2021-09-11
Da quel giorno l’America è un po’ meno grande. E si è svegliato il Dragone
(Kevin Frayer/Getty Images)
L'attacco alle Torri Gemelle polarizzò gli Stati Uniti: da George W. Bush a Barack Obama fino a Donald Trump, classi operaie sempre più arrabbiate e giovani spinti a sinistra. La balbettante era Biden coincide con un appannamento dell'Atlantismo e la sfida in salita contro Pechino. È quasi banale ormai dire che l'11 settembre 2001 abbia segnato uno spartiacque nella storia americana. Eppure quell'evento ha effettivamente costituito un punto di svolta, che ha avviato in un certo senso quel processo di polarizzazione interna al panorama politico d'oltreoceano che oggi ben conosciamo. Una polarizzazione che è andata di pari passo con il declino del modello clintoniano della «globalizzazione» e che affonda le proprie radici in cause di varia natura. Innanzitutto, si scorge il nodo politico-militare. Nonostante inizialmente le guerre di Afghanistan e Iraq - volute da George W. Bush - fossero state appoggiate da gran parte dell'opinione pubblica statunitense, la situazione è progressivamente mutata. Il pantano in cui si sono trascinate, lo stillicidio delle guerriglie islamiste, il sostanziale fallimento dei processi di nation building: tutto questo ha prodotto un senso di frustrazione interna, non poi così dissimile dalla vecchia «sindrome del Vietnam». Ciò ha quindi contribuito alla balcanizzazione dell'opinione pubblica, oltre a un inasprimento della dialettica politica e a un complessivo irrigidimento delle relazioni transatlantiche. Non a caso Barack Obama si presentò nel 2008 come il candidato avverso alle «guerre interminabili»: un programma, il suo, che ha tuttavia alla fine peggiorato lo stato della crisi. L'idea che promozione della democrazia e lotta al radicalismo fossero due facce della stessa medaglia fu alla base della benedizione obamiana delle cosiddette «primavere arabe». Idealismo ingenuo? Consapevole (e machiavellica) diffusione del caos? Come che sia, quella strategia ha infiammato lo scacchiere mediorientale e nordafricano, con conseguenti disastri umanitari e problemi rilevanti per l'Europa (basti ricordare la crisi dei profughi siriani nel 2015). Un altro nodo è stato poi quello della crisi finanziaria del 2008. Un fattore che ha acuito le divisioni socioeconomiche interne agli Stati Uniti, avviato uno spostamento a sinistra delle giovani generazioni e inflitto un duro colpo all'immagine internazionale del modello capitalistico d'oltreoceano (a cui la globalizzazione clintoniana si improntava). A colpire negativamente l'immaginario collettivo fu il salvataggio pubblico delle banche, avvenuto su spinta di Bush. Ma anche Obama, che pure fece del contrasto agli effetti della crisi il punto centrale della sua agenda domestica, non riuscì a raddrizzare le storture accumulatesi negli anni sul piano del commercio internazionale. Una situazione, questa, che consolidò il malcontento della working class, lanciando la volata - nel 2016 - alle candidature di Donald Trump e Bernie Sanders. Pur trattandosi di fenomeni in sé stessi distinti, il pantano mediorientale e la crisi finanziaria del 2008 hanno tuttavia congiuntamente favorito l'ascesa militare, politica ed economica della Cina: un gigante che ha approfittato delle debolezze di Washington, per cercare di eroderne l'influenza. Insomma, rispetto all'11 settembre 2001, gli Stati Uniti registrano oggi un significativo ridimensionamento internazionale. Le relazioni transatlantiche sono ai minimi storici, la concorrenza di Pechino è molto più insidiosa, il Medio Oriente non si è ancora assestato, il jihadismo si diffonde in Africa. E questo, sia chiaro, è un problema non solo americano ma anche europeo. Se l'Occidente si sfalda, non sarà certo l' «autonomia strategica» di Macron a salvarci dalle brame di Pechino. Ecco che allora, dopo 20 anni, sarebbe forse necessario un ripensamento. La logica del bandwagon di marca neocon ha fallito, così come ha fallito il caos obamiano. Le relazioni transatlantiche dovrebbero quindi essere rilanciate all'interno di un discorso realista, che ricompatti l'Occidente su basi pragmatiche, intervenendo - sì - dove necessario, ma evitando al contempo crociate astratte. C'è tuttavia da chiedersi se Washington abbia oggi realmente intenzione di intraprendere questa strada. E se Bruxelles, dal canto suo, sia capace di lasciarsi alle spalle l'economicismo burocratico per iniziare a pensare in termini adeguatamente geopolitici. Il pessimismo è tanto: soprattutto alla luce di una presidenza americana irresoluta come quella di Biden. Ma se c'è una cosa che l'11 settembre dovrebbe averci insegnato è che, con buona pace delle avventate profezie di Fukuyama, la Storia non è finita. E che i mostri dell'ideologia e del fanatismo islamico non si battono né con la diplomazia sdentata né con gli apprendisti stregoni. Si battono, semmai, con il senso di realtà.
Papa Leone XIV (Getty Images)
Sergio Mattarella con la mamma di Willy Monteiro Duarte (Ansa)
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