2022-05-28
Dai sindacati ai Pro vita: la censura è norma
(Illustration by Rafael Henrique/SOPA Images/LightRocket via Getty Images)
Manifesti rimossi, manifestazioni negate: silenziare chi dissente è ormai la regola mentre dicono che a tutti viene concesso il diritto di parlare. Ma gli spazi di libertà anche fisici, come vie e piazze, si riducono. E il sistema attacca e insulta chi la pensa diversamente.L’obiezione viene ripetuta di frequente, e in effetti fa presa. «Non esiste alcuna censura», dicono i liberal-progressisti. «Infatti le televisioni, la Rete e persino i giornali sono pieni di «critici del sistema» a cui viene «concesso di parlare». Insomma, la sensazione di accerchiamento e la percezione di una riduzione concreta della libertà di espressione sarebbero il frutto della paranoia complottista o del vittimismo populista: una menzogna alimentata ad arte dai propagandisti destrorsi. Solitamente, d’altronde, questo genere di discorsi sulla libertà effettiva della discussione pubblica si concludono con qualche sincero democratico che grida: «Vattene in Russia, così scoprirai che cos’è la vera censura!». L’argomento, a ben vedere, è ormai trito. Ma non è mai stato affrontato con la giusta profondità. È divenuto, come quasi ogni discussione di questi tempi, un’attrazione baracconesca per i talk show, una litigiosa messinscena utile a infiammare l’arena di Twitter. Intanto che ci si perde nelle opposte tifoserie, però, accade qualcosa di molto vero e dolorosamente tangibile. Gli spazi di libertà si stanno riducendo (piuttosto velocemente, per altro) senza che i più se ne accorgano. E non soltanto sul palcoscenico catodico, sulle prime pagine dei giornali o nel circo dell’intrattenimento multimediale. No: le aree di libertà si riducono nelle strade, nelle piazze, nei luoghi in cui dovrebbe, teoricamente, manifestarsi la democrazia pratica, che è poi l’unica che conti. Questo slittamento del liberalismo reale verso la dimensione autoritaria non preoccupa l’opinione pubblica, anzi una parte di essa è convinta, così come ne sono convinte le élite, che la limitazione della libertà sia necessaria, opportuna, e auspicabile. Hanno suscitato un certo scalpore, sulle piattaforme social, le esternazioni del commissario per sicurezza digitale dell’Australia, Julie Inman Grant. Costei, parlando al World economic forum di Davos, ha sostenuto che «dovremmo ricalibrare un’ampia gamma di diritti umani, tra cui quello alla libertà di parola». Curiosamente, quando personaggi del genere parlano di rimettere in discussione i diritti, di solito si tratta dei diritti altrui, poiché a nessuno di loro viene imposto di tacere o di non proferire le bestialità che dicono. In ogni caso, Davos è anche luogo di esagerazioni e smargiassate. Di dichiarazioni simili, per altro, ne abbiamo sentite a bizzeffe. Ricordiamo le uscite di Mario Monti sulla necessità di ridefinire la libertà di stampa, e i mille editorialisti che, da vari palchi, hanno invocato la mordacchia per i nemici della scienza, i razzisti, gli omofobi e compagnia mostrificata. Al netto delle parole, tuttavia, il punto davvero preoccupante è che l’approccio del commissario australiano si sta realmente diffondendo in Europa, transitando dallo spazio verbale a quello fisico. Oggi a Roma, ad esempio, avrebbe dovuto tenersi una manifestazione organizzata da Casapound, un movimento che, fino a prova contraria, è stato giudicato idoneo dalle istituzioni a partecipare alle elezioni democratiche. Quella manifestazione non si terrà, con la scusa di presunti rischi per la sicurezza: il corteo di Cpi avrebbe messo in pericolo il corteo organizzato nello stesso giorno dall’Anpi. Sarebbe bastato separare le due sfilate, come già avvenuto in passato, ma si è colta la palla al balzo per zittire