel 2024 l’Italia col riciclo ha risparmiato quasi 1 milione di tonnellate di anidride carbonica, 358.000 tonnellate di petrolio e 3,8 milioni tonnellate di materiali) ha capito che può frenare la crescita di alcuni Paesi. Solo che ora dovranno spiegarlo ai vigneron francesi, che da mesi protestano e hanno già estirpato 12.000 ettari di vigna. Ci sta che a Bruxelles dalle cantine arrivi un messaggio in bottiglia: o lasciate perdere, o i trattori che il 18 stanno per circondare palazzo Berlaymont sono solo un aperitivo.
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Maurizio Gasparri (Ansa)
Sono le 20.30, Andrea finisce il suo turno e sale negli spogliatoi, al piano superiore, per cambiarsi. Scendendo dalle scale si trova davanti ad un uomo armato che, forse in preda al panico, apre il fuoco. La pallottola gli buca la testa, da parte a parte, ma invece di ucciderlo lo manda in coma per mesi, riducendolo a un vegetale. La sua vita e quella dei suoi genitori si ferma quel giorno.
Lo Stato si dimentica di loro. Le indagini si concludono con un nulla di fatto. Non solo non hanno mai trovato chi ha sparato ma neppure il proiettile e la pistola da dove è partito il colpo. Questo perché in quel supermercato le telecamere non erano in funzione. Nel 2018 archiviano il caso. E rinvio dopo rinvio non è ancora stato riconosciuto alla famiglia alcun risarcimento in sede civile. Oggi Andrea ha 35 anni e forse neppure lo sa, ha bisogno di tutto, è immobile, si nutre con un sondino, passa le sue giornate tra il letto e la carrozzina. Per assisterlo, al mattino, la famiglia paga due persone. Hanno dovuto installare un ascensore in casa. E ricevono solo un indennizzo Inail che appena gli consente di provvedere alle cure.
Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della commissione Giustizia del Senato, è sconcertato: «Sono profondamente indignato per quanto accaduto a questa famiglia, Andrea e i suoi genitori meritano la giustizia che fino ad oggi gli è stata negata da lungaggini e burocrazia. Non si capisce il motivo di così tanti rinvii. Almeno si giunga a una sentenza e che Andrea abbia il risarcimento che merita dall’assicurazione. Anche il datore di lavoro ha le sue responsabilità e non possono non essere riconosciute dai giudici».
Il collega senatore di Forza Italia, nonché avvocato, Pierantonio Zanettin, anche lui membro della stessa commissione, propone «che lo Stato si faccia carico di un provvedimento ad hoc di solidarietà se la causa venisse persa. È patologico che ci siano tutti questi rinvii. Bisognerebbe capire cosa c’è sotto. Ci devono spiegare le ragioni. Comunque io mi metto a disposizione della famiglia e del legale. La giustizia ha l’obbligo di rispondere».
Ogni volta l’inizio del processo si sposta di sei mesi in sei mesi, quando va bene. L’ultima beffa qualche giorno fa quando la Corte d’Appello calendarizza un altro rinvio. L’avvocato della famiglia, Matteo Mion, non sa darsi una ragione: «Il motivo formale di tutti questi rinvii è il carico di lavoro che hanno nei tribunali, ma io credo più nell’inefficienza che nei complotti. In primo grado era il tribunale di Padova, adesso siamo in Corte di Appello a Venezia. Senza spiegazioni arriva una pec che ci informa dell’ennesimo rinvio. Ormai non li conto più. L’ultima volta il 4 dicembre, rinviati all’11 giugno 2026. La situazione è ingessata, non puoi che prenderne atto e masticare amaro».
In primo grado, il giudice Roberto Beghini, prova addirittura a negare che Andrea avesse diritto a un indennizzo Inail, sostenendo che quello non fosse un infortunio sul lavoro. Poi sentenzia che non c’è alcuna connessione, nemmeno indiretta, tra quanto successo ad Andrea e l’attività lavorativa che stava svolgendo, in quanto aveva già timbrato il cartellino, era quindi fuori dall’orario di lavoro, non era stata sottratta merce dal supermercato, né il ragazzo era stato rapinato personalmente. Per lui non è stata una rapina finita male. Nessuna merce sottratta, nessuna rapina. Il giudice Beghini insinua addirittura che potrebbe essere stato un regolamento di conti. Solo congetture, nessuna prova, nulla che possa far sospettare che qualcuno volesse fare del male al ragazzo. Giusto giovedì sera, alle 19.30, in un altro Prix market, stavolta a Bagnoli di Sopra (Padova), due banditi hanno messo a segno una rapina armati di pistola. Anche stavolta non c’erano le telecamere. Ed è il quarto colpo in nove giorni.
Ciò che è certo in questa storia è che il crimine è avvenuto all’interno del posto di lavoro dove Andrea era assunto, le telecamere erano spente e chi ha sparato è entrato dal retro dell’edificio attraverso un ingresso lasciato aperto. In un Paese normale i titolari del Prix, se non delle colpe dirette, avrebbero senz’altro delle responsabilità. «L’aspetto principale è l’assenza di misure di sicurezza del supermercato», conclude Mion, «che avrebbero tutelato il personale e che avrebbero consentito con buona probabilità di sapere chi ha sparato. C’è una responsabilità della sentenza primo grado, a mio avviso molto modesta».
Per il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia e oggi membro della commissione Giustizia della Camera, «ancora una volta giustizia non è fatta. Il responsabile di quell’atto non è stato trovato, abbiamo un ragazzo con una lesione permanente e una famiglia disperata alla quale è cambiata la vita da un momento all’altro. È loro diritto avere un risarcimento e ottenere giustizia».
L’assicurazione della Prix Quality Spa, tace e si rifiuta di pagare. Sapete quanto hanno offerto ad Andrea? Cinquantamila euro. Ecco quanto vale la vita di un ragazzo.
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Beppe Sala (Ansa)
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
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