Il segretario dem: «Il M5s io l'ho battuto». Matteo Renzi: «Mai con chi ci insulta». E poi...Per fortuna che Victor Hugo è morto da un pezzo, altrimenti avrebbe avuto difficoltà a coniare uno dei suoi più fortunati aforismi - «Credo ciò che dico, faccio ciò che credo» - guardando a quel che sta accadendo attorno al nuovo governo. Un esecutivo guidato dallo stesso premier che due mesi fa sorrideva accanto a Matteo Salvini, mostrando alle telecamere con orgoglio il testo del decreto sicurezza bis, e oggi stringe la mano al segretario dem Nicola Zingaretti, aiuto regista - l'art director dell'operazione è stato Matteo Renzi - dell'inciucio giallorosso. Ipotesi impossibile, fantasmagorica, per lo stesso fratello del commissario Montalbano fino a poche settimane fa. Quando a Matrix, su Canale 5, giurava: «Non ci sono le condizioni politiche per fare un accordo di governo con il M5s, la pensano così anche i gruppi parlamentari Pd, mi sento di parlare anche a nome loro. È quello che dico da 8 mesi» (giugno 2019). E meno male. Tra un'ospitata e l'altra, Zingaretti ribadiva il concetto anche sui social («Un accordo con il M5s? Dico di no, sono state abbandonate le periferie») e nelle note stampa («Smentisco per l'ennesima volta l'ipotesi di un governo tra il Pd e il Movimento 5 stelle: nel caso in cui si arrivasse a una crisi per noi la via maestra è nuove elezioni. Ogni ipotesi diversa è destituita di ogni fondamento»). Ecco, sapete come poi è andata a finire. E quando qualcuno dei suoi (leggi Dario Franceschini) lanciava il sasso e nascondeva la mano, lui subito correva a mettere le cose in chiaro: «Nessun governo con il M5s è alle porte e nessun governo con il M5s è l'obiettivo del Pd» rimbrottava. Idee chiarissime, insomma. E siamo al 22 luglio, poco più di un mese fa. Quattro giorni dopo, riformulava il concetto: «Non perseguiamo un'alleanza con i 5 stelle, non è nelle intenzioni, non è mai stato il nostro obiettivo. Questa discussione inizia a essere vecchia, superata dalla storia». Indefesso, il 31 luglio fedele al motto repetita iuvant, Nicola Zingaretti articolava anche un pensiero un po' più compiuto e spiegava perché non avrebbe mai celebrato il matrimonio coi grillini: «Di Maio sta distruggendo il Sud dell'Italia». E proprio in zona Cesarini, quando ormai iniziavano a sentirsi gli scricchiolii dell'alleanza gialloverde, il capo del Pd l'11 agosto «con franchezza» diceva ancora «no» a «una esperienza di governo Pd-M5s per affrontare la drammatica manovra di bilancio e poi magari dopo tornare alle elezioni». Come, peraltro, aveva sostenuto subito dopo le politiche del 2018, ospite da Fabio Fazio, l'ex premier Matteo Renzi annunciando: «Non dobbiamo e non vogliamo fare un accordo con il Movimento 5 stelle». Su Twitter, era stato ancor più corrosivo (17 luglio 2019): «Oggi i giornali rilanciano accordo coi 5 stelle. Penso a Di Maio/Gilet Gialli, Di Battista contro Obama, Lezzi sul Pil, Taverna sui vaccini, scie chimiche, vaccini, Olimpiadi, Tav, allunaggio. E ripeto forte e chiaro il mio No all'accordo con questi #SenzaDiMe». Aggiungendo subito dopo: «Qualcuno dei nostri forse vorrebbe provarci davvero, chissà. L'idea di un'alleanza con i 5 stelle per me non è un colpo di genio, ma un colpo di sole». Addirittura, ai giornalisti che ancora gliene chiedevano conto, quasi annoiato spiegava che non sarebbe «mai» rimasto in un partito alleato dei grillini. «Mai. Può dirlo forte, scrivetelo anche in grassetto». Il motivo era molto semplice: «Se vorranno fare un accordo con chi ci dice che siamo il partito dell'elettroshock e che ruba i bambini alle famiglie, vadano loro a spiegarlo alla nostra gente. Io non ci sarò...». E, per chiudere il discorso, aveva fatto ricorso a un esempio: «La sinistra e i 5 stelle sono due rette parallele che sono destinate a non incontrarsi». Ma probabilmente si riferiva alla geometria non euclidea considerato che non solo si sono incontrate, ma governeranno anche assieme.
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.