2021-08-03
Così Padoan e compagni del Pd hanno cacciato Mps in un vicolo cieco
Quando era al Mef, ha assistito al collasso del sistema creditizio, riservando solo ai senesi il «privilegio» della nazionalizzazione. Era una garanzia per la filiera rossa, ma è passato ai piani alti di piazza Gae AulentiOltre al francese, Pier Carlo Padoan parla un ottimo inglese. Molti lo definiscono il miglior accento tra chi è passato al governo, dopo Vittorio Grilli e alla pari di Mario Draghi. Non c’è da stupirsi. Padoan, nato a Roma, trascorre la sua infanzia in Canada e torna in Italia per studiare alla Sapienza e darsi alla carriera di docente a Bruges, Varsavia, La Plata e Tokyo. Con un passaggio veloce all’università di Siena, dove ha ricevuto la sua prima borsa da ricercatore. Solo nel 1998 molla Critica Marxista per diventare consigliere economico di Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio. Una carica che mantiene anche sotto il successore Giuliano Amato. In quegli anni, Padoan è anche responsabile per il coordinamento della posizione italiana nei negoziati dell’Agenda 2000 per il bilancio Ue, l’Agenda di Lisbona, il Consiglio europeo, gli incontri bilaterali e i vertici del G8. L’uomo perfetto per la Ue. In lui una grande convinzione, quella di rappresentare una sinistra che ama l’austerity e poco sopporta Keynes. Tant’è che sposa le teorie blairiane (celebre è il libro condiviso con Nicola Rossi e Marcello Messori) che lo accompagnano in tutte le sue trasferte europee. Dove sfoggia cravatte poco made in Italy, capelli spettinati e quel multilinguismo con un tocco di francese. Il background perfetto per portare avanti una carriera a metà strada tra le istituzioni e i Ds. Un po’ Fondazione Italianieuropei, un po’ direttore esecutivo per l’Italia al Fondo monetario. Un po’ economista per i Ds e un po’ vice segretario generale e capo economista dell’Ocse.Per tutti questi pregi, almeno così la pensavano i vertici del Nazareno, nel 2014 il Pd lo identifica come l’uomo giusto per fare la crescita all’estero. Per lasciarsi alle spalle i progetti targati Italia e guardare a una nuova era multiculturale fatta di un’Europa sovrana e di grandi progetti infrastrutturali e bancari capaci di valicare i singoli confini. Per questo non bastava Letta. Ci voleva una figura ancora più internazionale, uno in grado di essere criticato almeno da Paul Krugman. Così, Matteo Renzi lo chiama a fare il ministro dell’Economia e gli offre la poltrona più importante del Mef, dove resta fino al 2018. Nel frattempo, le sorti progressive si scontrano con la realtà e i fatti non vanno come il Pd se li immaginava. I due mandati di Padoan corrispondono al periodo più nero del sistema bancario italiano. E in molti dossier anche grazie al suo intervento. Viene introdotto il bail in. Va in liquidazione coatta Banca Etruria, assieme ad altre tre popolari. Saltano le due big Venete, vendute poi a Intesa per un euro. Sempre sotto la regia di Padoan viene dissanguato il fondo Atlante, sostenuto dalle fondazioni bancarie, e infine «celebrato» il salvataggio di Mps tramite l’ormai celebre ricapitalizzazione precauzionale. Nessun ministro era mai riuscito a infilare tanti successi in un lasso di tempo così stretto in grado di imporre un decreto salvagente da 20 miliardi. È sempre a Padoan che si deve il passaggio più delicato della vita del Monte dei Paschi di Siena. A settembre 2016 Fabrizio Viola, ad di Mps, viene costretto a lasciare e accompagnato alla porta - pare con una telefonata - proprio da Padoan che, a nome dell’allora premier Renzi, chiede al banchiere di fare un passo indietro per favorire il buon esito dell’aumento di capitale da 5 miliardi che sarebbe stato garantito dagli americani di Jp Morgan. Dopo poco, anche il successore di Alessandro Profumo alla presidenza, Massimo Tononi, si dimette in disaccordo con Padoan. L’aumento di capitale poi fallisce a fine 2016 insieme al governo Renzi, e nel luglio 2017 Padoan deve aprire il paracadute pubblico con 5,4 miliardi, facendo diventare così il Mef primo azionista del nuovo Monte di Stato. Il Pd, grazie all’economista dell’Ocse, riesce a mantenere una buona fetta di occupazione a Siena, tanto che quando bisogna trovare un posto a Padoan, nel frattempo diventato ex ministro, si va a bussare proprio a Siena. Operazione riuscita. Padoan viene eletto e trova un seggio in Parlamento, dove assiste in silenzio all’evolversi del Conte uno e di una parte del Conte bis. Poi, a ottobre 2020, si consuma un tradimento politico tutto interno alla sinistra. Fino ad allora i gruppi di riferimento dei Ds e di un pezzo della Margherita hanno sempre visto in Padoan e pure in Gentiloni (fu lui a firmare il salvataggio di Mps) una sorta di garanzia. Come se potessero evitare lo spezzatino della banca, magari per fare in modo che la storia dell’istituto non divenisse troppo pubblica. Poi a metà ottobre Profumo e Viola vengono condannati a sei anni. Qualcosa nell’equilibrio si rompe. Padoan, per molti a sorpresa, annuncia che lascia il seggio per diventare presidente di Unicredit, la banca che oggi si trova a trattare con il Mef l’acquisto delle parti sane di Mps. In contemporanea, parte l’offensiva. Una fetta di piddini e di grillini attacca Profumo e ne chiede le dimissioni da Leonardo. Ma l’intento è un altro. Aggiungere al lungo elenco di contenziosi senesi nuove cause legali, con l’obiettivo di rendere il Monte ancor meno contendibile, ed evitare la vendita a terzi. Soprattutto a Unicredit. Non è un caso se grillini e Pd adesso insorgono. Chi avrebbe dovuto portare avanti un progetto è passato dall’altra parte della barricata. E ora tratta proprio per quello spezzatino che forse il premier Draghi ha fretta di apparecchiare. Chi ha di fatto nazionalizzato l’istituto ora fa il commissario Ue. Ma soprattutto Padoan arriva in una Unicredit molto cambiata. Quella di Jean Pierre Mustier voleva portare l’istituto in Lussemburgo per farlo diventare franco tedesco. Quella di Andrea Orcel guarda all’Italia e certo parla con scarso accento francese. In questo Padoan è partito dal Canada per finire alla periferia di Siena. Dopo essere stato dalemiano, renziano, gentiloniano si è girato dall’altra parte, pur sempre astenendosi in cda.
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
Continua a leggereRiduci