una voce critica. Quanto all’Anpi, per ritornare «presentabile» agli occhi dei sinceri democratici (che l’hanno storicamente sostenuta e foraggiata), ha dovuto sottoporsi a una sorta di rieducazione filo atlantica. Una fetta della popolazione non si scandalizza per quanto avvenuto a Roma perché non condivide le posizioni di Casapound, ed è perfino comprensibile. Ma è anche molto pericoloso. Perché con motivazioni analoghe, nei mesi scorsi, sono state vietate le manifestazioni contro il green pass e contro i lockdown. Segno che la censura colpisce a prescindere dal colore, accanendosi su tutti coloro che si oppongono al pensiero prevalente. E se oggi tocca ai «fascisti brutti e cattivi», domani può toccare (di nuovo) ai portuali o agli insegnanti. Anzi, in parte è già accaduto: ai sindacati è stata negata piazza Montecitorio a Roma per lo sciopero della scuola di lunedì. Stesso discorso si può fare per l’ennesima vigliaccata commessa ai danni di Pro vita. Ogni volta che l’associazione realizza un manifesto contro l’aborto e ne paga regolarmente l’affissione, quel manifesto viene rimosso perché giudicato offensivo. La discriminazione ha irritato persino uno stimato progressista come Vladimiro Zagrebelsky, ma nei fatti continua a verificarsi. Giusto ieri La Stampa ha pubblicato in prima pagina l’intervento di Laura Onofri , presidente di Se non ora quando di Torino, secondo cui è opportuno rimuovere i manifesti che «umiliano le donne». Nel frattempo, anche se il Parlamento ha rigettato a maggioranza il Ddl Zan, nelle scuole si organizzano liberamente iniziative di indottrinamento arcobaleno, si promuovono le «carriere alias» su cui la popolazione non si è mai espressa e via di questo passo. Cartelloni negati ai militanti Pro vita, manifestazioni cancellate ai movimenti identitari, piazze negate a chi combatte il regime sanitario: tutto questo, da almeno un paio d’anni, è divenuto norma. Sono norma le conferenze negate (è successo di recente a Milano per un incontro sulle foibe), i libri banditi da Amazon o dalle grandi catene, le case editrici cacciate dalle grandi manifestazioni editoriali (come il Salone del libro di Torino, di cui si fanno grandi elogi sui principali quotidiani). Ormai passa inosservato pure il bando agli intellettuali russi sancito da una marea di istituzioni culturali italiane. Esattamente come sono passate senza troppe difficoltà le sospensioni degli accademici e dei medici contrari al green pass e all’obbligo vaccinale. Non sorprende più di tanto, dunque, che con il decreto legge «Disposizioni in materia di energia e imprese», precisamente all’articolo 51, comma 10, venga attribuita all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) «il compito di vigilare sull’osservanza, da parte degli operatori del settore, del divieto di diffondere o consentire la diffusione dei contenuti proposti dai canali di informazione Russia Today e Sputnik». Sapete che significa? Che è stata introdotta una censura a norma di legge: l’informazione russa deve essere bloccata. Ad averci un po’ di sale in zucca ci si domanderebbe: che cosa verrà dopo? Ecco, questa non è teoria, non è smargiassata da kermesse globalista: è pratica. È la realtà di un sistema che mantiene una parvenza di democrazia nelle sue manifestazioni esteriori (talk show, giornali, discussioni politiche) ma che, appena può, opta per l’intimidazione, l’insulto, la mistificazione, l’attacco personale e violento. Sono in tanti a dirsi fieri della democrazia liberale, ma viene il sospetto che a maggior dosi di liberalismo corrispondano minori quantità di democrazia.
(Ansa)
Lo ha detto il Commissario europeo per l'azione per il Clima Woepke Hoekstra a margine del Consiglio europeo sull'ambiente, riguardo alle norme sulle emissioni di CO2 delle nuove auto.